Andando per mostre - Parigi e l'eterno conflitto fra utile e bello (II parte) (PARIGI, O CARA) ~ di Rosalia Orsini - TeclaXXI

 

PARIGI, O CARA

 

Rosalia Orsini

 

Andando per mostre - Parigi e l’eterno conflitto fra utile e bello

 

Parte Seconda


 La prima parte è stata pubblicata da TeclaXXI il 21 maggio 2025


Il Musée de l’Homme ha riaperto l’anno scorso i battenti delle sue pesanti porte dopo un lungo restauro che gli ha tolto polvere e pesantezza. È stato un vero piacere scoprire questa mostra, di taglio decisamente più etnografico, allestita nelle sale che danno sulla Esplanade del Trocadero, intitolata “Wax, une incarnation textile de l’Afrique?” (non più visibile). Il Wax è spesso visto come il tessuto dell’Africa per eccellenza, alimentandone così una visione stereotipata. In realtà, questo tessuto è stato importato dalle potenze europee, durante la colonizzazione, e non è originario del continente africano, bensì si ispira a tessuti indonesiani, appunto durante la colonizzazione dell’Indonesia da parte dell’Olanda. Ancora oggi sulla cimasa di questi tessuti si può leggere: Wax- Hollande. Come completamento storico, aggiungo che questo nasce nel XIX secolo in un contesto coloniale, grazie ad alcuni imprenditori olandesi che iniziarono la produzione e il commercio dei tessuti indonesiani (batik) per un mercato indonesiano, quindi locale: la produzione era in Olanda e la vendita in Indonesia! Più lungimiranti furono, invece, alcuni soldati ghanesi, che erano stati arruolati dagli Olandesi fra il 1831 e il 1872 per rafforzare la loro presenza militare a Java. Questi ritornarono in patria con alcune pezze di questo tessuto. Una iniziativa vincente, ma ben presto “rubata” dai potenti commercianti europei che di fatto si imposero con questo prodotto sul mercato del continente africano. A partire dalla seconda metà del XX secolo, la produzione del Wax si è sviluppata in modo autonomo in Africa, nei Paesi della diaspora africana, poi in Asia, diventando così un tessuto intercontinentale. E simbolo, soprattutto di “africanità”. Un simbolo di appartenenza valorizzato anche da artisti e stilisti che lo hanno usato al posto dei tessuti tradizionali come il bogolan o il ndop.

Questa sarta, fotografata seduta dietro alla macchina da cucire (1956), incarna il ruolo delle donne nell’economia del wax nell’Africa Occidentale. Queste artigiane trasformano i pagne di wax (taglio di tessuto) in vestiti su misura, che diventano i simboli dello stato sociale e della cultura dei/delle clienti. Prima di diventare un vestito, un accessorio di moda, un tessuto di rivestimento, il wax è prima di tutto un tessuto stampato recto/verso secondo una tecnica che utilizza la cera (wax in inglese) per delimitare gli spazi dei motivi da stampare. Il risultato è un tessuto dai colori vivaci, contrastanti e con motivi che si ispirano alla fauna, alla flora, e anche alla attualità politica e sociale: nella 

 

foto 10

il wax si ispira alla giornata internazionale della donna, mentre nella


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 viene riprodotta come elemento decorativo la borsa di Michelle Obama.

 

La Fondation Cartier pour l’art contemporain non delude mai nella scelta di artisti contemporanei, non soltanto in campo pittorico. Olga de Amaral, artista colombiana (Bogotà ,1932), contribuisce ad abbellire la scena culturale parigina con i tessuti delle sue 80 opere (mostra non più visibile). È una delle artiste tessili che dimostra come la tessitura non abbia limiti; essa sperimenta con materie, tecniche e dimensioni, creando opere tridimensionali dalle strutture complesse. “Nel mio desiderio profondo di sperimentare nuovi colori, testure, trame, materie, ho scoperto i telai dei contadini e ho capito che tutta la Colombia è un tessuto”: in questa dichiarazione l’artista rende omaggio alla cultura tradizionale colombiana e attraverso questa mostra ne esalta la creatività e non ultimo rivalorizza la maestria di un’arte che è esclusivamente al femminile. Sorprendente è la fantasia di colori, di intrecci, di nodi con i quali gioca l’artista: si veda il particolare di questo intreccio


 nella foto 12

 o il sorprendente gruppo intitolato Brumas presenti in numero di 23 sulle 34 realizzate

 


nella foto 13.

 Si tratta di migliaia di fili di cotone tuffati in una sorte di gesso e ricoperti di pittura acrilica, che appaiono come rappresentazioni metaforiche dell’acqua e dell’aria. Sospese nello spazio, cadono come una pioggia fine da cui emergono forme geometriche colorate: una meraviglia! La sorpresa continua con la serie intitolata Estelas (Stole), del 1996.

 


foto 14

 

Sono pannelli dorati, rigidi, composti da una struttura tessuta in cotone e ricoperti di uno spesso strato di “gesso”, poi da una pittura acrilica e da foglie d’oro. Il tessuto scompare perché trasformato in un oggetto che ricorda i totem, menhir, le stele funerarie e votive, le pietre stellari dei siti archeologici precolombiani. I nodi della tessitura ricordano i quipus, cioè un sistema complesso di conservazione delle informazioni utilizzato dagli Incas: cordicine annodate e colorate che servivano da libri contabili, testi di leggi e racconti storici.  Dietro questa fantasmagoria di intrecci, nodi, tessiture, trame, colori c’è il richiamo all’immagine della donna-artigiana-artista, del “silenzio” di cui è circondato il lavoro delle donne. L’opera di Olga de Amaral valorizza la tecnica artigianale e la libera al contempo dal concetto di utilità: non tappeti, ma creazioni d’arte!

 

E poi, nelle sale del Grand Palais, anche lui uscito dal restauro olimpico, sono arrivati loro: i Dolce e Gabbana, con una mostra visibile fino al 2 aprile prossimo: “Du coeur à la main”. Una mostra che Parigi ha vissuto come un vero e proprio avvenimento, che ha attirato migliaia di visitatori, i quali vi entrano solo su prenotazione oraria rigorosissima. È una grande sfilata, quasi una parata, che si snoda su tre piani, una sorte di grand tour che permette di viaggiare, far viaggiare, attraverso la penisola svelando le eccellenze del “fatto a mano” nell’alta moda. Il “fatto a mano” richiama le tecniche tradizionali tramandate nelle varie regioni italiane e non solo nel cucito. I colori delle maioliche di Capri sono richiamati nella brillantezza dei ricami; l’arte del giunco e i trulli pugliesi sono trasportati nell’intreccio dei tessuti;

 


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guarnizioni ricamate, passamanerie, pizzi, macramè, ricami a punto croce riproducono ora un monumento di Firenze ora un quadro di Piero della Francesca, Botticelli, Raffaello

foto 16, 17.

 

I curatori della mostra non hanno tralasciato nessuna delle immagini che l’Italia tramanda di sé, e che tanto piace oltralpe: il cinema con le scene del ballo del Gattopardo di Visconti; l’opera con un omaggio a Verdi

 


foto 18

 

e a Rossini;

foto 19

 

il designer.

 

foto 20

 

Dolce e Gabbana offrono il meglio della loro creazione sbizzarrendosi a mettere merletti e ori a profusione. La parte più interessante è quella in cui lo stilista Domenico Dolce, siciliano, ci introduce nel mondo del “nero” della Sicilia. Pizzi e macramè rigorosamente neri sono i segni di una società che si tramanda uguale e uniforme nel tempo in quelle che sono le sue manifestazioni più intime: la religione e la morte.

 

 foto 21.

 

La ricchezza dei pizzi fatti a tombolo rimanda al manto della Addolorata nelle processioni della Settimana Santa e la semplicità degli abiti del lutto alle prefiche e alla disperazione delle madri nelle fotografie di Letizia Battaglia. Ma la Sicilia “nera”, rappresentata dalla coppola è solo in questa foto

 

foto 22

 

che ritrae l’atelier degli stilisti. C’è, invece, l’allegria siciliana dei carretti popolari e dei pupi, soprattutto nella giocosa rivisitazione dei putti del Serpotta (1656-1732), riprodotti nelle applicazioni tridimensionali degli ornamenti degli abiti in bianco.

 

foto 23.

 

Stefano Gabbana ha voluto rendere omaggio, lui milanese, alla Madonnina del duomo di Milano con un abito regale in tulle e pizzo, ricoperto da un grande velo che scende da una raffinata corona, che è anche, stranamente, l’unica della collezione,

 foto 24

 

nella quale i due stilisti hanno presentato anche la loro creazione orafa con orecchini, anelli, collane di una ricchezza straordinaria.

Una mostra ricca, straricca, barocca, ridondante di tutto: colori, tessuti, pizzi, ori, ricami, gemme, tutto rigorosamente fatto a mano. Il trionfo della maestria della mano! Perché, di fronte a tanta ridondanza prima di esclamare “che bello”, viene da dire “come hanno fatto”’?! Un trionfo anche della non praticità, ma non per questo meno belli. Sono creazioni, più che vestiti, fatti per rappresentare sé stessi, dei narcisi che guardano la loro bellezza che riproduce un’altra bellezza,

 foto 25

riflessa negli occhi e nelle esclamazioni dei visitatori, a loro volta riflessi negli e dagli specchi del soffitto! E in questo trionfo della mise en abîme vi leggo anche il trionfo dell’effimero, dell’inutile che tanto sarebbe piaciuto a Gautier. Ma a me, meno.

credits: tutte le foto degli abiti sono state scattate dall'autrice ©rosaliaorsini 

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ROSALIA ORSINI 

BIONOTA

Rosalia Orsini è una appassionata della lingua e della cultura francese, che ha insegnato per molti anni nelle scuole superiori ad indirizzo linguistico–sperimentale. È stata anche formatrice di insegnanti; convinta sostenitrice di una Federazione Europea, ha lavorato in gruppi internazionali negli anni d’oro del processo di integrazione europea, fine anni ’80 e anni ’90, contribuendo alla elaborazione di progetti di formazione degli insegnanti europei   e alla attuazione dei programmi di scambi fra le classi degli Istituti dove ha lavorato con la Francia e con i Paesi francofoni anche extra-europei. Inoltre, è stata lettrice di italiano con incarichi extra–accademici nelle Università di Cracovia, Dcshang (Camerun), Zagabria. È stata traduttrice ufficiale nella redazione del Maggio musicale Fiorentino dall’inizio degli anni ’90 fino al 2024


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