Nella Roma papalina di Ugo Gregoretti di Riccardino Massa (teatro)
Nella Roma papalina di Ugo Gregoretti
di Riccardino Massa
“Pronto? Parlo con il signor...”, è iniziata così la telefonata giuntami dalla Direzione artistica del Teatro Regio di Torino. “Vorremmo proporle di riprendere la regia del Don Pasquale di Gaetano Donizetti che creò Ugo Gregoretti con la scenografia di Eugenio Guglielminetti nel 1988”.
La macchina del tempo aveva funzionato senza bisogno di salire su una DeLorean DMC – 12, come fece Marty McFly nel celebre film di Zemeckis Back to the Future. Mi rividi così nel 1988, poco più che trentenne, con ancora una folta barba color corvino, seduto in platea vicino a quei due mostri sacri del teatro a parlare dell’opera donizettiana. Balzavo dalla platea al palcoscenico insieme all’assistente di regia dell’epoca per sistemare prima i figuranti e poi i solisti in base alle note di regia che Gregoretti mi aveva illustrato.
Era ormai noto a tutti che entrambi gli artisti, seppur neppure attempati (Gregoretti - Roma 28 settembre 1930, 5 luglio 2019 e Guglielminetti - Asti 17 luglio 1921, 6 settembre 2006) non deambulavano facilmente. Lo scenografo, un giorno, addirittura cadde inciampandosi in un gradino della platea e lo dovetti aiutare a rialzarsi. Così è iniziata questa rivisitazione per la produzione che andrà in scena al Regio di Torino il prossimo 25 gennaio con fior di protagonisti in entrambi i cast (Nicola Alaimo e Lucio Gallo – Don Pasquale, Maria Grazia Schiavo e Francesca Pia Vitale – Norina, Antonino Siragusa e Matteo Falcier – Ernesto, Simone Del Savio e Vincenzo Nizzardo – Dottor Malatesta).
Don Pasquale è un’opera buffa. Gaetano Donizetti commissionò a Giovanni Ruffini di scrivere un nuovo libretto riprendendolo da un precedente lavoro del 1810 di Angelo Anelli che s’intitolava “Ser Marcantonio” su libretto di Stefano Pavesi. Tra l’altro, per più di un secolo dall’andata in scena (3 gennaio 1843 al Théâtre-Italien di Parigi) l’individuazione del librettista non fu così nota. Infatti, Giovanni Ruffini (un mazziniano genovese che viveva in esilio a Parigi) esasperato dai troppi interventi modificatori del libretto da parte dello stesso Donizetti, decise di non apporre la sua firma sotto il libretto stesso e di non rivendicarne la proprietà intellettuale. Donizetti dovette quindi segnare sul frontespizio un altro nome come librettista. Fece scrivere Michele (Michelangelo) Accursi. Un associato alla Carboneria, autore di un libello dal titolo “Declamazione di un libero romano alle province unite d’Italia”, il quale partecipò ai moti insurrezionali del 1831, arrestato a ponte Milvio nell’aprile di quell’anno venne successivamente liberato da Gregorio XVI (La liberazione diede modo di pensare che in realtà avesse ceduto nella delazione). Non si conosce la vera motivazione di questa scelta di attribuzione del libretto, alcuni pensano sia stata casuale, altri pensano che fosse proprio per evitare censure da parte dello Stato papalino. Infatti, ma solo successivamente alla composizione, all’epoca di Pio IX, l’Accursi venne addirittura nominato Direttore di Polizia.
Donizetti si vantò di aver composto Don Pasquale in undici giorni, ma questa affermazione non deve essere presa proprio alla lettera. È plausibile che l’autore nel ristretto spazio di tempo indicato abbia interamente abbozzato la partitura, la quale del resto incorporava almeno cinque pezzi precedentemente composti. Anzi, a dirla tutta, proprio il fatto di voler introdurre nell’ensemble finale la musica della canzone «La bohémienne», precedentemente composta, senza dirlo a Ruffini, fu uno dei motivi scatenanti il litigio tra i due che portò al ritiro della firma da parte del Ruffini stesso. Undici giorni di composizione? Sarebbe più realistico affermare che l’opera lo impegnò per circa tre mesi dal momento di inizio della sua collaborazione con il librettista (della quale vi sono indizi nelle lettere che si scambiarono), fino alle inevitabili modifiche e ritocchi apportate ancora durante le prove in palcoscenico.
Dicevo, Don Pasquale è un’opera buffa. Una commedia in musica. Donizetti non lasciò mai passare più di 4 anni fra due opere comiche. Per lui diventavano una pausa necessaria per interrompere la tensione delle vicende e atmosfere tragiche in cui era prevalentemente immerso. Ma come affrontare oggi una regia del 1988, visto che in questi 35 anni dall’epoca, grandi mutamenti sono avvenuti sui gusti degli spettatori? Una domanda che mi sono subito posto, e che prevede un adeguamento della regia in base alle attuali sensibilità artistiche.
Oggi lo spettatore ha accelerato i sensi, e certi tempi comici che trent’anni fa potevano farlo sorridere, oggi debbono essere rivisti e modificati per non annoiare in un’opera che è appunto detta “comica”. Oggi il messaggio culturale televisivo e cinematografico spinge tutti a non sopportare il dilungarsi di situazioni sceniche. Tutto deve essere risolto più velocemente e soprattutto con continue novità che tengano incollato il pubblico all’interesse iniziale. Ciò non è sempre positivo, anzi, per esempio, posso dire che a volte l’attuale fruitore dell’opera lirica tende a perdere la capacità di concentrarsi sugli aspetti musicali privilegiando quelli visivi. Gli aspetti visivi hanno preso spesso il sopravvento su quelli uditivi. E questo è un guaio. Un esempio? Una sinfonia di quattro o cinque minuti a sipario chiuso, senza che nulla succeda, a volte è ingiustamente reputata lunga. Anche perché sta avvenendo una netta differenza tra il pubblico della lirica e quello della sinfonica. Cosa impensabile anche solo venti anni fa.
Naturalmente il mio intervento registico non ha nessuna pretesa di stravolgere l’impianto originale, ma alcune correzioni è necessario farle. La valida selezione di solisti fatta dal Regio di Torino, che privilegia giustamente la scelta vocale, mi permette di lavorare con ottimi professionisti. Ciò però mi impone, per esempio, di dover curare gli aspetti interpretativi. Dovrò invecchiare Don Pasquale e ringiovanire Ernesto, Norina e Malatesta. Non si tratta certamente solo di trucco, ma anche di atteggiamento scenico sul quale dovrò lavorare parecchio nelle tre settimane di prove che mi vengono concesse. L’opera donizettiana è ambientata a Roma. Lo sappiamo però solo dalla citazione sul frontespizio e dalla lettera che Ernesto scrive a Norina (e letta da Malatesta nella seconda scena) con la quale il tenore dichiara: “Oggi stesso lascio Roma”. Non vi sono altri momenti musicali, letterari o scenografici (Per esempio un cupolone dipinto sul fondale) che ci dichiarano la località dove è costruita la drammaturgia.
Eppure, Gregoretti (romano D.O.C.) voleva che in qualche modo venisse in luce una certa romanità negli atteggiamenti e nel contesto dell’opera. Quindi, registicamente, si deve operare in modo che continui a vivere quella romanità di metà Ottocento. Popolani, aristocratici, servitori, monelli (scugnizzo romano) gente in tonaca, sono questi i personaggi che animeranno la scena in aggiunta ai protagonisti. Don Pasquale è un anziano che ha ancora delle fugaci voglie giovanili. Lo scherzo sta nel dimostrare che per tutte le cose c’è una loro età e che, il pensare di fare delle cose diverse (come maritarsi), al di fuori della giusta età, non solo può essere pericoloso, ma può mettere l’individuo nella condizione di essere deriso.
Musicalmente, Don Pasquale, è ritenuta giustamente l’opera più mozartiana tra le opere comiche di Donizetti, ma tale accostamento può trarre facilmente in inganno. L’opera si riallaccia alle convenzioni italiane dell’Ottocento e non allo stile cosmopolita della Vienna settecentesca. Certo non manca un elemento di satira sociale in Don Pasquale, ma si differenzia da quello delle commedie di Mozart. Anziché mescolare l’aristocrazia provinciale con personaggi di diversa estrazione sociale (vedi Nozze di Figaro o lo stesso Don Giovanni), Don Pasquale gioca sul contrasto fra mentalità moderna e antiquata della borghesia urbana. Ciò nonostante, alcuni tratti di quest’opera vengono definiti mozartiani per vivacità, umanità e senso delle proporzioni musicali. Se la presentazione dei tre protagonisti maschili avviene già nella prima scena del primo atto, dobbiamo attendere la seconda scena perché si presenti al pubblico il personaggio femminile (Norina) nella cavatina bipartita “Quel guardo il cavaliere” (Andante che fa le veci di un recitativo e poi un Allegretto) che contrappone al mondo stereotipato dei romanzi antichi con le loro espressioni artificiali, le vedute di una donna decisa (meglio dire ragazzina) che sa come sfruttare il proprio fascino.
La vivacità dell’atto primo (in entrambe le scene) viene sostituita nel preludio del secondo atto, consistente in un “solo” di tromba che anticipa la melodia di Ernesto “Cercherò lontana terra”. Con l’entrata in scena nel secondo atto di Don Pasquale attacca il nucleo comico dell’opera. Norina, mai conosciuta personalmente da Don Pasquale, diventa Sofronia, la finta sorella di Malatesta (vero regista della burla). Lui la vuole far sposare al protagonista solo perché diventi una croce insopportabile per Don Pasquale, avendo in mente in questo modo di agevolare le nozze di Norina con Ernesto (suo amico e nipote dello stesso Don Pasquale). L’isteria della donna dopo il finto matrimonio è spesso trattata in modo serio. L’impronta registica è di farla diventare esilarante in modo da scatenare l’ilarità del pubblico. Il terzo atto è l’epilogo della storia, anche qui si alternano situazioni musicali che fanno emergere il lato dolce ed amoroso dei due giovani con le situazioni comiche create dalla burla di Malatesta.
L’indirizzo scenografico permette che questa produzione del Regio di Torino sia rappresentata storicamente nel momento della composizione (metà Ottocento). Per comprenderci meglio, la nostra Nazione non era ancora unita, tanto è vero che il Cancelliere austriaco Klemens von Metternich, solo quattro anni dopo la composizione di quest’opera, ancora avrebbe affermato che l’Italia non era altro che una “espressione geografica”.
Lo Stato papalino era una monarchia assoluta ed il santo padre in quell’epoca era il bellunese Mauro Cappellari che prese il nome di Gregorio XVI (precedente al più noto Mastai Ferretti che venne dopo di lui con il nome di Pio IX). Un papa certo chiacchierato, visto che lo scrittore francese Stendhal (pseudonimo di Henri Beyle) in una lettera del 1835 al Duca di Broglie così lo descriveva: “ama riposarsi in compagnia della moglie di Gaetanino. Questa donna, che può avere 36 anni, non è né bene né male. Gaetanino quattro anni fa non aveva niente e ora contratta immobili per 200.000 franchi. “Il Gaetanino di cui si parla era Gaetano Moroni cameriere personale del Papa e la moglie si chiamava Clementina Verdesi che il grande poeta dialettale romano Giuseppe Gioachino Belli aveva nei suoi scritti apostrofato come “puttana santissima”. Gregorio XVI aveva 64 anni. Quindi, come si può notare, l’anziano Don Pasquale forse rappresentava degnamente un modo di fare che certi uomini anziani avevano all’epoca credendosi ancora scaltri nell’arte amorosa. In scena si vedrà un primo atto diviso in due scene (casa di Don Pasquale e, dopo un breve cambio di scena, la Casa di Norina) entrambe le case si affacciano su un canale navigabile (Tevere? Aniene? Non ci è consentito saperlo), ma questo canale è quello che ci permette una azione scenica all’aperto e non al chiuso come spesso viene costruita tradizionalmente la scena del Don Pasquale.
“Roma si vive soprattutto per strada?” diceva Gregoretti. Certo siamo ancora lontani dalla verdiana fuga “Tutto il mondo è burla” che conclude il Falstaff, ma anche qui la morale è proprio nel finalissimo concertato “la morale è molto bella, quella cara bricconcella più di noi la sa” e poi sarà Norina a dare la nota finale “La morale in tutto questo è assai facile trovarsi, ve la dico presto presto se vi piace d’ascoltarla, ben è scemo di cervello chi s’ammoglia in vecchia età……”
RICCARDINO MASSA
Riccardino Massa (1956) è nato nel “Canavese” (Piemonte centrale). Dal 1986 al 2020 ha svolto la professione di Direttore di scena al Teatro Regio di Torino. Ha ripreso la regia di Roberto Andò de Il flauto magico di Mozart nei Teatri lirici di Cagliari, Palermo e Siviglia, nonché la regia di Lorenzo Mariani de Un Ballo in Maschera di Verdi e quella di Jean Luis Grinda della Tosca di Puccini, entrambi al teatro Bunka Kaikan di Ueno in Giappone. Ha poi realizzato la messa in scena de L’Orfeo per il festival Casella e recentemente la ripresa della regia di Gregoretti del Don Pasquale di Donizetti al Regio di Torino.
Interessantissimo questo testo di Riccardino Massa, sia dal punto di vista storico musicale sia storico sociale.
RispondiEliminaSpero che sia possibile, per chi non ha potuto vedere l'opera al Regio, vederla su qualche canale dedicato della RAI.
Apprezzo molto l'idea della ripresa di una regia di Gregoretti , uomo non solo di spettacolo, ma intellettuale completo, se posso azzardarlo, dalle caratteristiche Calviniane: capacità di sintesi fra profondità di analisi e leggerezza e chiarezza nella realizzazione dei lavori, sia teatrali sia televisivo-cinematografici, dalla personalissima visione della realtà.
Purtroppo , come accade spesso nel mondo culturale italiano, incomprensibilmente, alcuni autori " non allineati" al sentire comune, non vengono proposti abbastanza attraverso le loro opere e ritengo che questo valga anche per Gregoretti.
Ultima annotazione, ho apprezzato di questo testo la ricchezza dei collegamenti interdisciplinari, tra storia musicale, storia sociale, politica e dei protagonisti. Questo intreccio rende la narrazione interessante e calda umanamente e ci fa comprendere che la vita è ricca di complessità che producono qualità, contrariamente alle semplificazioni verso le quali tende a portarci un certo tipo di "cultura" attualmente in voga.