Il teatro alla Scala di Milano tra curiosità pubbliche e ricordi privati (LUOGHI STORICI) ~ di Giovanna Romanelli - TeclaXXI
LUOGHI STORICI
Giovanna
Romanelli
Il
teatro alla Scala di Milano
tra
curiosità pubbliche e ricordi privati
Giovanna Romanelli©2025
Il
Teatro alla Scala è tra i luoghi più emblematici di Milano e punto di
riferimento culturale non solo per l’Italia ma per il mondo intero sia per
l’altissima qualità degli spettacoli, che in questo luogo prendono vita, sia
per l’elevato livello professionale di tutte le maestranze che, dietro al
sipario, lavorano intensamente
Qui
non intendo ripercorrere la storia di questo famoso teatro lirico, ma piuttosto
far conoscere ai lettori aspetti meno noti e, tuttavia, utili a mostrare come
questo “tempio della lirica” (e non solo) sappia interagire con la città e con
le sue istituzioni culturali ed educative.
Innanzitutto,
vale la pena ricordare che il nome del teatro deriva da quello della chiesa
Santa Maria alla Scala, costruita nel 1381 per volere di Beatrice Regina della
Scala (1331-1384), moglie di Bernabò Visconti e Signora di Milano. Il prestigio
della chiesa durò a lungo ma perse drasticamente importanza al tempo di Carlo V
d’Asburgo. Sotto il governo di Maria Teresa d’Austria la chiesa fu demolita a
partire dal 5 agosto del 1776 per far posto al nuovo teatro ducale,
successivamente chiamato appunto Teatro alla Scala, progettato da Giuseppe
Piermarini il cui stile neoclassico è evidente sia nella facciata sia negli
interni. Il nuovo teatro fu inaugurato nel 1778 con l’opera L’Europa
riconosciuta di Antonio Salieri.
Ricordiamo
che la Sala è a ferro di cavallo con quattro ordini di palchi e due gallerie
per una capienza di più di duemila posti.
Il
fascino del Teatro emana dalla sua sobria eleganza e dalla sua storia,
dall’essere stato, in epoca risorgimentale, centro di riferimento e simbolo
delle aspirazioni alla libertà del popolo italiano. È noto, infatti, che le
grandi famiglie aristocratiche del tempo, i Borromeo, i Visconti, Serbelloni, gli Sforza … avevano l’abitudine
di invitare nei loro palchi intellettuali, scrittori e filosofi dediti alla
diffusione delle nuove idee illuministiche; tra questi ricordiamo, a titolo
esemplificativo, Pietro Verri e Cesare Beccaria, tra i fondatori
dell’importante rivista letteraria «Il Caffè», Ugo Foscolo, Alessandro Manzoni,
senza dimenticare Stendhal, che sosteneva che un palco alla Scala costava tanto
quanto un appartamento a Parigi.
Il
mio interesse per la Scala, già vivo durante gli anni universitari, si è
intensificato quando, insegnante presso il liceo classico Giuseppe Parini di
Milano, ebbi l’opportunità di occuparmi, come docente di riferimento del
Servizio Promozione Culturale, del Teatro, dei rapporti tra gli studenti del
triennio liceale e il Teatro stesso. Me ne occupai dal 1990 circa fino al 1999,
quando mi trasferii a Parigi per insegnare alla Sorbona. Allora dirigeva tale
servizio il valentissimo Commendator Silvestro Severgnini, che - ricordo - mi
affidò il compito di preparare un testo di presentazione sul compositore
ungherese Béla Bartók della cui musica la Scala allora aveva in programmazione
un concerto.
Ancor
oggi il Teatro promuove tale servizio, che allora aveva l’obiettivo di
accostare, in via sperimentale, i giovani al mondo del teatro musicale e a tale
scopo l’operatore culturale aveva il compito di coordinare e realizzare
incontri, ascolti guidati, seminari ed altre iniziative finalizzate alla
crescita culturale e alla partecipazione consapevole agli spettacoli. Allora mi
fu molto utile anche l’esperienza di insegnamento svolta presso il liceo
musicale del Conservatorio di Milano (al tempo diretto dal Maestro Marcello
Abbado), dove ebbi l’opportunità di fare incontri interessanti e partecipare
come relatore ad alcuni convegni organizzati da docenti e maestri di musica di
grande valore e spessore culturale.
Che
dire poi degli studenti? Essi, certo quelli più interessati e motivati,
accolsero con entusiasmo l’opportunità di creare all’interno del liceo Giuseppe
Parini una piccola ma nutrita comunità musicale, alla quale comunque si richiedeva
impegno e fatica, ma si offriva anche la possibilità di scoprire nuove prospettive
e, soprattutto, l’occasione di ampliare gli orizzonti verso una formazione
articolata e pluriprospettica. Non erano inoltre trascurabili le agevolazioni
che tale percorso offriva ovvero la possibilità di ottenere biglietti a prezzi ridotti
per assistere ai principali eventi musicali del Teatro: concerti, opere e,
soprattutto, le prove, che permettevano di seguire da un osservatorio
privilegiato la costruzione di uno spettacolo, dallo studio puntuale della
partitura alla sua realizzazione scenica.
Erano
quelli gli anni gloriosi del Maestro Riccardo Muti alla direzione musicale
della Scala, gli anni della ricerca filologica e della riscoperta del dettato
verdiano con Ernani, Nabucco, Macbeth, Otello, Falstaff,
con la cosiddetta trilogia popolare (La Traviata, Rigoletto, Il trovatore),
opere alle quali docenti e studenti hanno potuto assistere direttamente in
serate indimenticabili sia per l’atmosfera, sia per la consapevolezza con cui
gli studenti potevano accostarsi a temi e musiche precedentemente indagati e
studiati. Si aveva allora la consapevolezza di arricchire la propria
formazione, di avere opportunità di incontri eccezionali con musicisti,
artisti, critici che, durante le prove giravano liberamente nel Teatro e
discutevano di argomenti diversi tra loro. Era allora possibile scrivere una lettera
di ringraziamento al Maestro Muti e riceverne una da Lui che ringraziava e
mostrava soddisfazione per la partecipazione di tanti giovani alla vita del
Teatro. Insomma, ciascuno aveva la fiducia e l’orgoglio di rendere migliore sé
stesso.
Come non ricordare allora le prove di
Macbeth di Verdi del 1997, alle quali gli studenti del Parini avevano
assistito con grande impegno e interesse, anche perché suscitava stupore e
curiosità la scelta del regista britannico Graham Vick di ambientare l’opera
nello spazio astratto e geometrico di un enorme cubo, unico protagonista della
scena. Scelta sulla quale furono espresse molte perplessità e dubbi, Tuttavia la
rappresentazione fu un vero successo e fu molto apprezzata dagli stessi studenti
che proprio in quella essenzialità avevano scoperto una ricca complessità
simbolica.
Merito
di Muti è stato anche quello di aver aperto alcune stagioni teatrali della
Scala con opere di Wagner, che suscitarono polemiche politiche e disappunto e che
la carta stampata amplificò oltre ogni esigenza di cronaca. Di esse ricordo
quella del 1994/95, La Valchiria con la regia di André Engel; quella del
1995/96 con Il Flauto magico per la regia di Roberto De Simone; quella
del 1998/99 con Il crepuscolo degli dèi per la regia e scenografia del
francese Yannis Kokkos.
Fu
un programma impegnativo e carico di difficoltà che comunque piacque molto agli
studenti - soprattutto a coloro che studiavano lingua e letteratura tedesca.
Abbiamo
parlato del successo degli spettacoli alla Scala, tuttavia non possiamo non ricordare,
come attestano puntuali le cronache del tempo, che a volte non furono
risparmiati fischi e severe critiche e, andando in dietro nel tempo, non
possiamo non richiamare alla memoria celebri contestazioni, soprattutto da
parte dei loggionisti più che della platea, alla prima rappresentazione di Traviata,
quella passata poi alla storia come un autentico capolavoro grazie a un nuovo
modo di realizzare la scenografia e la regia fuori dalla rigidità degli schemi
tradizionali. Si tratta della prima della stagione teatrale, quella del 1955,
ad opera di Luchino Visconti, con Maria Callas, Giuseppe Di Stefano e, sul
podio, il Maestro Carlo Maria Giulini. Per l’eccessiva libertà dagli schemi
tradizionali la divina Maria fu fischiata ad opera dei benpensanti per aver fatto
volare in scena le scarpe. Sul palco furono lanciati ravanelli che Maria,
davvero molto miope, scambiò per fiori e che raccolse con garbo e mostrò di
apprezzare. Nonostante qualche contestazione, fu una Traviata mitica e alcune
soluzioni scenografiche sono ancora oggi ricordate con grande ammirazione, come
il bellissimo giardino autunnale che Visconti pensò come scena del secondo
atto. Non andò meglio a Mirella Freni che, nel 1963, interpretava
Violetta per la regia di franco Zeffirelli e la direzione di Herbert von
Karajan. Prima della cabaletta «Sempre libera» fu fischiata per aver eseguito
con qualche difficoltà i due re bemolle del «Gioir». Si narra che la cantante,
stizzita, uscì in proscenio con le mani sui fianchi a prendersi con fermezza i
fischi dell’insuccesso. Stessa sorte toccò a Luciano Pavarotti in Lucia di
Lammermoor del 1983, quando mostrò problemi di intonazione negli acuti: fu
oggetto di lazzi e fischi di cui parlò la stampa tutta e che la televisione non
risparmiò. Questo per dire come il pubblico sia spesso crudele e ingrato,
pronto a colpire incertezze ed errori sempre possibili negli esseri umani. E
non possiamo concludere questa narrazione senza ricordare l’anno 1986, quando
Muti aprì la stagione lirica della Scala con il Nabucco: accadde allora
- come raccontano le cronache - che, quando il coro degli schiavi ebrei giunse
alla fine di «Va’ pensiero» un enorme boato si levò dalle prime file della
platea, dai palchi e dalle gallerie, seguito da un fragoroso applauso di
incredibile potenza, e allora il bis fu inevitabile!
Alla
fine di questo sintetico excursus una riflessione si impone sul valore della
cultura e sulla necessità di una sua capillare diffusione tra i giovani:
infatti, se è vero come sosteneva Marx che la sovrastruttura (le ideologie)
è il prodotto della struttura e ne riflette le dinamiche, è pur vero che
egli riconosce la possibilità di un rapporto dialettico tra le due e, dunque,
la possibilità che la sovrastruttura possa influenzare e modificare la struttura
stessa. Credo fermamente che, soprattutto in questi tristi tempi in cui viviamo,
sia irrinunciabile perseguire tale scopo con tenacia e determinazione, perché è
vero anche quanto sosteneva Dostoevskij ovvero che La bellezza salverà il
mondo: non si tratta naturalmente di una mera bellezza esteriore ma di
quell’armonia tra kalós kai agathòs, tra bello e buono, di quella
bella bontà, ultima meta per il riscatto dell’umanità tutta.
BIONOTA
Giovanna Romanelli laureata in Lettere classiche presso l’Università Cattolica di Milano, ha conseguito la specializzazione in critica letteraria e artistica e ha collaborato col progetto IRIDE presso la medesima università. Ha insegnato presso la Sorbonne (Paris III), è stata membro del comitato scientifico della Fondazione Cesare Pavese e presidente della giuria del Premio Letterario che dello scrittore porta il nome.
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