Testimonianze di resurrezioni - IV. Il bosco terapeutico (NARRATIVA) ~ di Ksenija Skliar - TeclaXXI

 NARRATIVA


                                Testimonianze di resurrezioni

IV. IL BOSCO TERAPEUTICO

di Ksenija Skliar

 immagine creata con Canva di Jacqueline Spaccini©2025



Un giorno si scopre che mormorii di sottofondo sono indispensabili, che proprio da essi scaturisce ogni pensiero degno di essere pensato, almeno sotto questo cielo. Se vogliamo essere cauti, ecco: i suoni che invadono il paesaggio interiore possono elicitare pensieri da accogliere, con rispetto se non riverenza, nelle stanze luminose e vacanti della propria mente. Da giovani si coglie al volo qualche brandello di un dialogo alieno, qualche citazione di un film dimenticato, non guardato ma intravisto: «un pedone che brama di esser promosso a donna rischia di finire decapitato», chissà che altro potrebbe sedimentarsi in fondo alla memoria, per affiorare decenni dopo come un consiglio inaspettato. Se provassi a ragionare su come questa capacità, meravigliosa o ridondante, fortunata o dannosa, vada scemando con l’avanzare dell’età, sprecherei il fiato. Certe parole sopravvivono al mondo intero e dopo decenni di peregrinazioni giungono alla meta, che non è mai quella iniziale: un messaggio che ti perseguitava sin dall’infanzia ti attinge quarantenne e ti trafigge ancora un lustro più tardi.

Come faranno i pensatori affannati, frenetici, in possesso di enormi palazzi labirintici - specchi, quadri anneriti, bestie impagliate, lampadari - densamente popolati da più famiglie allargate con rispettivi tesori stipati in scrigni, credenze, armadi, o ammassati in variopinti mucchi sopra tanti letti disfatti? Un ineluttabile minotauro – un qualche doloroso dilemma che si sperava morisse soffocato nelle nubi di polvere - che per decenni sonnecchiava, abulico, ubriaco, magari su una brandina, in un corridoio, sotto una coperta a quadri, bucata, un magnifico mostro mai notato dagli abitanti indaffarati, potrebbe svegliarsi e, pieno di gioiosa furia, iniziare a buttare via il vecchio ciarpame e cacciare via gli abitanti tanto affezionati al proprio corredo ormai inutilizzabile, polveroso e odorante di stantio. E le finestre saranno finalmente spalancate, e chi resterà nel palazzo labirintico saprà apprezzare il chiarore del sole e della luna, il vento e il mormorio di sfondo, umano o no. E il pensatore sarà in grado di pensare. Ora il mostro Asterio – il minotauro non è mica un manzo, ha un nome, un bel nome ha! – instaura finalmente qualche sembianza di ordine all’interno del palazzo, in attesa di un eroe, ancora senza nome né volto, che un giorno verrà a risolvere il dilemma, non giovane, non bello, non nobile, disarmato e pronto al dialogo: Asterio è una semidivinità, figlio di un re, non un bovino da abbattere, mica un mostro qualsiasi da accoppare, nemmeno un divoratore di esseri umani (è risaputo che i Cretesi sono tutti bugiardi).

Il monologo (in che lingua?) trasmesso da YouTube che volteggia in questa piccola stanza semina nella mente di chi scrive singole parole, orfane di sintassi, e insidiosi arabeschi onomatopeici che nascono da concrezioni di mishearing. Questi semi arricchiscono il bosco terapeutico che da parecchi mesi cresce indisturbato nelle vastità del cuore, sede del pensiero che comprende mondi e mondi, altro che un bosco di nemmeno un secolo.

Le neonate betulle sono ancora tanto esili, i sorbi sono carichi di frutti vermigli, ma le querce e i lecci sono già secolari, non saprei spiegare questo fenomeno, e non ne avrei nemmeno voglia. Lo osservo in silenzio, e mi basta. Le felci e gli equiseti non mancano, la loro eleganza senza tempo supera ogni fantasia umana: pur negando il fiore, questi dinosauri vegetali sanno apprezzare le fioriture nel vicino. I funghi eduli, tutti funzione e praticità, e quelli velenosi, tutti sfarzo, si nascondono dall’occhio avido dell’uomo, gli uccelli si rendono invisibili schermandosi dietro la propria voce, e le api che compite seguono la regola ora et labora fanno bordone. Farfalle ammiraglio e quelle bianche fingono di cadere sotto i piedi di chi scrive come petali di luce, per spiccare, tra un attimo, il volo incerto, senza meta, beffardo. Scoiattoli, volpi, lupi, orsi, cervi, dove sono i mammiferi?

Qui, nel bosco terapeutico, si incontrano piante di zone climatiche diverse, tutte le stagioni sono presenti in contemporanea, qualche volta nevica, qualche volta cade una pallida pioggia, ulula un grigio vento, il bianco sole d’estate rimane impigliato da qualche parte in alto per non recare danno agli occhi, con l’età sempre più chiari e vulnerabili. Un erborista qui troverà erbe curative, dalla salvia che sa pregare e dall’iperico che scaccia gli spiriti maligni alle radici portentose descritte in quegli enormi codici tibetani che solo uno yeti ammansito sarebbe in grado di sollevare, spolverare con un soffio, sfogliare con gentilezza, riporre con cura al suo posto, per altri secoli di atarassia. Un comune mortale ci troverà un fitto sottobosco di intertestualità, non un giardino curato: gli alberi caduti, da tempo senza corteccia, giacciono come zanne d’avorio, come spade d’argento, in mezzo all’inestricabilità della nuova vegetazione ancora cieca e sorda, di un verde chiaro e fresco, neonatale, ancora senza nome e senza volto. Chi può dire con certezza che i virgulti nuovi non nascano dall’osso e dal metallo dei tronchi caduti?

Non ci dobbiamo illudere: il bosco terapeutico non ha nulla da dare all’uomo e nulla da dirgli. Tutte le risposte sono già note. Guardate, se persino James Douglas Morrison urlava in faccia a tutti noi che sbagliava il tizio che al seminario credeva che una «petition the Lord with prayer» fosse possibile, «No, you cannot petition the Lord with prayer!» Non puoi estorcergli nulla, con le tue petizioni redatte in modo impeccabile, non serve spiegare nulla alla Fonte di Vita, non serve: sa già che siamo morti e non chiediamo altro che risorgere. Basta chiuder la bocca e, in mezzo al bosco terapeutico, mugolare qualcosa di indistinto, per ringraziare ancora e ancora l’Immenso e, proclamandosi muto, gettarsi avanti.

Da questi attimi di estremo abbandono potrebbe iniziare una guarigione, lunga e senza margini definibili, fragile, fuggitiva, quando migliaia di lacerti, con fatica, vanno riassemblati, in un ordine nuovo, più vero e giusto di quello preesistente. E la sete della parola si risveglia, osteggiata dalle abitudini dure a morire, e l’animale verbale cerca di ristabilire la connessione con il Verbo, provando a far propri i testi scritti da altri. Ogni respiro, ogni movimento degli occhi, ogni parola letta a voce è quasi insostenibile, la stanza diventa una teca di vetro incrinata, dal pavimento inclinato e scivoloso, uno sciame di pensieri offusca la mente. Non mollare, afferrare chi-si-divincola per un lembo della veste, e non lasciarlo andare finché, impietosito, non impartisca l’agognata benedizione con un sonoro ceffone: all’improvviso la salita diventa meno ripida, lo sciame va via, qualcuno ripara la teca di vetro e la adagia con cura sul pavimento di legno scaldato dal sole vespertino, o sulle piastrelle gelide che celano sotto un tappeto (un falso ricordo fa affiorare un rosso cupo di un tappeto da preghiera che ornava la stanza dove dormivo una quarantina d’anni fa). E le parole scorrono sicure, ferme, di bronzo dorato, e le scapole appoggiate al muro sono di nuovo pronte al dialogo con la spina dorsale.

Se è vero tutto quello che è stato appena detto, sarà vero anche quello che verrà detto di seguito. Il silenzio dorato di una sera di settembre, o un silenzio diverso, imperfetto, di latta, di una giornata piovosa, sempre di settembre, viene spezzato da un dialogo brevissimo, cascato dall’alto del passato come una mela spiccata anzi tempo e gettata sotto i piedi di chi scrive, per provocazione. Il tè fumante attende mentre il dialogo lentamente si dipana. L’interlocutore dice di essere morto. Se ti proclami morto, sei pronto per il viaggio, verso il bosco terapeutico, e mentre cammini risorgi senza accorgertene. L’interlocutore dice di ricordarsi una serata di una quindicina d’anni fa, nel cuore (in uno dei cuori) di Siena, tra la contrada della Civetta e quella del Liocorno, forse alle poderose spalle millenarie del nostro San Vigilio, a giugno. Qualcuno disse, allora, che fosse importante aver pietà di sé stesso. L’interlocutore chiedeva a chi scrive se si rammentava l’episodio. No, nulla, tranne la luce benevola senese di quell’epoca, e la sensazione delle lastre, benevole anch’esse, sotto i piedi. Ogni giorno, all’epoca, era luce, pane e oro, un pegno delle prove da fallire in un prossimo futuro, un gruzzoletto da spendere negli anni meno luminosi. Si, certo! Aver pietà di sé stesso è probabilmente la chiave di un piccolo e ridicolo paradiso di sincerità, che è un bosco terapeutico anch’esso! Ma più curato e rassicurante. Ti prego, vivi. Promettimi di vivere, perché sei già sulla strada giusta (verso il bosco terapeutico, e stai già risorgendo). Ora aggancio. Vivi! Il tè fumante è ancora fumante. La pioggia danza sulla latta. YouTube continua a mormorare qualcosa sulla giornata mondiale di prevenzione del suicidio.


 immagine creata con Canva di Jacqueline Spaccini©2025


Verrà un giorno, e il bosco avrà qualche abitante umano. Sorgerà qualche rifugio, una baita in legno o una vecchia carrozza ferroviaria, dove ci si potrà scambiarsi camicie, storie e libri, sorbire il tè fumante, al timo. L’immancabile principe Asterio potrebbe far il custode e l’addetto alla reception, e la sua stupenda maschera bovina troverà la seconda vita in un laboratorio teatrale, terapeutico. Ora non importa. Perché la pelle del mondo è da un pezzo bucata, strappata, tra qualche giorno o anno cadrà a brandelli, e ciò che si renderà visibile agli occhi di tutti sarà una rivelazione solo per i più sprovveduti. Qualcuno, invece, già da tempo intravvede una pelle nuova, elastica, con scaglie luccicanti, attraverso i tagli. Non sarebbe la bestia orrenda che striscia verso Betlemme per nascerci? Non è l’invasato Yeats che vaga tra le felci? Era folle il poeta. Ripetendo queste parole si cade in una tautologia sin troppo palese, stucchevole: un poeta è un profeta, un profeta e un folle è la stessa cosa, non solo nelle lingue semitiche. Un altro monologo, in un’altra lingua, striscia lungo i muri della casa, cauto, come un torrente d’estate. Il mondo, anche nella sua vecchia pelle, non è mai stato un essere mansueto. Ora sta vivendo la sua ultima metamorfosi, prima di giungere alla fine. E a cosa serve, a questo punto, il bosco terapeutico, sulla pelle del mondo, tra le sue pieghe, sotto i suoi mille occhi spietati? Il bosco terapeutico non serve l’uomo. Esiste e basta. E quando il mondo non ci sarà più, il bosco terapeutico, non so sotto che forma, perdurerà oltre il tempo, insieme all’uomo, immortale.

KSENIJA SKLIAR  


BIONOTA Sono Xenia, nata nel 1979. Preferisco la grafia meno ridondante del mio nome, quella con la X. La mia vita è fatta di continui scambi e cambiamenti, complice il percorso di studi in linguistica e filologia, che assicurano la serenità dei cronotopi interiori che custodisco: gli ultimi, velocissimi, anni dell’URSS, i faticosi anni Novanta nella giovane e verde Prussia Orientale, e il secolo XXI, pervaso dal Trecento, a Siena. Allo stesso modo, scambi e cambiamenti, refusi e risemantizzazioni rendevano sempre vivi e vegeti bestiari, vite dei santi, romanzi cavallereschi e altre storie, sempre vere, del Medioevo.


 

 

 

 



 




Commenti