Guardando la guerra (narrativa) ~ di Luigi Ananìa - TECLAXXI
Guardando la Guerra
(Montalcino 2003, guerra in Iraq)
Ho una bella moglie e una figlia che è un tesoro. Da un po’ di giorni è scoppiata la guerra. Ho trovato il modo di passare il tempo; accendo il mio televisore tedesco e guardo le bombe che cadono e le case che si frantumano. Se mi giro a sinistra vedo una grande finestra a volta e un prugno che fiorisce al sole. Davanti allo schermo posso provare pietà per i volti e gli intonaci che si sfaldano. La sera dell’invasione camminavo nel cortile e guardavo i riflessi viola nella luce del tramonto; poi ho visto il salone e gli stessi riflessi che inondavano il televisore per l’esplosione di un palazzo; sul bordo dello schermo correvano bambini scalzi. Una madre che inveiva al mondo mi offriva l’indignazione che trasferivo sull’ambiente. Poi guardavo mia figlia che si alzava sulla carrozzina e intanto mi beavo degli splendidi congegni che alla vigilia dell’invasione un elettricista aveva applicato sul televisore.
Dietro al video erano inseriti degli accessori che si azionavano se la scena lo esigeva. Come aveva spiegato l’elettricista, traspirando per l’entusiasmo, ogni congegno percepiva lo spirito di quel che accadeva nel video. Al momento dell’esplosione, un bar si apriva sul lato destro ed esponeva un vino adeguato allo scenario; poi un’asta di metallo annunciava un adagio del Seicento, mentre le scene proseguivano in dissolvenza. Sorseggiando il vino consigliato, un Borgogna del Novantanove, guardavo la gente che fuggiva, i pavimenti che volavano come rondini variopinte e le bocche che si aprivano come ellissi di vuoto. Mia moglie intanto si truccava, indossava una gonna viola e facevamo l’amore a cadenza.
La guerra mi dava il tempo. La cena su stoviglie a fiori precedeva l’amore e il sonno. Se mi fossi alzato per un residuo d’inquietudine, avrei guardato le ultime cronache della devastazione.
Una notte mi sono svegliato per un sogno di tre figuri che passavano davanti la finestra e ho visto sullo schermo una schiera di palazzi sventrati. Nelle camere spioventi sul nulla individui bronzei si agitavano in cerchi concentrici.
Uscii con il mio cane e mi accorsi che albeggiava e che un capriolo mangiava i germogli della mia vigna; quando ci vide saltò e sembrò infrangersi nell’aria; poi sparì nella luce dell’alba e io sentii un gran senso di vuoto, mentre il mio cane rimase con lo sguardo meravigliato sulla linea dell’orizzonte.
Quando tornai abbracciai mia moglie sul sofà e le voci che echeggiavano tra le pareti rilevarono le capacità acustiche del salotto. Poi, mentre guardavo il primo piano di un piede che fuoriusciva dal cassone di una Nissan, giunse una compagnia di ospiti frenetici. Girovagarono nel salotto e intorno al tavolo si porsero domande e asserzioni. Quando videro la carrozzina, si piegarono sulla bambina avvicinandole pelli segnate da borse, polveri e lipomi. I volti s’ingrandivano ed entrando nel parasole agitavano gli occhi e le guance sciupate dalla cosmesi e dal tempo. Pensai alla mia bambina davanti a quei visi altalenanti che la invadevano di suoni ma lei non si spaventò fin quando un timpano di teflon le cadde sulla pancia e lei pianse. Una signora strusciava i sandali e muoveva le mani tradendo l’istinto di voler piacere e accontentare; quando le versai del vino, mi carezzò lo sguardo con le palpebre e con un complimento roteante dispose gli altri intorno al tavolo e diede la parola a un ospite bolso, che era seduto su una sedia.
La compagnia oscillò le teste dalla signora al prescelto, che cominciò a balbettare. Parlò della sua vita in tre direzioni, sentendosi in pace con il mondo. Il lunedì la produzione di plancton di sintesi, il mercoledì la costruzione di monolocali d’argilla e il venerdì l’invenzione di assiomi rivelati senza richiesta. Io guardai la mia bambina che dormiva e bevvi un bicchiere di rosso; poi guardai l’ospite che si asciugava gli occhiali opachi di sudore e inveii al bianco dell’intonaco e al cielo.
Quando finii, di urlare la compagnia si disorientò. La signora si girò come un rettile e camminò sul piazzale della villa, guardando il lastricato e la casa; poi guidò gli altri sul viale d’uscita dove passava una donna sempre attratta da compagnie vaganti. La donna adorna di una stella sul capo mimò quel che aveva tante volte vissuto quando era in gita scolastica come insegnante; si mise con le braccia parallele a quel che le sembrava un autobus e con giravolte delle mani e del capo dirigeva a bordo; gli ospiti camminavano bradi ma lei continuò a far da guida fin quando senza una ragione s’incamminò su un campo di grano.
Intanto io andai su e raggiunsi mia moglie che era affacciata alla finestra; la baciai e guardai le labbra schiuse su di me, i capelli sulla curva della schiena, il cielo e gli occhi che domandavano. Incominciammo a dondolare in equilibrio fra bisbigli e stelle mentre si accendevano le luci di paesi persi nella valle. In lontananza fari di automobili passavano su strade che sembravano sospese nel buio.
Quando tornai di fronte allo schermo, non riuscivo a dimenticare quegli occhi che mi cercavano e quella schiena che oscillava alla luce della luna. Mi sembrava ancora di dondolare e mi sorpresi quando vidi il mio amico professor Kurt che adagiava le sue forme sul mio divano. Era molto tempo che non passava per raccontarmi storie di viaggi e di studi. Mi salutò aprendo una bottiglia e mi indicò sullo schermo l’immagine della testa di un nemico senza vita; avvicinò i bicchieri e disse che quella testa era rimpicciolita per i cambiamenti di pressione conseguenti alle detonazioni. Rimase meditabondo, girando lo sguardo elvetico sul soffitto, finché parlò di una tribù che riduceva le teste dei nemici con periodici colpi di mano; la moglie di un cacicco gli aveva illustrato il lavoro costante che riduceva una testa a un oggetto artistico; si ricordò di un’abitazione in teak cosparsa di volti che si guardavano come piccole bestie imbalsamate.
Poi, spostando fra i cuscini la mole ingrandita da intingoli esotici, mi disse che viaggiando intorno al mondo aveva imparato ad annientare quella parte di sé che impedisce la vita. La scorsa estate, di ritorno da un viaggio in mare, era caduto davanti alla costa per una tempesta. Le onde arrivavano da ogni dove e l’acqua lo sollevava per poi lasciarlo in distese di schiuma. Quando il mare lo portava in alto, guardava nelle finestre illuminate gli abitanti della costa che si muovevano negli interni. Dalle finestre di una villa vide due giovani che si amavano e un anziano agitato da convulsioni di risa davanti a una scrivania. Mentre guardava i vetri illuminati, una raffica di vento lo portò davanti a una pescheria. Il mare lo alzava e lo sommergeva e quando lo sguardo usciva dall’onda vedeva un convivio intorno a un vaso di gladioli. I commensali mangiavano pesci che gli somigliavano negli sguardi. Quando vide gli scogli, pensò di frantumarsi ma fu travolto dal ricordo di fisionomie conosciute in quel luogo. Pensò alle frasi, ai baci e alle ingiurie scambiate in quelle strade in passato. La sua mente confusa dalla paura ricompose discorsi e parole brillate dal tempo; «le parole» disse «le parole e il tempo non finiscono». Poi svuotò il bicchiere gorgheggiando il vino sulla laringe e affermò che quella volta per un corto circuito della meteorologia e della mente aveva annientato parte della coscienza ed era sfuggito al panico; quella notte il suo pensiero era diventato mare e aveva inteso la vita.
Quando finì, guardammo sullo schermo la polvere che si alzava dai resti di una città. Kurt offrì da fumare, invitando a contemplare la polvere che cambiava il colore del cielo. Io ammirai il nulla che si estendeva dallo schermo alla stanza e mi allungai in estasi sul divano. Mia moglie camminava da una camera all’altra; in salotto innaffiò delle piante da fiori e passò un detergente per prevenire le invasioni di acari. Prima di andare a dormire, mi baciò e domandò un’altra volta il mio corpo e il cielo.
[Una precedente versione del racconto, scritto nel 2003 durante la guerra in Iraq, si trova in Storie di volti e di parole, DeriveApprodi 2016. Oggi la guerra spaventa più di allora.]
LUIGI ANANÌA
BIONOTA
Luigi Ananìa si laurea in scienze agrarie presso l'università di Firenze nel 1986. Da allora scrive racconti e fa vino rosso a Montalcino presso l'azienda La Torre. Con la casa editrice Pequod ha pubblicato Il signor Ma (2000) e Cos'è questa nuvola (2011). Presso le edizioni DeriveApprodi ha curato l'antologia di racconti sul vino Confesso che ho bevuto (insieme a Silverio Novelli, 2004) e ha pubblicato Avant'ieri, storie di emigrazione tra la Sila, Torino e Buenos Aires (2009), Pixel, la realtà oltre lo schermo dei media (di nuovo insieme a Silverio Novelli 2012), Storie di volti e parole (2016) e Bestiario umano (2021), ambedue in collaborazione con Nicola Boccianti. Ha scritto racconti per Il semplice, Maltese narrazioni e Nuovi Argomenti.
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