Testimonianze di resurrezioni - IV. Il bosco terapeutico (NARRATIVA) ~ di Ksenija Skliar - TeclaXXI
NARRATIVA
Testimonianze di resurrezioni
IV. IL BOSCO TERAPEUTICO
di Ksenija Skliar
Un giorno si scopre che mormorii di sottofondo sono
indispensabili, che proprio da essi scaturisce ogni pensiero degno di essere
pensato, almeno sotto questo cielo. Se vogliamo essere cauti, ecco: i suoni che
invadono il paesaggio interiore possono elicitare pensieri da accogliere, con
rispetto se non riverenza, nelle stanze luminose e vacanti della propria mente.
Da giovani si coglie al volo qualche brandello di un dialogo alieno, qualche
citazione di un film dimenticato, non guardato ma intravisto: «un pedone che
brama di esser promosso a donna rischia di finire decapitato», chissà che altro
potrebbe sedimentarsi in fondo alla memoria, per affiorare decenni dopo come un
consiglio inaspettato. Se provassi a ragionare su come questa capacità,
meravigliosa o ridondante, fortunata o dannosa, vada scemando con l’avanzare dell’età,
sprecherei il fiato. Certe parole sopravvivono al mondo intero e dopo decenni
di peregrinazioni giungono alla meta, che non è mai quella iniziale: un
messaggio che ti perseguitava sin dall’infanzia ti attinge quarantenne e ti
trafigge ancora un lustro più tardi.
Come faranno i pensatori affannati, frenetici, in
possesso di enormi palazzi labirintici - specchi, quadri anneriti, bestie
impagliate, lampadari - densamente popolati da più famiglie allargate con
rispettivi tesori stipati in scrigni, credenze, armadi, o ammassati in
variopinti mucchi sopra tanti letti disfatti? Un ineluttabile minotauro – un
qualche doloroso dilemma che si sperava morisse soffocato nelle nubi di polvere
- che per decenni sonnecchiava, abulico, ubriaco, magari su una brandina, in un
corridoio, sotto una coperta a quadri, bucata, un magnifico mostro mai notato
dagli abitanti indaffarati, potrebbe svegliarsi e, pieno di gioiosa furia,
iniziare a buttare via il vecchio ciarpame e cacciare via gli abitanti tanto
affezionati al proprio corredo ormai inutilizzabile, polveroso e odorante di
stantio. E le finestre saranno finalmente spalancate, e chi resterà nel palazzo
labirintico saprà apprezzare il chiarore del sole e della luna, il vento e il
mormorio di sfondo, umano o no. E il pensatore sarà in grado di pensare. Ora il
mostro Asterio – il minotauro non è mica un manzo, ha un nome, un bel nome ha!
– instaura finalmente qualche sembianza di ordine all’interno del palazzo, in
attesa di un eroe, ancora senza nome né volto, che un giorno verrà a risolvere
il dilemma, non giovane, non bello, non nobile, disarmato e pronto al dialogo:
Asterio è una semidivinità, figlio di un re, non un bovino da abbattere, mica
un mostro qualsiasi da accoppare, nemmeno un divoratore di esseri umani (è
risaputo che i Cretesi sono tutti bugiardi).
Il monologo (in che lingua?) trasmesso da YouTube che
volteggia in questa piccola stanza semina nella mente di chi scrive singole
parole, orfane di sintassi, e insidiosi arabeschi onomatopeici che nascono da
concrezioni di mishearing. Questi semi arricchiscono il bosco
terapeutico che da parecchi mesi cresce indisturbato nelle vastità del cuore,
sede del pensiero che comprende mondi e mondi, altro che un bosco di nemmeno un
secolo.
Le neonate betulle sono ancora tanto esili, i sorbi sono
carichi di frutti vermigli, ma le querce e i lecci sono già secolari, non
saprei spiegare questo fenomeno, e non ne avrei nemmeno voglia. Lo osservo in
silenzio, e mi basta. Le felci e gli equiseti non mancano, la loro eleganza
senza tempo supera ogni fantasia umana: pur negando il fiore, questi dinosauri
vegetali sanno apprezzare le fioriture nel vicino. I funghi eduli, tutti
funzione e praticità, e quelli velenosi, tutti sfarzo, si nascondono dall’occhio
avido dell’uomo, gli uccelli si rendono invisibili schermandosi dietro la
propria voce, e le api che compite seguono la regola ora et labora fanno
bordone. Farfalle ammiraglio e quelle bianche fingono di cadere sotto i piedi
di chi scrive come petali di luce, per spiccare, tra un attimo, il volo
incerto, senza meta, beffardo. Scoiattoli, volpi, lupi, orsi, cervi, dove sono
i mammiferi?
Qui, nel bosco terapeutico, si incontrano piante di zone
climatiche diverse, tutte le stagioni sono presenti in contemporanea, qualche
volta nevica, qualche volta cade una pallida pioggia, ulula un grigio vento, il
bianco sole d’estate rimane impigliato da qualche parte in alto per non recare
danno agli occhi, con l’età sempre più chiari e vulnerabili. Un erborista qui
troverà erbe curative, dalla salvia che sa pregare e dall’iperico che scaccia
gli spiriti maligni alle radici portentose descritte in quegli enormi codici
tibetani che solo uno yeti ammansito sarebbe in grado di sollevare, spolverare
con un soffio, sfogliare con gentilezza, riporre con cura al suo posto, per
altri secoli di atarassia. Un comune mortale ci troverà un fitto sottobosco di
intertestualità, non un giardino curato: gli alberi caduti, da tempo senza
corteccia, giacciono come zanne d’avorio, come spade d’argento, in mezzo
all’inestricabilità della nuova vegetazione ancora cieca e sorda, di un verde
chiaro e fresco, neonatale, ancora senza nome e senza volto. Chi può dire con
certezza che i virgulti nuovi non nascano dall’osso e dal metallo dei tronchi
caduti?
Non ci dobbiamo illudere: il bosco terapeutico non ha
nulla da dare all’uomo e nulla da dirgli. Tutte le risposte sono già note.
Guardate, se persino James Douglas Morrison urlava in faccia a tutti noi che
sbagliava il tizio che al seminario credeva che una «petition the Lord with
prayer» fosse possibile, «No, you cannot petition the Lord with prayer!» Non
puoi estorcergli nulla, con le tue petizioni redatte in modo impeccabile, non
serve spiegare nulla alla Fonte di Vita, non serve: sa già che siamo morti e
non chiediamo altro che risorgere. Basta chiuder la bocca e, in mezzo al bosco
terapeutico, mugolare qualcosa di indistinto, per ringraziare ancora e ancora
l’Immenso e, proclamandosi muto, gettarsi avanti.
Da questi attimi di estremo abbandono potrebbe iniziare
una guarigione, lunga e senza margini definibili, fragile, fuggitiva, quando
migliaia di lacerti, con fatica, vanno riassemblati, in un ordine nuovo, più
vero e giusto di quello preesistente. E la sete della parola si risveglia,
osteggiata dalle abitudini dure a morire, e l’animale verbale cerca di
ristabilire la connessione con il Verbo, provando a far propri i testi scritti
da altri. Ogni respiro, ogni movimento degli occhi, ogni parola letta a voce è
quasi insostenibile, la stanza diventa una teca di vetro incrinata, dal
pavimento inclinato e scivoloso, uno sciame di pensieri offusca la mente. Non
mollare, afferrare chi-si-divincola per un lembo della veste, e non lasciarlo
andare finché, impietosito, non impartisca l’agognata benedizione con un sonoro
ceffone: all’improvviso la salita diventa meno ripida, lo sciame va via,
qualcuno ripara la teca di vetro e la adagia con cura sul pavimento di legno
scaldato dal sole vespertino, o sulle piastrelle gelide che celano sotto un
tappeto (un falso ricordo fa affiorare un rosso cupo di un tappeto da preghiera
che ornava la stanza dove dormivo una quarantina d’anni fa). E le parole
scorrono sicure, ferme, di bronzo dorato, e le scapole appoggiate al muro sono
di nuovo pronte al dialogo con la spina dorsale.
Se è vero tutto quello che è stato appena detto, sarà
vero anche quello che verrà detto di seguito. Il silenzio dorato di una sera di
settembre, o un silenzio diverso, imperfetto, di latta, di una giornata
piovosa, sempre di settembre, viene spezzato da un dialogo brevissimo, cascato
dall’alto del passato come una mela spiccata anzi tempo e gettata sotto i piedi
di chi scrive, per provocazione. Il tè fumante attende mentre il dialogo
lentamente si dipana. L’interlocutore dice di essere morto. Se ti proclami
morto, sei pronto per il viaggio, verso il bosco terapeutico, e mentre cammini
risorgi senza accorgertene. L’interlocutore dice di ricordarsi una serata di
una quindicina d’anni fa, nel cuore (in uno dei cuori) di Siena, tra la
contrada della Civetta e quella del Liocorno, forse alle poderose spalle
millenarie del nostro San Vigilio, a giugno. Qualcuno disse, allora, che fosse
importante aver pietà di sé stesso. L’interlocutore chiedeva a chi scrive se si
rammentava l’episodio. No, nulla, tranne la luce benevola senese di
quell’epoca, e la sensazione delle lastre, benevole anch’esse, sotto i piedi.
Ogni giorno, all’epoca, era luce, pane e oro, un pegno delle prove da fallire
in un prossimo futuro, un gruzzoletto da spendere negli anni meno luminosi. Si,
certo! Aver pietà di sé stesso è probabilmente la chiave di un piccolo e
ridicolo paradiso di sincerità, che è un bosco terapeutico anch’esso! Ma più
curato e rassicurante. Ti prego, vivi. Promettimi di vivere, perché sei già
sulla strada giusta (verso il bosco terapeutico, e stai già risorgendo). Ora
aggancio. Vivi! Il tè fumante è ancora fumante. La pioggia danza sulla latta. YouTube
continua a mormorare qualcosa sulla giornata mondiale di prevenzione del
suicidio.
Verrà un giorno, e il bosco avrà qualche abitante umano.
Sorgerà qualche rifugio, una baita in legno o una vecchia carrozza ferroviaria,
dove ci si potrà scambiarsi camicie, storie e libri, sorbire il tè fumante, al
timo. L’immancabile principe Asterio potrebbe far il custode e l’addetto alla
reception, e la sua stupenda maschera bovina troverà la seconda vita in un
laboratorio teatrale, terapeutico. Ora non importa. Perché la pelle del mondo è
da un pezzo bucata, strappata, tra qualche giorno o anno cadrà a brandelli, e
ciò che si renderà visibile agli occhi di tutti sarà una rivelazione solo per i
più sprovveduti. Qualcuno, invece, già da tempo intravvede una pelle nuova,
elastica, con scaglie luccicanti, attraverso i tagli. Non sarebbe la bestia
orrenda che striscia verso Betlemme per nascerci? Non è l’invasato Yeats che
vaga tra le felci? Era folle il poeta. Ripetendo queste parole si cade in una
tautologia sin troppo palese, stucchevole: un poeta è un profeta, un profeta e
un folle è la stessa cosa, non solo nelle lingue semitiche. Un altro monologo,
in un’altra lingua, striscia lungo i muri della casa, cauto, come un torrente
d’estate. Il mondo, anche nella sua vecchia pelle, non è mai stato un essere
mansueto. Ora sta vivendo la sua ultima metamorfosi, prima di giungere alla
fine. E a cosa serve, a questo punto, il bosco terapeutico, sulla pelle del
mondo, tra le sue pieghe, sotto i suoi mille occhi spietati? Il bosco
terapeutico non serve l’uomo. Esiste e basta. E quando il mondo non ci sarà
più, il bosco terapeutico, non so sotto che forma, perdurerà oltre il tempo,
insieme all’uomo, immortale.
KSENIJA SKLIAR



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