DÜRER E IL CERVO VOLANTE di Eduardo Rebulla (narrativa)

 


Dürer e il Cervo volante

di Eduardo Rebulla

 

Le cose cambiano di senso ma nel fondo qualcosa resiste, invariata. È il caso del cervo volante (lucanus cervus), che oggi è diventato un insetto minacciato di estinzione e perciò protetto dalle norme comunitarie. Le sue abitudini crepuscolari (si mette in volo al tramonto) non sono ovviamente mutate e così il suo aspetto, con le ragguardevoli e poderose mandibole. Invariata è anche l’abitudine che ha la femmina di nidificare alla base di vecchi tronchi dove le larve, alla schiusa, scavano lunghe gallerie per proteggersi durante l’impegnativa metamorfosi: da 4 a 6 anni per diventare pupe e poi qualche mese ancora prima di liberarsi dall’involucro finale e affrontare, all’inizio dell’estate, la loro vita adulta che dura fino ad agosto per i maschi e fino all’inizio dell’autunno per le femmine.

 Per molti secoli invece il cervo volante è stato ritenuto un insetto maligno, un simbolo del Male. Ad offrircene una chiara rappresentazione è questo quadro di Georg Flegel del 1635, una natura morta in cui, in opposizione ai simboli cristologici (il pane, il vino, il pesce), c’è il cervo volante che sembra sul punto di attaccare il pesce: l’eterna lotta del male contro il bene.

Anche se poi, di simbolo in simbolo, ci si può domandare cosa ci facciano mai i porri nel dipinto di un onesto pittore tedesco di quadri decorativi (fiori soprattutto e nature morte). Sono lì per caso, per capriccio dell’artista, o invece alludono a qualcosa? C’entra in qualche modo il fatto che i porri siano stati ritenuti a lungo un simbolo fallico, primo fra tutti dallo stesso Giordano Bruno che gli attribuiva la qualità di alimentare il seme maschile, riprendendo così la lunga tradizione latina che considerava quest’alimento come un potente afrodisiaco (Marziale: «Se l’invidiosa età allenta il nodo nuziale, il tuo cibo siano i porri»)? Ma forse un ruolo potrebbe giocarlo la parentela che il porro ha con l’aglio e la cipolla, piante entrambe capaci di proteggere da ogni influenza nefasta, dai malefici e dalle insidie diaboliche. Per Plinio anche dalla follia – oltre che dai serpenti

 Ma torniamo al cervo volante e spostiamoci indietro nel tempo, fino al 1505 e alla rappresentazione che ne offre Dürer. Ma rappresentazione, in che senso? Perché qui non sembra esserci invenzione o interpretazione ma solo una ri-presentazione, una riproduzione della realtà. Anche se, come scrive lo stesso Albrecht Dürer: «Se è vero che l'arte è onnipresente in natura, il vero artista è colui che sa farla emergere».

Il disegno che il maestro di Norimberga fa di questo scarabeo è meticoloso, curato in ogni dettaglio e – a distanza di oltre 5 secoli – non sembra soltanto un frutto della curiosità, della precisione e dell’esercizio. C’è invece nel modo deciso, quasi eroico, in cui esso incombe sopra il foglio, una determinazione che va oltre la sfida al vero. È la consapevolezza del potere dell’arte, della sua capacità di ingannare la centralità dell’occhio e simulare il vero (aliquid stat pro aliquo). Il cervo volante esiste ed è in natura, ma Dürer lo riscatta dalla sua vita marginale e da ogni pregiudizio per offrircene un’immagine rigorosa ma umida. L’anno e il sigillo dell’autore conferiscono una forza ulteriore a questo sentimento: quello qui rappresentato è un umile scarabeo, è vero, ma io, Albrecht Dürer, così l’ho visto e disegnato nel 1505. Dietro di esso c’è la sua mano e il suo talento, c’è la sua sensibilità che si è persa per sempre e la sua vita (anch’essa effimera), c’è l’uomo e il tempo che con le sue poderose mandibole lo afferra e lo rapina.

 

Annus domini 1505. Lo stesso in cui a Venezia e nel suo entroterra, tre artisti diversi per età e per fama stanno lavorando a tre pale d’altare il cui tema è identico, la Sacra Conversazione. Tema che invoca un contatto, una “conversazione”, fra il mondo divino – rappresentato dalla Madonna in trono col bambino Gesù in grembo, assistita da un gruppo di santi – e il mondo reale, quello che sta al di qua della pala d’altare, dalla parte del fedele o dell’osservatore.


I pittori sono Giovanni Bellini, maestro indiscusso, quasi ottantenne, e due giovani pittori dai destini diversi. Il misterioso Giorgione che ha poco più di venticinque anni e morirà cinque anni dopo, a Venezia, nell’epidemia di peste del 1510. E Lorenzo Lotto, artista inquieto, umorale che visse lontano da Venezia, senza fama, spostandosi di continuo per commesse in zone periferiche, fuori dai grandi centri dell’arte. Tutti e tre, con intenti diversi, hanno avuto a che fare con Dürer che in quello stesso 1505 è per la seconda volta a Venezia, dove frequenta il mondo cosmopolita che affolla la laguna, si reca a casa di Giovanni Bellini per rendergli omaggio (nelle sue lettere lo definisce «il miglior pittore di tutti») e per oltre un anno si dedica a una tavola sulla Festa del Rosario che doveva decorare la chiesa della comunità tedesca. 



Prima ancora che fosse portato a termine, la fama del dipinto si era sparsa per la città. Si recarono a vederlo il doge e il patriarca di Venezia, la nobiltà in corteo e perfino lo stesso Giovanni Bellini, che non doveva amare fino in fondo quel gusto nordico segnato da un’eccessiva cura dei dettagli e delle fisionomie ma che non poteva non apprezzare il rigore compositivo e soprattutto lo splendore cromatico.

Sicuramente ebbero modo di vederlo sia Giorgione, attratto da ogni novità e sempre alla ricerca di una fuga dal modello lagunare, sia Lorenzo Lotto, che probabilmente alle virtù compositive della Festa del Rosario preferì un altro dipinto che Dürer teneva, ancora incompiuto, nel suo studio, il Ritratto di giovane veneziana, dotato di una sensualità che annullava ogni distanza: una donna viva, palpitante. Una sera che, pressato dai committenti tedeschi, stava ancora lavorando alla Festa del Rosario, lo sguardo di Dürer incontrò il ritratto della giovane veneziana. I suoi amici lo avevano invitato a una festa ma lui, pur di potere andare avanti nel lavoro, si era finto malato, rinunciando così alla possibilità di incontrare la sua giovane modella. Adesso invece si era pentito della sua scelta e il silenzio in cui amava lavorare gli pesava addosso come una cappa e lo rendeva inquieto. Fu proprio allora, mentre era in dubbio se cedere o meno alla nostalgia, che avvertì un ronzio e si accorse che, richiamato dalla luce, un cervo volante era entrato nella stanza attraverso la finestra aperta e stava ronzando attorno a un cesto di frutta. Aspettò che si posasse, si avvicinò di soppiatto e lo afferrò da dietro, stringendolo con le dita fra torace e addome, per evitare le mandibole. 

Raggiunto il suo tavolo da lavoro, lo trapassò da parte a parte con un ago, lo bloccò su un foglio e per evitare le ombre iniziò a disegnarlo alla luce convergente di quattro lumi. Impiegò poco più di un’ora, non pensando a nient’altro che alla mano sul foglio. E quando finalmente ritenne il lavoro compiuto, liberò il cervo volante dall’ago e andò depositarlo fuori, su un fico, alla biforcazione di un ramo. Voleva che sopravvivesse e aspettò fermo, il lume in mano, nella speranza di vederlo muovere, anche soltanto una piccola contrazione, ma nulla. Quella notte si addormentò pensando alla verità che – come la vita – si aggrappa alle cose e sembra sempre sospesa fra cielo e terra. Pensò alle cose che sono sì un appiglio e un rifugio che ma che durano quel che durano, e pensò alla saldezza dell’essere da sempre minacciata da tutto ciò che è imprevedibile, e ancora alla perseveranza che corre sempre il rischio di sconfinare nel peccato di orgoglio: tutti pensieri confusi, su cui si trovò a galleggiare prima di affondare nel sonno. 

Si alzò che il sole era già alto, uscì a petto nudo, coi capelli biondi che gli cadevano a ciocche sulle spalle e la barba arruffata. Guardò fra i rami del fico, controllò per terra, rovistando fra le foglie, e tornò indietro convinto che il cervo volante si fosse salvato. Agosto stava per finire e già si sentiva nell’aria l’iniziale declino dell’estate. Dürer non sapeva nulla sulla vita del cervo volante e sulla sua fugacità. Ma sapeva che ormai sarebbe stato in grado di disegnarlo a memoria, senza trascurare neppure il minimo dettaglio. E questa consapevolezza lo appagava. Sicut deus.

 



Eduardo Rebulla

BIONOTA

Nato a Palermo nel 1950, Eduardo Rebulla ha sempre vissuto nella sua città. Di professione medico, ha coltivato la scrittura nel tempo rubato. Ha pubblicato sette romanzi, sei con l’editore Sellerio (Carte Celesti, Linea di terra, Segni di fuoco, Sogni d’acqua, Stati di sospensione, La misura delle cose) e uno con Baldini&Castoldi (Le conseguenze estreme).



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