Perturbazione e dislocamenti: di che materia è fatta la poesia? (POESIA) ~ di Jacqueline Spaccini - TeclaXXI

 

POESIA

PERTURBAZIONE E DISLOCAMENTI*

(di che materia è fatta la poesia?)

di Jacqueline Spaccini



Al ricordo di mio padre

Foto di James Wheeler: photo CC0

Ancora oggi non so di che materia sia fatta la poesia. Ignoro persino se sia corretto dire «la» invece che «una».  Mi colpisce ancora accorgermi che quelle che io definisco altrui vere poesie non siano mai dans l'air du temps, non seguano mode. E anche che non siano mai perfette.

Ho scritto la mia prima poesia (piena di infiniti) a tredici anni, nel 1971. La prima poesia pubblicatami risale al 1988. Ho continuato a scriverne su riviste specializzate. Ma ho atteso il 2016 per pubblicare la mia prima raccolta di 75 liriche per i tipi Robin di Roma[1]. Il pudore mi frenava: il percorso è lungo e non s’è ancora chiuso.

Dicevo: detesto la perfezione, persino lo sforzo di giungervi, lo slancio. La poesia non è oggettiva. Inoltre la rotondità di un verso mi ha sempre allontanata, come tutto ciò che è lucido, smaltato, levigato.  Così come la costruzione tutta conchiusa in endecasillabi sublimi che lusinga le mie orecchie ma non arriva al mio cuore, anche la geometrica anarchia di versi enigmatici  e l’instabile equilibrio combinatorio di sintassi intellettuali non parlano ai miei sensi in attesa. E pure detesto l’idea che sia tutto da imputare all’ispirazione del momento: tant'è che continuo a rimettere mano ai miei testi a distanza di anni.

Che sia chiaro: nelle mie poesie il linguaggio è frustro, l’amore è semplice, le disillusioni note al genere umano. Purtuttavia, non descrivo alla maniera di Prévert o di Szymborska i gesti quotidiani. L’amore di cui parlo non coinvolge solo la mia persona e non si rivolge esclusivamente a un solo uomo, ma spesso a più d’uno: in una sola figura trovano posto i tratti spezzati di quelli che sono stati i miei amori (storici o nel segreto della mia fantasia).

Però non è per davvero l’amore l’oggetto del mio scrivere. È importante. Vivo come tutti col segreto desiderio di essere felice, di amare riamata. Altrimenti che si vive a fare?

È dunque il primo motore delle mie poesie, ma non l’unico.


Da qualche parte, io so che tu sei me.

Io nata al Nord e tu nel Sud,

tu uomo, io donna,

quel che ci lega non è poesia, né mito.

È quella rabbia dentro che rabbia non è :

ma l’inquietudine di ritrovarci e di non amarci

se noi stessi avessimo dovuto scegliere noi stessi.

Perché l’amore degli altri ce lo siamo sudato

e sempre cerchiamo conferme

che nessuno può davvero tenere a quel bimbo

che nel cuore siamo rimasti.

Sulle pagine di un quaderno ci rincorremmo,

quando tutto era innocente e bello,

quando la vita non era in gioco

e dolce era perderci nell’anima dell’altro.

Io cemento e tu terra,

tu radici profonde ed io solo aeree,

io intuitiva e tu logico,

tu grave ed io leggera,

io ti amo e tu mi ami.

Ma il nostro amore non è fatto

di testa, né di cuore o di sesso.

Sorge dalle viscere implodendo

della sua stessa violenza.

È un amore fatto di umore.

(Amore-tumore, pensi tu.

Amore-tremore, dico io);

un terremoto, in definitiva.

Questo solo chiedo alla vita:

non sia tu l’amara deriva[2].


Gli stati d’animo costanti e connaturati che si cerca di mettere a tacere quando non si riesce a tramutarli, trasformarli, convertirli, diventano materia del mio poetare. Chi scrive forse un tempo è stato un cuore allegro. Un tempo, non più ora. Chi scrive qui è nella migliore delle ipotesi malinconico. 

Spazzo via

tento

il malumore la rabbia la tristezza

l'impotenza la paura la desolazione

il freddo 

dentro di me

l'ombra 

il colore viola cinerino

la nuvolaglia

il cemento delle case

e la sterpaglia che neppure vogliono i gatti


e mi assento

nel bianco di qui

sprofondando nel nulla

asettico di pelle o sky

nel wengé africano

made in Malaysia 

e mi stordisco le orecchie per non sentire più

e mi rovino gli occhi per ricominciare a vedere

perché con altro sguardo penetri la vita

la mia

perché il sole di qui 

accechi la vista di felicità

e possa alfine sentire il canto degli uccelli

che qui non cantano

il suono delle campane

che qui tacciono

il guaito dei cani

che qui scacciano.

Attendo

e mentre attendo

lotto

per sentirmi nuovamente 

a casa[3].    


È una malinconia vitale e appassionata, ossimorica. Possiede, per forza di cose, radici solo aeree, come quelle delle mangrovie. Perché non ha un posto suo. Come non si ha un posto geografico. Come non si ha un nome e cognome ben coniugati. Come non si hanno certezze di origini e soprattutto nessuna idea circa il futuro. Neanche dopo la morte.

Brucio senza fiamma
priva di ossigeno e il filo
nero di fumo lo serbo dentro.


Nessuno vede attraverso la trama,
l'oceano il sorriso e tutte le maschere
in cui sprango la mia solitudine


e cedo a un tango che nega la resa
e vago senza speranza vale un giro
tondo che balza in cresta all'attesa

e tiro (e tiro) e non c'è nulla oltre[4].


Quando dell’oltre non si ha speranza, ci si ritrova a poetare sul trascorrere dei giorni che dopo tanti lunghi anni ci appare sempre uguale a sé stesso. E a tirare assenti bilanci annunciati fin dall’inizio, credendo di trovare una minima speranza nella vita dell’oggi.

Depuis le début

Les jours s’étendent

comme l'heure d'été

dans ce pays

où le froid et le noir sont éloignés

reportés doucement repoussés.

Aux trois vies qui s'agitent

autour de moi (il faut compter

le chien aussi), dont je suis

la ficelle (autrefois la liasse)

transparente pas subtile

je soumis la mienne.

Mais ailleurs 

 l'hiver sera-t-il moins rude,

reviendra l'été sur mon âme ? 

 Depuis longtemps les

valses adolescentes évitent

tout battement de coeur.

Depuis le début, j'attends la fin.

Poi, certo, c’è la colonna sonora delle lingue che accompagnano i miei passi. Mi esprimo in francese, in italiano, a volte mescolo le due lingue all’interno di uno stesso componimento, una jam session. Talvolta, inserisco frammenti di croato, un testo in tedesco, un pizzico di darija[5], un odore di spagnolo. Non è esibizione. È che alcune sensazioni appartengono a parole precise. C’è un tempo e un modo per tutto. E se queste parole sono in un’altra lingua, non ci si può far niente.

[…]

sono adesivi ostentati sotto alla pellicola incolore 

della pelle, stesa male perché sincera, 

per permettere alla mia carne di abbracciarle 

e di amarle, queste sorelle di parole.

Machi mouchkil: davvero, nessun problema,

Machi mouchkil, machi mouchkil

E dima, per sempre[6].

Appartengo a una compagnia che dal 2009 interpreta (non legge) i propri componimenti sul palcoscenico. Siamo tutte donne. Fu inventato il nome Compagnia delle Poete, dalla sua fondatrice, Mia Lecomte. Perché, non ricordo più; suonava meglio, forse. Al termine di ogni nostro spettacolo, rientrando in treno poco dopo la partenza, scrivo una poesia che sintetizzi quella performance. Questa è quella di séguito alla rappresentazione presso l’Accademia di Brera:  


Qualcuna
inizia sfilandosi le scarpe,
le calze e poi la gonna.
Qualcun'altra
si toglie il maglione,
la maglia e il reggiseno.

A tutte hanno sottratto
almeno un'ora.
E quella non ha avuto
il tempo di fare la spesa 
in un'intera settimana.

Le colombine alla crema
recano la parola mattutina;
a una la spremuta d'arancia
dà un decimo motivo per esistere,
un'altra ha rubato il suo terzo caffè.

Qualcuna si sarà tolta la pelle
e qualcun'altra l'anima.
Un'altra s'è smarrita.
Dipende. 
Sapete com'è, al buio, non sempre si capisce[7].

Del suo colore, le ha rivestite tutte 
la luce nera. Come una coltre,
ma trasparente.


Me lo dicono gli altri, ma io non mi sento poetessa (p minuscola o maiuscola). Mi sento persona. Però credo di essere tanto più persona in quanto sono donna.

La voce degli uomini

quando ti amano

è suadente, ti accarezza

è velluto

è un fresco vin rosé

è come un gatto sornione

che stira le zampe

e ti solletica l'ego

(e non solo)

la voce degli uomini 


quando ti amano

è roca ma scivola

e ti sorride 

agli angoli degli occhi

è un volo di aerei

una (s)quadriglia

balletto perfetto

scende leggera 

come l'acqua del ruscello

tuona forte come l'uragano

ti rassicura

ti fa sentire femmina

e non più donna

la voce degli uomini

quando ti amano

ti fa tradire te stessa[8].

Se l’istinto muove più della cultura, la metafora vince poi, ingigantendosi ad allegoria, fino a trovare una esemplificazione di sé nell’autoritratto zoomorfizzato di una fiera imprigionata:

Derrière la cage oubliée et déserte,
elle marche jusqu’à ce que la nuit ne tombe.

Les rayures de son manteau se confondent
A celles du plomb sans ombres définies.
Pour les autres point de différence,
pour elle quelque peu d’espoir :
sans connaître la liberté, elle la désire.

Son univers commence et finit
là où se promènent
sa belle tête et son dos de reine
sans sujets, ni sires.

Et si parfois, la lumière d’un soleil dédaigneux
se laisse entrevoir, elle offre aux humains l’image
d’une condition de bonheur inachevé.
Les pluies suivantes purifieront l’odeur sage
d’un esclavage sans retour ni vœux.

Ah! cette marche, ne va-t-elle donc jamais
connaître le jour de son arrêt ?[9]

Muoversi senza fermarsi mai, una dromomania che viene dall'investigazione di un ailleurs, di un altrove, sempre ricercato. Un ailleurs che a volte si crede coincida con un luogo esotico, non troppo lontano, ma comunque sconosciuto in cui vorremmo lasciar libera la nostra anima.

Mihaljevac è il luogo dell'attesa, la mia

e di Romain

contando e ricontando gli otto, i quindici

ed i quattordici che non ti riportano a casa.

È la visione dei soffietti - solo per l'otto;

due vagoni - è il quattordici, mammina?

e quello piccolo che sbaglia rotaia è il quindici,

non ci interessa e si vede

- subito -.

La salita per me inizia dal market di Lovćenska:

dico a tutti è facile, uguale ad amore, ma
solo per le prime tre lettere...

Al cimitero certo a piedi non ci arrivo e

sto attenta alla curva cieca, alle sue

macchine

e medito su di noi, mentre sento la fatica

nelle gambe (spesso anche sulle spalle,

scimmietta oblige).

Disperazione e speranza sono strane

compagne di strada

cui nemmeno la magnitudo dei

cedri atlantici dà sollievo.

Annuso tendine trasparenti e gatti imprigionati

di altre case,

altrui ricordi.

Quando vedo la catasta di legna ci siamo:

(se vecchi frigoriferi e caldaie arrugginite

ostacolano i margini vuol dire che è mercoledì)

i Karlušic sono - al solito - invisibili.

Sommersa da pacchi e scatoloni, lo odio

quel

cancelletto e sbaglio sempre le chiavi

di casa.

Ma ho tutto il tempo di correggermi,

ché tanto nessuno viene ad aprirmi mai[10].

Poi si comprende che il luogo è un miraggio di breve durata. Allora l’altrove diventa la lingua, il francese, perlopiù. Talvolta il croato. Ma anche il tedesco, davanti alla neve. Una lingua in cui rintanarsi, come se nessun altro al di fuori di noi potesse comprendere quel che diciamo.

Er schafft die Grenzen ab,

streicht Nationen aus,

der Schnee,

wenn er hinfällt.

In einer Nacht

Manchmal,

grausamer als Krieg,

fügsam ergibt er sich

vor dem unbekümmerten

Morgenlicht.

Und später bleibt von ihm

keine Erinnerung übrig[11].

Di che cosa parla la poesia?  Di tutto. Di niente. Di un tutto immateriale e preziosissimo.

          Oppure di nessunissimo valore (per gli altri). Tutto può essere oggetto del suo raggio di azione, purché esista una lingua per dirlo.

La lingua sì, ma forse neppure quella basta e allora diventano due, quando non tre, nella stessa lirica, perché non esiste un solo altrove linguistico.

Chi ti ha rapito?

Plus de chevalier en bas de la tour

secourant sa demoiselle en détresse ;

même pas de dragon crachant du feu.

Forse un castello neanche 

c'è mai stato - mi dico -
mentre vago nella fortezza
di questo deserto bizantino.

E allora prenderò il 

mio cavallo e la mia spada

e scenderò nella cittadella.

Je te cherche et ne te vois pas.

Je te cherche.

J'espère et désespère

Poi, abbasso la testa

e carico: tiro fendenti

contro un nemico che
è fuori

è dentro, è ovunque,

et finalement
cet ennemi n'existe point.

Colpa del tempo

che frulla sentimenti
come pesche d'estate,

ordina le giornate
in album fotografici


e sbianca pagine 

al nostro libro comune.

Toutes nos belles promesses,

envolées, les sentiments 
cachés derrière un regard fermé.

Mi guardo alle spalle:

da qualche parte dovrai
pur essere.


Sarò io il cavaliere. 


Debbo solo capire
chi ti ha rapito.

E allora  je viendrai te chercher.

Verrò a prenderti:

no hay guerra que pueda apartarte de mí[12].

Forse, si dirà, l’altrove in grado di dare la felicità risiede nella cosa più antica del mondo: l’amore per un figlio. 

Forse l’ailleurs è nella prosecuzione di sé.

Ho rovistato

nelle tasche della notte

alla ricerca di stelle luminose.

Ho trovato un buco

in fondo a una piega

e poche cose:

un non so che odore

di retrobottega

un sorriso in apprendistato

e briciole galeotte

di magnificenza[13].

   Tanti giri per poi scoprire che l’ailleurs sono io, sei tu, siamo noi. È qui. Siamo tutti stranieri, solo che io lo sento prima. Tutto sommato non è male.

Tu sei francese

                      per nascita

        italiana

                     per sangue

(un po' croata lo sei 

                        giusto per gusto)

ti dicono cosmopolita:

                                      ti senti defraudata

no, non perduta, solo un po' 

                                        tradita
amareggiata

tu sei vissuta

                               - hai vissuto -

                                                            abbastanza

per capire che ovunque 

                     tu sia te stessa

                                                  sarai straniera[14].



*Questo è il testo del mio intervento di poesia e lingua, letto in occasione di un seminario nell'ambito del dottorato presso l'Università di Perugia (02/11/2016).


[1] Jacqueline Spaccini, Io di più non posso darti, Roma, Robin (coll. Libri di poesia), 2016

[2] Viscere, 2002

[3] Spazzo via 2014

[4] È una notte strana (TOGETHER YOU FIND BETTER) 2013

[5] Dialetto marocchino

[6] Machi Mouchkil, 2014

[7] La spo(g)liazione delle poete, 2010

[8] La voce degli uomini quando ti amano, 2011

[9] Une tigresse en cage, 2001

[10] Quando verrai/La strada di casa (Lovćenska 26), 1995

[11] Ruhe, 1999 Riposo. Toglie confini/cancella nazioni -/la neve,/quando scende/spesso in una notte/più crudele/di una guerra/ docile si arrende/all'incurante/luce del mattino.//E di lei/più non s'ha ricordo. (Autotraduzione dal tedesco)

[12] Chi ti ha rapito?, 2011

[13] Le tasche della notte, 2014 (poesia nata guardando mio figlio)

[14] Advena, 2012

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JACQUELINE SPACCINI



 
BIONOTA

Di natura poliedrica, Jacqueline Spaccini è nata in Francia, ma da alcuni anni è tornata a vivere in Italia. Si occupa di contaminazione tra il linguaggio letterario e artistico; scrive poesia multilingue. È traduttrice e autrice di saggi e novelle. Scrive pièces, ha diretto atelier di recitazione; è stata regista e attrice teatrale.

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