I classici a modo mio - II PARTE (TEATRO) ~ di Dino Finetti - TECLAXXI

   

TEATRO       

 

Dino Finetti

 

I classici a modo mio

Parte Seconda





Soddisfatto del primo esperimento, il giorno successivo mi dedicai a un altro romanzo importante:

 

 

Un naufrago scampato alle onde approda su di un’isola deserta, dove rimane per 28 anni trovando sostentamento e riparo nelle risorse naturali del luogo. Senza alcuna compagnia per la gran parte del tempo, solo nell’ultimo periodo ha la fortuna di salvare la vita a un selvaggio che diviene il suo servo.

 

Robinson Crusoe

 

Che Dio abbia pietà della mia anima e perdoni la mia codardia!

 È tutto vero ciò che mi è capitato sull’isola e si legge nel resoconto che è stato dato alle stampe, ma ho taciuto su una serie di avvenimenti che ora, a tanti anni di distanza, desidero portare alla luce, invocando la clemenza del Supremo Giudice. 

Ero diventato autosufficiente e abile nel trarre dalla mia isola e dalla mia condizione ogni possibile risorsa per vivere; tuttavia, una cosa mi mancava in tutta la mia laboriosa solitudine: una donna.

 

Le caprette selvatiche che avevo imparato ad allevare erano solo il surrogato di una femmina umana. Non so quante volte ho implorato Dio di concedermi la grazia di una compagnia femminile, così come Egli aveva esaudito il desiderio di Adamo nel Paradiso terrestre.

E il Signore, nella sua infinita bontà, ascoltò le mie preghiere.

Un giorno, mentre andavo a caccia con il mio fucile, scorsi un trealberi nella baia vicina alla fonte di acqua dolce, sul lato opposto dell’isola rispetto al luogo dove avevo stabilito la mia dimora.

Mi trattenni dal segnalare la mia presenza poiché il veliero non aveva alcuna bandiera riconoscibile. Rimasi nascosto, in osservazione, e feci bene poiché sul ponte apparvero dei figuri, dalla faccia patibolare che trascinavano una ragazza. Uno degli uomini, mezzo ubriaco, la minacciava con la sciabola mentre il resto del branco, ridendo sguaiatamente allungava le mani per strapparle le vesti. Stava per essere violentata; probabilmente i pirati, perché di questi si trattava, l’avevano sequestrata da una nave di cui si erano impadroniti. La giovane, terrorizzata, ma fiera, si divincolò, riuscì a liberarsi da quei pendagli da forca e con grande coraggio si tuffò in acqua.

Nuotò vigorosamente e in poche bracciate si mise in salvo sulla mia isola.

Per fortuna, i pirati non si gettarono al suo inseguimento e fatto rifornimento di acqua dolce alla fonte della baia, il giorno seguente ripresero il mare.

 

La ragazza che la Provvidenza mi aveva fatto incontrare era italiana e si chiamava Benedetta, ma io le diedi un altro nome: “Domenica”, non tanto perché il giorno in cui io la conobbi dopo essere sfuggita alle violenze coincidesse con la domenica (con il rudimentale sistema di incidere ogni giorno una tacca su un palo, non si è mai sicuri di aver contato giusto), ma perché l’ultimo giorno della settimana, in cui si santifica la festa e si prega il Signore, mi sembrava il più indicato per quella donna. Domenica, infatti, era una ragazza profondamente devota.

Appena aveva compreso di essere al sicuro, il giorno della sua fuga, si era inginocchiata a terra, elevando altissime lodi al Signore misericordioso che l’aveva salvata dall’infamia della deflorazione e conservata in vita.

Da allora le cose cambiarono moltissimo sull’isola, soprattutto quelle di carattere religioso e spirituale. Alla mattina si leggevano e commentavano brani dalla Bibbia, l’unico libro che avevo tratto in salvo dalla mia nave naufragata. Al venerdì era obbligo mangiare di magro, e quindi pesce se riuscivo a pescarlo, altrimenti solo verdura, pane o digiuno. Alla domenica, o meglio, il giorno che per convenzione corrispondeva alla ricorrenza settimanale della venuta della pulzella sull’isola, ci si doveva recare in pellegrinaggio alla fonte “salvifica”, che era la sorgente d’acqua vicina alla baia dove Domenica era scampata alla violenza dei pirati. Si celebrava un rito di ringraziamento simile a una messa in suffragio, poi si tornava a casa con la scorta di acqua benedetta.

 

Il mio lavoro e le mie quotidiane fatiche non avevano subito alcuna sostanziale modifica. Continuavo a procurarmi il cibo con la caccia, la pesca e allevando i miei animali, in cambio di carne, latte, uova, pelli e lana, mentre domenica prendeva il sole, leggeva la Bibbia o componeva poesie. Lavoravo il legno, fabbricando tavoli, sedie e oggetti di uso quotidiano, mentre lei intonava preghiere e canti di lode a Dio o recitava il rosario. Sudavo sui campi, coltivando la terra e raccogliendo frutti e semi che arricchivano la nostra mensa, e scuoiavo gli animali per ottenere dalle loro pelli indumenti e borse. Avrei volentieri lasciato a delicate mani femminili il compito di ricavare vesti più leggere e meno grossolane dagli indumenti in cotone che avevo recuperato dalla mia nave naufragata, ma la mia compagna non era pratica di ago e filo; ciononostante, esigeva che in sua presenza io fossi completamente e dignitosamente abbigliato, poiché: «l’uomo deve coprire le proprie vergogne», sosteneva, e «le tentazioni sono opera del Maligno». Così, anche se, per via del caldo equatoriale dell’isola, avrei preferito girare seminudo o con un semplice perizoma, ero costretto a vestirmi da capo a piedi con pelli e abiti decorosi, ricorrendo anche alla mia scorta di grossolane camicie, giacche e abiti da marinaio per confezionare sobri indumenti femminili conformi ai gusti pudichi della mia compagna: lunghe sottane, blusette senza scollature, fasce e corpetti per mortificare e nascondere il seno.

Tutto questo avrei anche potuto sopportarlo se Domenica fosse stata per me come Eva per Adamo, carne della stessa carne. Invece era solo un’esigente sorella. 

Era piuttosto carina: i capelli neri, lisci, gli occhi color nocciola, riservati e serafici, a volte si accendevano di uno sguardo di fuoco che in me risvegliava antichi ardori e lei, notandolo, sviava istantaneamente, alzando gli occhi al cielo, in mistiche contemplazioni. La sua pelle era liscia e le graziose forme, sode, sebbene pudicamente coperte, avevano assunto in breve tempo un bel colore ambrato.

Un giorno affrontai delicatamente la questione:

– Domenica, tu sei mia amica, vero?

– Si, ma perché me lo domandi?

– E hai fiducia in me?

– Si, certo.

– Allora posso chiederti un bacio?

– Non ne vedo la necessità in questo momento, ma anche Gesù salutava i propri discepoli con un bacio sulla guancia. Fai pure. – e chiuse gli occhi, un po’ titubante, scostando i capelli da un lato del viso. Mi avvicinai appoggiando la mia bocca alla guancia, ma nel ritrarmi le sfiorai le labbra. Bruscamente si sottrasse al mio tentativo di baciarla e mi allungò un sonoro ceffone.

– Ahi…Domenica, sii buona, siamo soli su quest’isola, non possiamo baciarci solo come fratello e sorella…

– Non siamo marito e moglie; sarebbe un grave peccato agli occhi di Dio.

– Giuro che sarò il tuo sposo appena possibile. Se una nave di passaggio ci porterà via dall’isola, chiederemo al capitano di unirci in matrimonio. Basta l’amore a farci promessi sposi. Considera la forzata permanenza qui come un fidanzamento.

– Ma la promessa non è benedetta dal Signore.

– E perché no?

– Perché ha il solo scopo di soddisfare la carne, per egoistico piacere e non per dare figli a Dio.

– Ma anch’io desidero avere dei bambini.

– Non è possibile, non ci lega un vincolo legittimo e solo un religioso potrebbe consacrare il matrimonio davanti a Dio. Io poi sono cattolica, non potrei mai sposare un anglicano.

– Prometto di farmi cattolico. Se mai riusciremo a tornare in Europa, giuro che mi recherò a Roma per ricevere la benedizione dal Papa in persona. Suvvia Domenica, ti amo tanto, abbracciami.

– Vade retro Satana! …Niente sesso, sei inglese! … – disse scappando via. Da quel giorno, non ci provai più.

Passò quasi un anno da quell’episodio. Un giorno sbarcò sull’isola una piroga con alcuni selvaggi. Io osservavo di nascosto i loro movimenti, sperando non scoprissero che l’isola non era disabitata. Erano cannibali e avevano portato con sé tre giovani che volevano sacrificare per i loro crudeli riti. I primi due furono barbaramente trucidati. Il terzo riuscì a fuggire, correndo verso la boscaglia, nella mia direzione. I due selvaggi che lo inseguivano li uccisi con le frecce, senza far rumore. Gli altri cannibali non si curarono di cercare i loro compagni e terminato il loro macabro pasto, presero il largo sulla loro piroga.

Il giovane di colore che avevo salvato, in segno di sottomissione, si mise in ginocchio davanti a me, mi afferrò un piede e se lo pose sulla testa. Ero padrone della sua vita.

Lo chiamai Venerdì, perché quello era il giorno in cui si mangiava di magro.

Domenica accolse di buon grado Venerdì e prese subito a servirsene come domestico per le faccende di casa. Io trovai nel buon selvaggio un valido aiuto in tutte le attività manuali e di fatica, cioè quasi la maggioranza. La mia compagna si sentì investita del sacro ruolo della missionaria. Venerdì, in fin dei conti, era al di fuori della Grazia di Dio, un pagano, che non aveva ricevuto il battesimo e quindi, se non veniva illuminato dalla parola del Signore, non avrebbe mai potuto entrare nel Regno dei Cieli. Domenica si impegnò a salvare la sua anima perduta. Venerdì doveva essere convertito al cristianesimo e fu quindi sottoposto a un’intensa rieducazione religiosa, a lunghe, illuminanti letture dei sacri testi, per indottrinarlo su Cristo, la Sacra Famiglia, i Vangeli, l’immortalità dell’anima e i miracoli dei Santi. E lo istruiva sulla necessità di coprirsi, di condurre una vita sobria, morigerata, casta e timorata di Dio. Gli insegnò a rispettare i Dieci Comandamenti, a distinguere il Bene dal Male, a fuggire il peccato, le tentazioni, la lussuria e tutti gli eccessi, nel cibo, nel fumo, nel denaro e nell’attaccamento alle cose terrene.

Venerdì ascoltava tutti questi buoni insegnamenti con la pazienza infinita degli uomini di colore.

Un giorno, una maledetta domenica, la pia donna si era recata alla fonte per il solito rito celebrativo.

Io ero rimasto a casa a cucinare il tacchino con le patate che le piaceva tanto, quando mi raggiunse Venerdì ansimando per la corsa:

– Padrone, padrone, giù alla baia, sono tornati i cannibali!

– Oh, Cristo santo, ma è proprio il luogo dove Domenica si raccoglie in preghiera. Dobbiamo correre in suo aiuto!

– Troppo pericolo, padrone, i cannibali scoprirebbero anche noi, e poi è troppo tardi.

– Allora cosa possiamo fare?

– Preghiamo, padrone e sia fatta la volontà del Signore.

– Sì e che Dio ci perdoni.

Da quel giorno, io e il buon selvaggio tornammo a essere padroni del nostro piccolo regno sulla terra, anzi io ero il padrone e lui il mio servo.

Sono sicuro che Santa Benedetta ci guardi di lassù e ci protegga. Per voto, ogni settimana vado alla fonte miracolosa, faccio il segno della croce con l’acqua santa e chiedo perdono a Domenica per non aver potuto impedire il suo martirio.           

 

*****

 

Sempre più sicuro del fatto mio, mi cimentai anche con il teatro:

 

Un poeta stravagante e temibile spadaccino, coraggioso quanto generoso, sentendosi escluso dall’amore per via di un enorme naso che gli deturpa il volto, giunge non solo a sacrificare i suoi sentimenti per la bellissima Rossana, a vantaggio di un giovane rivale, ma a prestare a questi il proprio spirito per far la corte all’amata.

 

 


Cyrano de Bergerac

 

 

Un domestico: – Il signor Cyrano di Bergerac è in anticamera, madame, chiede urgentemente di conferire con voi.

Rossana: – Fatelo entrare.

(Entra Cyrano con aria tetra; le vesti e il mantello neri; gli occhi bassi).

Cyrano: - Signora, volevo essere il primo a comunicarglielo. È successa una disgrazia!

R. – Oh misericordia! ….Cristiano…?

C. – Si signora. Il nostro più caro amico, Cristiano, è morto da eroe!

(Piangono).

C. – Mi è spirato tra le braccia. L’ultimo suo pensiero è stato per lei, madame. Mi ha pregato di riferirle che non aveva mai conosciuto un sentimento d’amore così casto e puro come quello che voi gli avete ispirato. E che può dirsi felice, pur nella sua breve vita, perché da voi ricambiato.

Mi ha dato anche questo biglietto, signora, il suo ultimo messaggio d’amore.

R. – Vi prego, Cyrano, leggetelo: io non riuscirei, ho le lacrime agli occhi.

(Cyrano legge). 

C. – «Cara Rossana, vi amo. »

R. – Proseguite, vi prego.

C. – È finito signora.

R. – Tutto qui? Nient’altro?

C. – Il nostro giovane cadetto era di poche parole.

R. – Ma che dite! Cristiano era bello come un dio, ma anche un grandissimo poeta. E io ero la sua musa ispiratrice. Da quando il suo reggimento è partito per la guerra, ogni giorno non ha mancato di inviarmi lettere struggenti e colme di passione. Non potrò mai dimenticare la sua commovente dichiarazione, quella sera sotto il mio davanzale, e il primo tenero bacio.

Io facevo un po’ la ritrosa, ma mi sono sciolta d’amore per lui quando ha pronunciato una frase dolcissima…

C. (anticipandola) – … che cos’è alfine un bacio? Solo un apostrofo rosa fra le parole «t’amo ».

R.– Proprio quella. La conoscete anche voi? Non sono forse parole di un grandissimo poeta innamorato delle donne?

C. – Certamente signora. Ora che il valoroso Cristiano non c’è più, per sua disposizione in punto di morte, sono costretto a riferirle un’ambasciata che potrebbe rattristarla molto. Coraggio!

R. – Oh mamma mia! … Che altro ancora?… Dite, dite!…

C. – Perdonatemi. Cristiano aveva tutte le migliori qualità che una gentildonna possa desiderare da un uomo, ma non era un poeta. Sotto quel balcone ero io a suggerirgli le parole più adatte ad affascinarvi. Mia era quella frase ad effetto che ha risvegliato in voi la passione: un colpo di genio e un trionfo dell’arte poetica. Scusi l’immodestia. E ancora, sono io l’autore delle lettere ardenti che, a firma di Cristiano, le recapitavo dal campo di battaglia.

R. – Ma allora sono stata ingannata.

C. – Era necessario madame. Sempre, quando un uomo corteggia una dama deve ricorrere all’inganno: un dolce artificio, di cui la corteggiata è vittima consapevole e consenziente. E l’imbroglio va a buon fine quando la donna, cedendo alla forza dell’amore, riconosce l’abilità del seduttore.

Cristiano vi amava, ma a lui mancavano le parole per farvi innamorare. Io ero la sua voce e il suo cuore. Devo confessarvi che il giovane cadetto era alla sua prima esperienza con una donna ed era in preda al terrore. Una volta mi aveva confidato che le femmine gli facevano più paura degli assalti con la spada. E aveva concluso, amaramente: «La donna è un apostrofo rosa tra le parole m’angoscia. »

Commosso per tanta disarmante sincerità e fiducia nei miei riguardi, ho rielaborato a favor suo quella dichiarazione che ha destato in voi l’amore per Cristiano.

R. – Oh povera me! Vi siete fatti gioco dei miei sentimenti. Mi è stato carpito l’amore con un equivoco! …

C. – Signora, l’amore tra un uomo e una donna può nascere solo da un equivoco, e cessa quando l’equivoco si chiarisce.

R. – Non siate così cinico. Quello che mi avete appena rivelato dimostra che voi mi amate anche più del povero Cristiano. Se vi foste dichiarato, con le parole che avete composto per me, avrei amato voi invece del giovane inesperto. Ma il mio cuore ora è pronto per un’altra passione. Se voi voleste…

C. – Non è possibile signora. È troppo tardi.

R. – Non buttatevi giù. Non siete vecchio; forse solo un po’ riservato e vi trattiene quel vostro timore di non essere accettato per via del naso. Ma in tutta sincerità, credetemi, il vostro naso non è affatto mostruoso ed è ben proporzionato con il viso.

C. – Sincerità per sincerità; devo dirle che non soffro affatto di adolescenziali complessi per sua causa. Le esagerazioni, le voci che circolano a proposito del mio naso sono frutto di una goliardata. I cadetti di Guascogna, miei compagni d’arme in tutti questi anni, si sono divertiti ad alimentare la leggenda delle dimensioni spropositate del mio attributo; per essere più liberi nei loro scherzi, hanno spacciato una cosa per un’altra. Come ogni mito ha un fondo di verità, esiste effettivamente un’appendice del mio corpo di eccezionale misura, ma non si tratta del naso.

R. – E di che cosa si tratta?

C. – È sconveniente per un gentiluomo affrontare questi argomenti con una signora… Sono un po’ in imbarazzo… Diciamo che è una cosa che fa pendant con la spada che porto alla cintola…

R. – Non dite altro. Credo di aver capito. A maggior ragione avreste qualche motivo in più per proporvi. Noi gentildonne sappiamo apprezzare la solida maturità piuttosto che l’acerba bellezza. Adoriamo i modi raffinati e cortesi, preferiamo la stagionata esperienza alla giovanile impulsività. Ci è cara la delicatezza, l’animo poetico e se il nostro amante è anche così ben “armato”, ci sentiamo particolarmente protette e sicure fra le sue braccia.

C. – Certo signora, ma ormai, come dicevo, è troppo tardi. La vena poetica si è inaridita. Le vuote parole mi sono venute a noia e poi mi sono accorto che le gentildonne sognano l’amor cortese, l’uomo che le conquista con affabili parole, la tenerezza, la galanteria, le iperboli poetiche, ma poi alla fine scelgono la rude forza, l’ottusa bellezza, il soldo, il potere e poi, forse, anche… la spada.

In tutti questi anni di frequentazione dei giovani cadetti, ho imparato ad apprezzare la loro schietta avvenenza, il giovanile entusiasmo, la tenera inesperienza nelle faccende d’amore. Il contatto cameratesco con i loro corpi nudi, l’armoniosa bellezza delle membra, l’irresistibile vitalità e l’irruente spavalderia mi hanno convinto a trascurare il vacuo, contraddittorio, inafferrabile genere femminino, votando la mia esperienza e la mia spada all’addestramento dei nuovi cadetti. Lascio ai cicisbei e ai cascamorti le amorose imprese. Anziché i molli salotti, preferisco le rozze caserme. Addio signora, non ci vedremo più.

R. – Se anche i poeti scelgono rudi caserme e virili compagnie, alle gentildonne come me non rimane altro che il convento. Addio.                  

 

 

DINO FINETTI



BIONOTA Nato e residente a Ferrara, si è laureato in musicologia al DAMS di Bologna. Il suo primo libro Mail di cuore, mail d’amore (2008) si è classificato 2° alla IX Edizione del “Premio Niccolini” di Ferrara (2010). Con il suo nome o con pseudonimi (quali Feroce Saladino o Anonimo ferrarese) ha prodotto altri libri ed e-book con la propria, minimale casa editrice (“Flying Dutchman”), fra cui: La città del disamore: piccola storia dell’amore a Ferrara (un dialogo fra un giovane e un misterioso conoscitore dei segreti della propria città) 1a ediz. 2008. Una versione ridotta di questo testo è il copione teatrale Angelica, amore mio! reperibile in rete), La soave ambrosia e la broda dei porci (2009, divenuto l’e-book Mai dire mail), Sei personaggi in cerca d’amore (2011), Pagine in vista (2011, antologia da cui è tratto I classici a modo mio) e altri. 




Commenti

  1. Poretta San Benedetta e pure quell'altra scemetta...Divertente molto chiaro e apriamoci a tutto ciò che ci fa gioire Grazie. FEDERICA LORUSSO

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