DÜRER E IL CERVO VOLANTE di Eduardo Rebulla (narrativa)
Dürer
e il Cervo volante
di
Eduardo Rebulla
Le cose cambiano di senso ma nel fondo qualcosa resiste, invariata. È il caso del cervo volante (lucanus cervus), che oggi è diventato un insetto minacciato di estinzione e perciò protetto dalle norme comunitarie. Le sue abitudini crepuscolari (si mette in volo al tramonto) non sono ovviamente mutate e così il suo aspetto, con le ragguardevoli e poderose mandibole. Invariata è anche l’abitudine che ha la femmina di nidificare alla base di vecchi tronchi dove le larve, alla schiusa, scavano lunghe gallerie per proteggersi durante l’impegnativa metamorfosi: da 4 a 6 anni per diventare pupe e poi qualche mese ancora prima di liberarsi dall’involucro finale e affrontare, all’inizio dell’estate, la loro vita adulta che dura fino ad agosto per i maschi e fino all’inizio dell’autunno per le femmine.
Anche se poi, di simbolo
in simbolo, ci si può domandare cosa ci facciano mai i porri nel dipinto di un
onesto pittore tedesco di quadri decorativi (fiori soprattutto e nature morte).
Sono lì per caso, per capriccio dell’artista, o invece alludono a qualcosa?
C’entra in qualche modo il fatto che i porri siano stati ritenuti a lungo un
simbolo fallico, primo fra tutti dallo stesso Giordano Bruno che gli attribuiva
la qualità di alimentare il seme maschile, riprendendo così la lunga tradizione
latina che considerava quest’alimento come un potente afrodisiaco (Marziale: «Se
l’invidiosa età allenta il nodo nuziale, il tuo cibo siano i porri»)? Ma forse
un ruolo potrebbe giocarlo la parentela che il porro ha con l’aglio e la
cipolla, piante entrambe capaci di proteggere da ogni influenza nefasta, dai
malefici e dalle insidie diaboliche. Per Plinio anche dalla follia – oltre che
dai serpenti
I pittori sono Giovanni Bellini, maestro indiscusso, quasi ottantenne, e due giovani pittori dai destini diversi. Il misterioso Giorgione che ha poco più di venticinque anni e morirà cinque anni dopo, a Venezia, nell’epidemia di peste del 1510. E Lorenzo Lotto, artista inquieto, umorale che visse lontano da Venezia, senza fama, spostandosi di continuo per commesse in zone periferiche, fuori dai grandi centri dell’arte. Tutti e tre, con intenti diversi, hanno avuto a che fare con Dürer che in quello stesso 1505 è per la seconda volta a Venezia, dove frequenta il mondo cosmopolita che affolla la laguna, si reca a casa di Giovanni Bellini per rendergli omaggio (nelle sue lettere lo definisce «il miglior pittore di tutti») e per oltre un anno si dedica a una tavola sulla Festa del Rosario che doveva decorare la chiesa della comunità tedesca.
Sicuramente ebbero modo di vederlo sia Giorgione, attratto da ogni novità e sempre alla ricerca di una fuga dal modello lagunare, sia Lorenzo Lotto, che probabilmente alle virtù compositive della Festa del Rosario preferì un altro dipinto che Dürer teneva, ancora incompiuto, nel suo studio, il Ritratto di giovane veneziana, dotato di una sensualità che annullava ogni distanza: una donna viva, palpitante. Una sera che, pressato dai committenti tedeschi, stava ancora lavorando alla Festa del Rosario, lo sguardo di Dürer incontrò il ritratto della giovane veneziana. I suoi amici lo avevano invitato a una festa ma lui, pur di potere andare avanti nel lavoro, si era finto malato, rinunciando così alla possibilità di incontrare la sua giovane modella. Adesso invece si era pentito della sua scelta e il silenzio in cui amava lavorare gli pesava addosso come una cappa e lo rendeva inquieto. Fu proprio allora, mentre era in dubbio se cedere o meno alla nostalgia, che avvertì un ronzio e si accorse che, richiamato dalla luce, un cervo volante era entrato nella stanza attraverso la finestra aperta e stava ronzando attorno a un cesto di frutta. Aspettò che si posasse, si avvicinò di soppiatto e lo afferrò da dietro, stringendolo con le dita fra torace e addome, per evitare le mandibole.
Raggiunto il suo tavolo da lavoro, lo trapassò da parte a parte con un ago, lo bloccò su un foglio e per evitare le ombre iniziò a disegnarlo alla luce convergente di quattro lumi. Impiegò poco più di un’ora, non pensando a nient’altro che alla mano sul foglio. E quando finalmente ritenne il lavoro compiuto, liberò il cervo volante dall’ago e andò depositarlo fuori, su un fico, alla biforcazione di un ramo. Voleva che sopravvivesse e aspettò fermo, il lume in mano, nella speranza di vederlo muovere, anche soltanto una piccola contrazione, ma nulla. Quella notte si addormentò pensando alla verità che – come la vita – si aggrappa alle cose e sembra sempre sospesa fra cielo e terra. Pensò alle cose che sono sì un appiglio e un rifugio che ma che durano quel che durano, e pensò alla saldezza dell’essere da sempre minacciata da tutto ciò che è imprevedibile, e ancora alla perseveranza che corre sempre il rischio di sconfinare nel peccato di orgoglio: tutti pensieri confusi, su cui si trovò a galleggiare prima di affondare nel sonno.
BIONOTA
Nato a Palermo nel 1950, Eduardo Rebulla ha sempre vissuto nella sua città. Di professione medico, ha coltivato la scrittura nel tempo rubato. Ha pubblicato sette romanzi, sei con l’editore Sellerio (Carte Celesti, Linea di terra, Segni di fuoco, Sogni d’acqua, Stati di sospensione, La misura delle cose) e uno con Baldini&Castoldi (Le conseguenze estreme).
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