L'intervista (Bar vicino alla televisione di stato, seconda decade del 2000) (NARRATIVA) ~ di Luigi Ananìa e Nicola Boccianti - TeclaXXI

 

NARRATIVA

 

Luigi Ananìa e Nicola Boccianti

 

L’intervista

(Bar vicino alla televisione di stato, seconda decade del 2000)


 

In un bar del centro punto d’incontro di artisti del Novecento un giovane giornalista intervista un famoso critico d’arte. Il giornalista nell’arco degli ultimi tre anni è stato molte cose: cantante, psicoterapeuta, consulente d’azienda, esperto di comunicazione.  Adesso è un tutt’uno con la veste di un raffinato editorialista. Il critico ha la barba rossiccia e un paio di occhiali spessi come schermi dietro ai quali s’intravede un occhio più in alto dell’altro. A differenza del giornalista, che lineamenti grossi. La sua personalità è un bizzarro impasto di un commerciante, un professore e un intellettuale fuoriuscito da quel popolo di provincia che un tempo si riuniva nelle piazze e parlava di agricoltura e di bestiame. La lentezza dei suoi modi contrasta con la velocità delle sue intuizioni annunciate ogni volta dall’innalzamento ulteriore dell’occhio più alto.

L’uno di fronte all’altro i due uomini parlano degli ultimi salotti dove si sono incontrati e del deficit economico e culturale. Concordano su vari punti e a intervalli regolari muovono ambedue le teste in segno di conferma delle reciproche opinioni. Nei momenti di maggiore sintonia il giornalista s’infervora e la sua voce assume intonazioni acute che si diffondono oltre il marciapiede.

A un certo punto il vento di primavera smuove un fiore di pesco, che disegnando una spirale nell’aria e girando più volte sopra la testa del giornalista si posa infine sulla sua chioma fluente; lui lo prende tra le dita e guarda in alto sentendosi partecipe della bellezza del creato.

Sa perché ha volteggiato sulla mia testa? - domanda al critico - perché ha sentito l’influsso dell’aura. Ognuno di noi ha un’aura, un alone di luce che rimane per sempre. Nell’aria ci sono migliaia di aure che solo le persone sensitive possono avvertire. Ma, a proposito di aura, parliamo dell’aura che si crea attorno a noi quando diventiamo celebri. Andy Warhol disse che quando diventi celebre nessuno più ti disprezza anche se sei un gran imbroglione. Secondo lei l’aura che si crea per l’avvento della celebrità ci preserva dal giudizio morale?” 

Il critico rotea in alto l’occhio più espressivo, posa una lunga mano pelosa sul tavolo e dice con voce bassa e altalenante: “Penso che sia inevitabile che la nostra aura influenzi i giudizi che gli altri danno su  di noi; se da un lato, come lei dice, solo le persone sensitive la possono recepire, penso che tutti quanti, magari a loro insaputa e ognuno a suo modo, ne siano condizionati. In particolare, quando l’aura assume la tonalità della celebrità colloca chi la possiede su un diverso piano. Penso in particolare ad un’epoca come quella attuale, in cui il senso del Sacro ha perso le sue espressioni più tradizionali: se qualcuno con un bisogno intenso e insoddisfatto di assoluto entra in contatto con una persona la cui aura contiene anche solo un pizzico di celebrità, è molto probabile che la proietterà in un mondo ideale e la trasformerà attribuendole caratteristiche ultraterrene. Non è facile analizzare il materiale di cui è fatto l’alone che circonda le persone celebri, è però molto probabile che abbia tra i suoi componenti anche un materiale misterioso, un materiale che in passato era particolarmente adatto a rivestire le figure mitologiche riuscendo in qualche modo a conferire loro una forma di immunità: gli dèi e gli eroi avevano pregi e difetti, ma erano comunque oggetto di venerazione e di rispetto e non erano certo soggetti al giudizio morale”.

 Sì, sì, è vero - dice il giornalista agitando la chioma e inarcandosi sulla sedia per l’entusiasmo - quel che dice mi fa pensare alla fotografia sulla cattura del boss della camorra Antonio Iovine. In quella fotografia il boss Antonio Iovine ride felice fra gli agenti che ridono e il suo viso non ha l’espressione di chi un giorno sarà giudicato. Come dice l’autore dell’articolo accanto alla fotografia, il riso del boss non è un riso spavaldo di sfida,  ma  un riso  di chi in quel momento si sente il protagonista  di un racconto pubblico di cui lui è l’eroe. Guardando con attenzione l’immagine sembra che lo scatto dell’obbiettivo crei un alone di luce intorno al suo viso e lo ponga al centro di una comunità vivente tra il reale e l’onirico. Lei crede che la creazione e la riproduzione seriale delle immagini possa rendere evanescente il pensiero del giudizio?”

Il critico, che ha sempre la mano pelosa adagiata sul tavolo come una bestia morta, muove lento il capo e dice: “Nel rispondere alla sua domanda non posso non pensare al grande contributo che ha dato allo studio di questo fenomeno Walter Benjamin. Questo studioso, in un classico dell’estetica del secolo scorso dal titolo "L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, riflette sulle conseguenze della riproduzione delle rappresentazioni artistiche sostenendo che questa distrugge un aspetto caratteristico dell’opera d’arte: quello di avere un’esistenza limitata al “qui e ora”. Benjamin prende atto di questa rivoluzione avvenuta nel mondo dell’arte senza assumere un atteggiamento nostalgico, ma guardando al futuro e considerando tutti i risvolti del fenomeno: da un lato l’arte diventa accessibile alla grande massa, dall’altro la sua riproduzione in serie, oltre a eliminarne l’unicità, la priva anche del senso di autenticità e le impedisce di esercitare quell’autorità che traeva dal fatto di essere l’originale. Secondo Benjamin la riproduzione seriale determinerebbe la “Verfall der Aura”, cioè la distruzione dell’Aura, di quell’alone magico che circonda l’opera d’arte. La questione però non è così semplice come sembra; il destino dell’Aura ha assunto dei risvolti imprevedibili in quanto anche lei, come l’Araba fenice, dopo essere morta è rinata dalle proprie ceneri, è riapparsa, e lo ha fatto proprio nello stesso modo in cui era stata eliminata: tramite la riproduzione seriale delle immagini. Qualsiasi immagine originale, sebbene considerata immortale e conservata con cura, prima o poi inevitabilmente deperisce, la sua riproduzione invece potrebbe replicarsi all’infinito e guadagnare così una nuova forma di eternità. In quest’ottica è quindi verosimile che dietro al sorriso del boss arrestato ci sia il compiacimento di un protagonista consapevole che la propria immagine, “immortalata” dalla fotografia, si espanderà nel tempo e nello spazio, supererà i confini del “qui e ora” e acquisirà la sua Aura.”

Il giornalista lo guarda ammirato per la dotta citazione e, confuso dall’occhio del critico che s’innalza alla fine del discorso, sente il bisogno di riprendersi; si passa la mano sui capelli e raddrizzandosi sulla sedia erompe in un “Ah”, un grido che non s’intende se sia di sorpresa, di dolore o di felice disappunto; tutti i clienti del bar si voltano e lui riattacca in tono febbrile:

Ah, ma come! Va bene per le opere d’arte, per l’arte, ma per gli esseri umani….. , ma come, allora noi uomini non confidiamo in noi stessi e confidiamo adesso nelle immagini di noi stessi, ci identifichiamo  con le nostre riproduzioni tecniche; ma allora che  ne è della nostra evoluzione, che ne è dello sviluppo delle forme, delle capacità e delle imperizie, che ne è degli andamenti particolari delle emozioni e dei sentimenti, che ne è della rivelazione di ogni singola creatura dell’universo, che ne è di un fiore?  Un fiore che aprendosi esprime una teoria di colori e di forme che compongono d’incanto la bellezza proveniente dalla lunga storia del creato. Ma forse adesso non ci interessa più la storia, l’influsso del tempo, l’espressione, i cambiamenti delle composizioni e delle parti, forse adesso ci accontentiamo delle superfici, degli involucri e viviamo come esseri incompleti.  Al massimo vogliamo essere illuminati, allargati, le nostre immagini ingrandite dalle luci e dagli sguardi del prossimo che ci proiettano e ci duplicano trasferendoci tutti in un universo di esseri riprodotti in un’unica dimensione”.

Intanto una piccola folla si raccoglie attorno al bar e qualcuno li riconosce come personaggi pubblici apparsi tante volte sugli schermi. Il critico non si accorge di niente e alza di scatto la testa con l’occhio che fuoriesce dall’orbita come attratto da una forza celeste: “Della luce di cui lei parla - dice a bassa voce- ne abbiamo bisogno tutti e…”, ma s’interrompe poiché una luce vera e propria proveniente da una grande lampada bianca gli illumina il viso. Tra la folla si è infiltrata una compagnia di tecnici che si danno da fare per montare un gruppo elettrogeno. Inoltre, prima un fotografo, poi due, tre e altri ancora si appostano sul marciapiede. Una miriade di flash brilla sulle teste dei clienti che incominciano a volgersi tutti dalla stessa parte. Il critico e il giornalista si rendono conto di essere al centro dell’attenzione e si alzano avvicinandosi alla lampada bianca che scorre verso di loro; ma nel momento che si alzano si urtano e si respingono. L’urto delle teste è violento e il critico colto da una paresi si blocca con la schiena piegata all’indietro e l’occhio prominente rivolto al cielo. Quando viene smosso da un medico accorso in suo aiuto, barcolla ma poi torna nella stessa posizione con l’occhio sempre più l’alto folgorato da un raggio di sole che esce da uno spiraglio tra le nuvole. Una ragazza gli accarezza la barba e gli dice che gli sembra la versione maschile di santa Teresa d’Avila. Il giornalista è riverso a terra circondato da una folla che cerca di risvegliarlo. Tutti accorrono e lo scuotono ma lui giace inerte sul marciapiede con la chioma che gli nasconde il volto. Poi nel parapiglia di medici, infermieri e curiosi si sente il crepitio di un bottiglia che cade e il giornalista rinviene; scopre il viso dalla chioma fluente e si rivolge sorridendo ai suoi soccorritori: “Ecco sentite, questa è la mia aura che s’infrange, s’infrange ma non scompare perché si ricostituisce…..si ricostituisce dall’energia che si sprigiona dalle vostre emozioni, l’energia che creerà dal nulla la materia  della mia nuova aura”.

 [Una precedente versione di questo racconto si trova in Storie di volti e di parole (DeriveApprodi, 2016]

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LUIGI ANANÌA 


BIONOTA 

Luigi Ananìa si laurea in scienze agrarie presso l'università di Firenze nel 1986. Da allora scrive racconti e fa vino rosso a Montalcino presso l'azienda La Torre. Con la casa editrice Pequod ha pubblicato Il signor Ma (2000) e Cos'è questa nuvola (2011). Presso le edizioni DeriveApprodi ha curato l'antologia di racconti sul vino Confesso che ho bevuto (insieme a Silverio Novelli, 2004) e ha pubblicato Avant'ieri, storie di emigrazione tra la Sila, Torino e Buenos Aires (2009), Pixel, la realtà oltre lo schermo dei media (di nuovo insieme a Silverio Novelli 2012), Storie di volti e parole (2016) e  Bestiario umano (2021), ambedue in collaborazione con Nicola Boccianti. Ha scritto racconti per Il sempliceMaltese narrazioni e Nuovi Argomenti. 


NICOLA BOCCIANTI 


BIONOTA

Lavora a Roma come psichiatra e psicoterapeuta. Deve la sua formazione analitica a Mario Trevi e quella clinica a Giovanni Carlo Zapparoli. E’ stato per vari anni dirigente psichiatra di I° livello presso la ASL RM/A. Ha pubblicato contributi sulla salute mentale presso diversi editori tra i quali Bollati Boringhieri, DeriveApprodi, Dialogos Edizioni, Letteraventidue Edizioni, Treccani.

 

 

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