Barbara Carle, Veemenze (CRITICA LETTERARIA) ~ di Domenico Vuoto -TeclaXXI
CRITICA LETTERARIA
Domenico Vuoto
Barbara Carle, Veemenze
di Domenico Vuoto
Gustave Moreau, Chute de Phaéton, 1878, Musée d'Orsay free domain
Veemenze (Marietti, 2024) è un libro in versi che condensa una lunga, articolata e molto significativa esperienza poetica di Barbara Carle. Corredato da uno scritto di Paolo Valesio, poeta lui stesso e saggista, è costituito da dieci sezioni, da scrupolosi riferimenti bibliografici e da una nota sulle citazioni tradotte.
E contiene già nel titolo ˗ implicita ˗ una dichiarazione di intenti: nel senso che traccia le linee guida di procedimenti poetici inclusivi di realtà vissute (e rivissute) attraverso lo sguardo memoriale e con l’osservazione diretta, conclamata o meno, di una multiforme oggettualità.
Tornando al titolo, il termine Veemenze richiama (alla prima) significati quali: irruenza, impeto, foga, fervore e addirittura violenza. Personalmente inclino per gli slanci e la passione e per quanto di cangiante, imprevedibile, di sentimentalmente e psichicamente avventuroso c’è nella presente raccolta poetica. Un’inclinazione, e convinzione, la mia, corroborata peraltro dagli incisivi e intensi versi della poesia iniziale che funziona come un introibo. Conviene riportarne alcuni passaggi, nonostante essi (i versi) appaiano nella loro interezza ed evidenza nella quarta di copertina: Quando dorme / non fa altro / che coltivare / la propria veemenza. / Il ricordo non muore / ritorna nell’onda / … Riaffiora / … a rammentarti / dei cangianti livelli / liquidi del tuo io. / Sono, come si vede, passaggi che testimoniano di uno slittamento di tono e di senso che può risultare spiazzante a una prima lettura per il repentino scarto tra una terza e una seconda persona (modalità, del resto, adottata da Barbara Carle in altre sue composizioni) e perché introducono un movimento inatteso. (A questo proposito, viene da chiedersi: la poesia, la vera poesia, non è forse in sé movimento che si perpetua nel suo farsi? sangue vivo che scorre nelle vene della conoscenza e porta a interrogarsi inesaustamente sul senso delle cose?)
Barbara Carle è poeta molto attiva. Basti qui ricordare che ha pubblicato in passato interessanti raccolte in versione bilingue, inglese e italiano. È italianista, esperta di Dante, Ungaretti e Valery, e ha insegnato in svariate università americane. Dai primi anni, la sua esistenza è stata scandita da numerosi spostamenti in Oriente ˗ suo padre era un diplomatico americano ˗ e in Occidente. Dunque, è stata per necessità (e in seguito per curiosità intellettuale) una viaggiatrice. Il viaggio, la memoria dei luoghi in cui si è vissuti, e l’impossibilità di un effettivo ritorno, attingono tutti alla nozione del nostos. Che nel caso in questione è una delle colonne portanti della prima sezione, tra le più belle e struggenti della raccolta. E dove la poeta dispiega il suo veemente, insopprimibile desiderio di riportare in vita, nel ricordo, un soffio di ciò che è morto: Ecco ciò che resta di quel che è morto: / una eco senza suono che è risorta. / (La veemenza del ricordo, I° sezione). E tornando indietro, a conferma di una memoria che intende custodire ostinatamente il passato come ricco caleidoscopio di esperienze e ponte verso il presente: Le gocce del passato / si allargano increspandosi / in una fonte di sensazioni / la rivelazione di ogni inizio. /
\Vorrei dire, a questo riguardo, che la tanto bistrattata nostalgia è, a mio avviso, un potente lievito della poesia (e dell’arte in genere), se interpretata come restituzione da parte della memoria, non tanto e solo di luoghi, tempi fisici, figure umane e aspetti naturali accertabili, ma innanzitutto di quelle ombre, di quei fantasmi precedenti la nostra stessa esistenza, quel mondo anteriore, edenico magico armonico desiderato che il mondo reale non è, e non è mai stato. Il poeta vive, dunque, una contraddizione insanabile, una frattura tra realtà e desiderio che non porta tuttavia a una dismissione del canto ma a una sua continua dolorosa riproposizione. Barbara Carle possiede le chiavi per aprire a una memoria, sì indirizzata al mondo reale dei suoi viaggi, ma accompagnata da un lessico che lei traduce nelle note a pie’di pagina (ad e. kurta, dhoti, shankha, shehnai, sitar, dhonnabad) e che conferisce ai versi un che di esoterico e, insieme, di magico.
Non mi soffermerò su sezioni che nel suo scritto Paolo Valesio esplora con istruttiva competenza, molto più munita della mia. Andrei invece a quella poesia delle cose che Francis Ponge ha maneggiato con sguardo lenticolare e la nostra poeta dissemina in varie sezioni accogliendo, rivalutando con disperata tenacia e amore e simbolica personificazione gli oggetti più umili della nostra quotidianità. E che uno sfrenato consumismo condanna ormai all’irrilevanza e alla dispersione. Penso alla II° sezione, L’Orfeo delle cose, dove compare uno strofinaccio intitolato niente più che Lo straccio: Lo straccio che indossa il sudicio / è per te …/ …Il cencio è consunto, storpio / usato, ma mentre pendono flosci / e immobili non scartare le croste / di sangue, il pulviscolo, il piombo. / E, subito dopo, il distico rivelatore che chiude la poesia: Lasciali sotto la pioggia, poi stringi / freschezza da quel vecchio strofinaccio. /
Da qui, da queste mie incomplete notazioni, si può forse intuire che la raccolta in versi di Barbara Carle è un libro bello, importante e, al di là di ogni dubbio, avvincente nella sua prismaticità visiva, visionaria e linguistica. Con ciò intendo dire che impegna le facoltà della mente e del cuore di chi ne intraprende la lettura e ama la poesia come una delle poche risorse contro l’inclemenza e le brutture dei nostri tempi.
DOMENICO VUOTO
BARBARA CARLE
BIONOTA Barbara Carle poeta, traduttore e critico. È italianista emerita all'Università statale della California a Sacramento. Ha pubblicato diversi libri di poesia bilingue e un libro di poesia e prosa in italiano. Ha tradotto molti poeti dall'italiano all'inglese e dall'inglese all'italiano.
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