Testimonianze di resurrezioni - I. Treno (NARRATIVA) ~ di Ksenija Skliar - TeclaXXI
NARRATIVA
Testimonianze di resurrezioni
I. IL TRENO
di Ksenija Skliar
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I.
Treno.
Un pensiero mai avvolto
di parole può valer qualche obolo? Non mi pare. Un pensiero non incarnato
tormenta il suo portatore (genitore? pensatore?), invano. Appena un pensiero
inizia a farsi crescere qualche parola addosso la sofferenza di colui che lo
pensa diventa ancora più acuta: ogni pensiero diventa dozzinale, stupido, non
necessario, nel miglior dei casi potrebbe valere appunto un obolo.
Non a caso parlo dell’obolo,
perché ci sarà un paziente traghettatore da qualche parte, in attesa, con la
sua camicia azzurra troppo stretta intorno alla pancia, a fumare e a girare il
suo komboloi, il rosario greco, in finta ambra, lui, Caronte, un
traghettatore qualsiasi, elleno o barbaro. Questo qui è un cipriota, nato al
nord, a Karavas, o più a est, a Karpas, sul corno sottile dell’isola toccato in
sorte ai turchi. Mentre guida la sua anziana Mercedes lo senti rispondere a una
chiamata in un arabo mieloso: lui va perfettamente d’accordo con i caronti
turchi, nati da qualche parte al sud, in qualche paesino toccato in sorte ai
greci.
Chi non sa aspettare è il
treno, la forza che tagliava e ricuciva il mondo, e insieme al mondo l’anima dell’io
scrivente, negli anni Ottanta e Novanta, quando l’enorme impero di acciaio e
rubino, di feltro e piombo sembrava ancora in forze. Ecco, l’obolo rotola verso
le rotaie!
Sferragliante, verde di
vernice – fuori, marrone di finta pelle scrostata - dentro, ricolmo di odore
acidulo di metallo caldo e di quello dolciastro della stanchezza umana, il
treno violentemente mescolava borsoni rigonfi, morbidi come nuvole, valigie
rigide da portare in una mano (ecco il polso martoriato, le dita livide), respiri,
bottiglie, polli lessati, pomodori esausti e feriti, barattoli di pallidi
cetrioli fermentati avvolti negli steli di aneto stellato (dinosauri tra
equiseti giganti), asciugamani a nido d’ape, inamidati, saponette alla
fragolina di bosco, calzature, calzini grigi e marroni, famiglie con bambini,
nonne in vestaglia a fiori, uomini in canottiera slabbrata – wife-beater
alla Tennessee Williams, o, volendo evitare l’americanismo, “majka – alkogolička”,
“maglietta ubriaca” - e loro compagne poco amichevoli, sempre all’erta – alcune
di loro quasi sicuramente man-beater, ma nessuna man-eater – donne
robuste e compatte, unghie curatissime, laccate di rosa madreperla, mai di
rosso, in vista di una lunga vacanza.
Questi accostamenti
sempre nuovi e promettenti generavano nuovi universi, prevedibili e
rassicuranti: bambine e nonne giocavano a carte con altre bambine e altre
nonne, di provenienza sempre più esotica, dai nomi sempre più belli e insoliti,
i nomi più dolci li portano sempre le bimbe dagli occhi a mandorla, con
perfette treccine nere: Sabina, Kamila.
Uomini in canottiera si
riunivano per conversare intorno alla birra che si procuravano alle stazioni e
stazioncine, compiendo spedizioni lampo ai banconi fatti di pallet di legno situati
direttamente sulla banchina, gestiti da nonne o nonni locali. Credevo il loro
universo girasse intorno alle automobili, alla pesca, alla politica.
Le loro maestose compagne
creavano nuove sorellanze: chissà che misteri di Eleusi inaccessibili ai maschi
celavano, quasi fuoco assopito, sotto la cenere delle chiacchiere più banali:
tradimenti, parti e aborti, innamoramenti e invidie, jettature e fatture
gettate sulla testa di qualche bisnonna ancora nei tempi dello Zar, tra le quali
la temibile corona del nubilato o del celibato, madri e nonne, zie e figlie,
erinni ed eumenidi. Immancabilmente si scivola verso divinazioni e incantesimi
che assicurano docilità nel marito e salute nei figli, trionfo sulle rivali in
tutti i campi.
Il mondo intorno al treno
sembrava stanco, esangue, lo spazio e il tempo si trascinavano malinconici
lungo i binari, perdendo pezzi arrugginiti di tramonti e lunghi stracci di
nebbia. La vita vera si concentrava all’interno del treno, palpitava indomabile
come un cuore vermiglio, forte e sano, spingendo il benevolo drago di ferro
avanti, lontano dai fantasmi del mondo esterno.
Malinconiche erano le due
ragazze che contemplavano il mondo vespertino alla banchina di Buda Košelevskaja:
degne di Botticelli, volti ovali, lunghi capelli castani fluenti. La stazione
alle loro spalle era una villa di Palladio rimpicciolita, tinta di fresco,
color crema. Probabilmente aspettavano l’arrivo di un treno regionale che
avrebbe portato un’amica, i genitori che vengono dalla città a trovare le
figlie in vacanza estiva di novanta giorni. O forse aspettavano i fidanzatini?
Per prendere un’amica o i genitori non avrebbero calzato scarpine con tacco,
basso e sobrio, stabile, adatto alle stradine sconnesse intorno alla stazione.
Lo penso io, ora. All’epoca tra le ragazze di provincia non si usavano i keds,
calzature tipo converse si consideravano caricaturali. La malinconia
serale di provincia sarebbe stata un incanto irresistibile come pochi altri, se
non andasse sempre accompagnata dalla mortale noia serotina – «sirotina», vuol
dire orfanella – che avvelena i cuori dei giovani di tutte le latitudini. Le
ragazze di Botticelli si trovavano lì per esorcizzare quella gemella malefica
per mezzo di un sortilegio ferroviario: se il treno x passa con un ritardo y il
desiderio z si avvera.
Le ragazze di Botticelli
non dovevano per forza aspettare un treno, erano lì per un motivo ignoto per il
mondo caduco, erano forse colte da una illuminazione passeggera, investite da
un raggio impercettibile per il resto dell’umana tribù. Questo raggio senza
nome doveva aver sfiorato anche i miei occhi, altrimenti non avrei mai visto i
volti di Botticelli e la villa di Palladio, a Buda Košelevskaja.
Devo precisare che una cittadina con questo nome esiste, e sicuramente non ha
nulla in comune con l’immagine onirica che ne serbo: non ci sarà forse nessun
pezzo architettonico d’ispirazione palladiana.
Le memorie oniriche
proprie dell’infanzia e prima adolescenza non sono mai false o imprecise,
semplicemente sono oniriche, nonostante si formino nella mente del soggetto
vigile, non addormentato. Un nome reale si incolla – all’interno di questa
realtà adolescenziale-ferroviaria-itinerante – a una realtà sfuggita e
sfuggente. Un nome vagante abbandona il proprietario e si mette in camino per
attaccarsi al collo di un altro, e la vera e fedele Buda Košelevskaja resta a
casa, in attesa del ritorno del suo nome preso in prestito senza preavviso da
un nominatore non autorizzato. Nulla di
più, nulla di meno.
Là, dove regna la pace
onirica, vigono altre leggi e la bellezza si codifica diversamente, si usano
altre parole chiave. Quando si accenderanno i lampioni sulla banchina, l’edificio
della stazioncina diventerà giallo, i volti delle ragazze più rotondi, i
capelli più stopposi, addio lente malinconiche onde. Nugoli di moscerini
danzeranno intorno alle luci dei lampioni. Si andrà a casa, dalla nonna Vera
(Nina?), sessantenne, molto probabilmente sposata in seconde nozze con un
brav’uomo poco più giovane, in una casa senza libri, con una bella tovaglia
ricamata di papaveri. Sarebbe bello se le ragazzine di Botticelli, non solo
quelle che passeggiano di sera per Buda Košelevskaja, avessero babbi, nonni,
fratelli maggiori, buoni amici, presenza forte e stabile, rassicurante. Erano
poco più grandi di me, le ragazze di Botticelli, dunque, potevano ancora avere
entrambi i nonni viventi, magari sparsi per quell’ecumene euroasiatica che
negli anni Novanta si sarebbe disgregata tra sangue e maledizioni. Le mie
parole aderiscono male alla realtà, come tutte le parole in bocca di un essere
umano. Tutto ciò che ho appena detto è vero, nonostante il fatto che un paese
chiamato Buda Košelevskaja esista per davvero, ed è sicuramente diverso dal
cronotopo scorto dagli occhi della mia mente troppi anni fa. Potrebbe essere un
incanto paludoso, pallido e lento, senza tinte gialle e accenni palladiani, con
nonne cupe e rinsecchite, dai tratti duri, vedove, sorelle, figlie di
partigiani. Decine e centinaia di stazioni snocciolava il treno, centinaia e
migliaia di figure umane di tutte le età scorgeva l’osservatore in movimento.
Un raggio simile a quello di Buda Košelevskaja poteva colpire le retine in
qualsiasi momento, in qualsiasi punto, davanti al volto qualsiasi.
Di altre terre mi ricordo
la luce soffusa che avvolgeva i mostruosi neri cumuli, perfettamente conici,
che dominavano le steppe del Donbass, i monti di ganga solidificata con il
sangue di generazioni. Qui scorre un fiume che possiamo chiamare Anti-Lete, che
non permette di cadere nell’oblio, qui tutti i morti sono sempre presenti,
indossano slavate canottiere per il caldo schietto della steppa, e sono sempre
in dialogo, intorno ai lunghissimi, fino all’oltre l’orizzonte, tavoli sotto
l’ombra di polverosi vigneti di vite americana: gli scizi e i sarmati (ecco i
loro cavalli, a pascolare nell’infinito), i principi russi fratricidi e i
principi cumani loro cugini (tutti con gli occhi a mandorla), i cazari mercanti
e il biondo Achille: occhi di ghiaccio, labbra di brina, Ifigenia adolescente e
la sua schiera, non so se femminile o maschile, di sacerdoti e vittime
sacrificali, e i soldati russi e tedeschi appena distinguibili gli uni degli
altri (tutti hanno le sopracciglia bianche per la polvere della steppa), quelli
italiani (si segnano prima di mangiare), e poi, arcieri di tribù ancora senza
nome o descritti male dall’archeologo, tanti bambini morti in fasce, tante
contadine senza età con il capo velato. La pace è con loro, spero. Tutti ora
sono imbiancati dalla polvere della terra. Ma la luce increata, del monte
Tabor, che trascende ogni sole, ogni luna e ogni stella, non potrebbe
manifestarsi in questo modo? È solo una domanda.
Il treno e il mondo
intorno a esso erano lontani anni luce dal monte Tabor. E non mi resta che
parlare della luce che i miei giovani occhi hanno visto. Questa luce toglieva
all’occhio ogni particolare, costringeva a vedere l’inscindibile, il contratto,
l’agguerrito della terra trasformata in metallo. Il cuore della terra, enorme,
che si dilata giorno dopo giorno, pulsa lento, cercando di risparmiare energia
per altri millenni di lotte. Soltanto qualche secolo prima, la perfezione delle
steppe era spezzata da dolci dossi dei tumuli funerari carichi di cervi e tori
d’oro, di linci e lupi d’argento.
Era quasi sempre la
stessa estate spietata. Campi, steppa, boschi, città industriali, cittadine
dormienti, pioggia battente, e il sole, enorme e dolorante sopra la steppa e
spezzato in mille schegge in città. Il treno verde strappava il mondo estivo dei
suoi colori originali lasciando solo il grigio. Ci sarà stato qualche viaggio
invernale, tutto bianco e colorato di maglioni fatti in casa, con stelle e
renne, abeti e gufi, tè fumante, zuccherato. D’inverno il bagno del treno era
gelido o rovente? Non mi ricordo, in ogni caso era un girone infernale, a
prescindere dalla stagione, latitudine, longitudine, età e condizioni di salute
del narrante.
I viaggi in treno più
brevi di ventiquattro ore non sono in grado di portare alla catarsi, perché non
si svuota così facilmente il cuore umano di ogni vana speranza o illusione. Quelli
più lunghi di quarantotto ci riescono sempre, con risultati eccellenti, quasi
sempre procurano una sindrome postraumatica guaribile in dieci giorni.
Beato chi, dopo un tale
viaggio, possa godere di dieci giorni di pace e beatitudine, in un
appartamentino anni Sessanta, minuscolo e molto umano, con un balcone immerso
nelle fronde di un enorme albero. Non ci vuole tanto: la radio a mormorare, le
rondini a solcare il cielo, la libreria polverosa, una teiera panciuta, il
telefono staccato; almeno per dieci giorni. Sul tavolo di cucina, tutto
scheggiato e per questo coperto da una tovaglia, senza papaveri, una tovaglia
in lino, grigia e sobria, un bigliettino vergato a matita: ho già pagato le
bollette, etc. In questa casa non si cucina, una tantum qualche
ospite si permette di lessare quattro patate. …e ciò che era andato in frantumi
inizia cheto cheto a ricomporsi, in una struttura leggermente diversa da quella
che era salita sul treno, seppur facilmente riconoscibile. Talvolta la
struttura aggiornata è decisamente migliore della sua versione precedente. Ho
sentito che i serpenti vanno in muta più volte all’anno, li capisco benissimo,
insieme a Nikolaj Gumilëv: «I serpenti gettano la pelle, perché l’anima maturi
e invecchi, noi siamo da loro differenti, l’anima cambiamo, non il corpo».
Il tempo finalmente si
rilassa quasi un animale preistorico in pace con sé stesso e fuori d’ogni
pericolo, nella sua beatitudine antidiluviana. Il sangue scorre nuovo, le ossa
si raddrizzano, e la pelle lucida si libera dalle scaglie opache della vita
passata, e ogni male si stacca e cade a terra, e lo calpesti, eliminando l’involucro
essiccato. E la guarigione si traduce in un rivolo di parole ancestrali, non
sussurrate da una bisnonna in occasione di un ginocchio sbucciato, bensì
copiate da una rivista scientifica in un uggioso pomeriggio in biblioteca (mica
a novembre del 2005, al Circolo Giuridico di Siena?): «Tornatene, freccia, con la punta di
ferro a tua madre, nella terra, con il fusto di legno a tua madre l'albero, con
l'impennaggio a tua madre l'uccello, con la colla a tua madre il pesce; tu,
corvo, non gracchiare; tu, sangue, non mi abbandonare».
Ecco, abbiamo visto un’immagine ideale.
E in assenza di condizioni favorevoli la muta, iniziata durante il viaggio, aggrava
ulteriormente il malessere nel reduce. Casa affollata, pullulante di amici e
colleghi, altri parenti in arrivo, con i bimbi già febbricitanti in braccio,
rottura di qualche tubo sotto casa. Continuare? No, grazie. …e al ritorno,
sempre a bordo di un treno d’autunno incipiente, una nuova muta, rallentata.
Se invece continuassi,
dovrei dipanare una polverosa matassa di ricordi. Ecco, la muta sospesa durava
per un mese o due. Tra i due viaggi in treno. Ho tante matasse, i ferri, e so
lavorare a maglia. Ora prendo una matassa malconcia, piena di nodi, e ne faccio
un bel paio di calzini per l’inverno dell’ibernazione, pregustando la Pasqua
della Resurrezione.
Ecco, la casa dove
ritorno, senza tuttavia ritornarci del tutto: le dono le tende bianche di misto
lino, tanti libri in ordine volutamente imperfetto, tante figure slanciate e
silenziose, o anche corpulente e affabili, ma sempre con indosso camicie di
lino, tante cene attorno ad un lungo tavolo, il tè alla mela verde, di sera, in
cucina, sotto un abat-jour, con la dolce sinfonia di insetti notturni negli
alberi che si affacciano alla finestra. Quanti libri sono andati dispersi,
quanti ricordi, quante foto! Chi li raccoglierà? Chi riporterà - e dove li
riporterà - i figli e le figlie, nomadi e pellegrini? La risposta è nota,
soprattutto negli ultimi anni. Si aspetterà l’Ottavo Giorno per rivedere tutti,
per rileggere i libri che leggeva di notte in cucina il nonno, malato
terminale, insonne per i dolori, per non svegliare la nonna.
Anche le feste estive sono tutte qui: la Trasfigurazione, quella dalla Luce Increata, e la Dormizione, la Pasqua Materna. I cugini e gli zii e vanno alla Liturgia, ci sono anche cugine e zie, tutte con i capelli lunghi, e dopo tutti insieme mangiamo la frutta. Scrivi quello che ti dico io: «uva luglienga», cocomero, pane bianco poroso, di frumento con mais, una ciambella con un bicchiere di latte. Non potevo conoscere la parola ‘luglienga’ in quegli anni, e ben altri vitigni prosperavano in quelle terre, in primis l’uva americana, pugnace e pungente, e il mare color porpora e indaco, un velo scuro avvelenato di petrolio, era sicuramente una gran vaccata. E lo pronuncio solo ora. (continua)
KSENIJA SKLIAR
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È gradita la firma in calce al commento. Grazie.