Un autore sloveno in italiano: Miran Košuta e il suo «Altronauti» (CRITICA LETTERARIA) ~ di Fulvio Senardi - TeclaXXI

 CRITICA LETTERARIA

Fulvio Senardi

 

Un autore sloveno in italiano:

Miran Košuta e il suo Altronauti


MIRAN KOŠUTA  (dal sito Eventi del Comune di Gorizia)

 

Altronauti, chi sono costoro? Il titolo del libro appena pubblicato da una casa editrice slovena di Trieste (Altronauti, edizioni ZTT-EST, Trieste, 2025, pp. 436, euro 25) parrebbe ermetico, se non aiutasse a capire la frase che lo completa – Scrittori di frontiera italiani e sloveni – e, con maggior chiarezza ancora, il nome dell’autore, Miran Košuta. Poeta, musicista, traduttore, ma prima di ogni altra cosa, docente di slovenistica all’Università di Trieste, Košuta è noto per il suo impegno ermeneutico teso a trasformare in membrana osmotica quel muro di incomprensione e ostilità (oramai solo forse di indifferenza) che separa il mondo italiano e quello sloveno nella terra di mezzo – la Venezia Giulia per l’Italia, la Primorska in sloveno – che, per ragioni storiche e geografiche, sembrerebbe vocata all’interculturalità, e nella quale, soprattutto per responsabilità italiana, la lingua e la cultura del vicino sono meno note di quelle di altri Paesi più lontani. 

La marca di confine, tanto nella più ampia estensione di un tempo che in quella attuale, e Trieste, in particolare, la sua piccola capitale, non è mai stata crogiolo, come ha sottolineato, a smorzare illusioni e entusiasmi, Bobi Bazlen nella famosa Intervista su Trieste; e avrebbe forse potuto diventarlo, entro i limiti concessi da entità etno-linguistiche mature e sicure di sé, solo per uno sforzo convinto, testardo e generoso delle élites dei due margini di una faglia ancora povera di ponti. Non c’è stato. Manca una strada nel nucleo storico di Trieste che ricordi Vladimir Bartol (1903 - Lubiana 1967), scrittore triestino di lingua slovena di fama internazionale, o Srečko Kosovel, uno dei maggiori poeti sloveni del secolo scorso, nato (nel 1904) a soli 20 chilometri di distanza dal campanile di San Giusto. 

Le targhe si leggono nei paesi del Carso ancora compresi, sottolineano gli apologeti dell’attuale apartheid, entro i limiti amministrativi del Comune, ma quello che conta è che non venga macchiata la veste “italianissima” del nucleo di Trieste, ai piedi dell’altopiano, la città due volte “redenta”. E chi si aspetta che l’amministrazione comunale (che in epoca asburgica a solo 24 ore dalla morte del poeta si affrettò a ribattezzare via Giosuè Carducci la storica via del Torrente) ricordi nell’odonomastica Boris Pahor, un altro grandissimo concittadino scomparso nel 2022, è destinato a restare deluso. Il tema è toccato da Košuta in un capitolo che funge un po’ da file di sistema dell’intero volume, intonando il motivo della trascuranza della presenza e della lingua del vicino da parte dei maggiori scrittori della Grande Trieste (Italo Svevo, Umberto Saba, Scipio Slataper et alia. Da buon selvaggio e ectoplasma. Eterostereotipi antislavi nella letteratura triestina italiana tra Otto e Novecento). 

Se la messa a fuoco è piuttosto di impronta morale che storico-interpretativa, il risultato non cambia: a differenza della lunga era cristiana quando era la fede ad affratellare (e ad armare) i popoli (da qui le aperture del vescovo Bonomo e l’impegno di padre Gregorio Alasia, estensore del primo vocabolario “italiano e schiauo”), la stagione delle Patrie scava solchi insuperabili. Di conseguenza presso la nazionalità egemone l’immagine dell’“altro”, nella fattispecie locale lo sloveno (e il croato, in terra d’Istria), svaria da quella paternalistica del “buon selvaggio”, a “barbaro distruttore”, ad una conclusiva, totale (o quasi) cancellazione, con l’eccezione di Scipio Slataper, la cui offerta allo Slavo, nel Mio Carso, di farsi padrone della città (per cui lo scrittore venne ostracizzato dagli irredentisti, incapaci di cogliere i chiaroscuri del discorso) soffre di una sostanziale ambiguità: “padrone” sì, ma a patto di diventare italiano di lingua e cultura (vale a dire: portare la linfa di un sangue giovane e ardente nelle vene di una razza coltissima ma esausta). 

Una metamorfosi” che poi cercò rozzamente di realizzare il fascismo, con manganello e olio di ricino, chiudendo scuole, cancellando la toponomastica, cambiando i cognomi dei vivi e dei morti: un vero genocidio culturale. Riprendendo alcuni temi del libro del 2005, di analoga impostazione (Slovenica. Peripli letterari italo-sloveni), Košuta ci consegna, a costituire il cuore del volume, saggi su Vladimir Bartol (di cui sonda la “triestinità letteraria”, non scontata in chi ha trascorso nella città dell’alabarda meno di metà della vita), Srečko Kosovel (registrando e spiegando la rapida evoluzione dal tardo-romanticismo degli esordi poetici all’impressionismo-espressionismo fino al conclusivo approdo costruttivista), Boris Pahor (mettendone a fuoco soprattutto il capolavoro, Necropoli) che hanno la completezza della monografia e vengono arricchiti da traduzioni inedite, garantendo al lettore italiano un fresco contatto con fonti sconosciute. 

Scrittori tutti questi citati, affacciati con curiosità e rispetto (nonostante i tempi difficili) su quel mondo latino che, impigliato nei nodi più grevi del secolo breve, non ha saputo rispondere con uguale prontezza. Qualche nome però non è mancato e l’autore lo mette giustamente in rilievo: Fulvio Tomizza in primo luogo, che è stato legato a Košuta da un sodalizio amicale gravido di importanti frutti letterari (lo studioso sloveno ha tradotto nella sua lingua Franciska e La visitatrice dello scrittore di Materada), il più esemplare dei narratori fra due mondi della moderna letteratura italiana, ma che gode attualmente di scarso favore perché non troppo in linea con i settori più oltranzisti di quella galassia politico-ideologica che ha voluto e celebra (non senza un acre sapore di rivincita) il Giorno del Ricordo. Altri ancora andrebbero citati – sostanzialmente ignoti alla maggior parte dei lettori di un Paese distratto e troppo conciliante con le colpe del passato. L’autore li tocca di sfuggita, ma di tutti, in altri contesti, è stato anfitrione ed esegeta: Giorgio Depangher, Gino Brazzoduro, Arnaldo Bressan, Claudio Martelli, ecc. Insomma, un libro che esonda dagli argini della pura saggistica letteraria assumendo i toni di un appello a creare nel microclima giuliano un’atmosfera perfettamente respirabile per tutte le comunità che convivono da secoli sulle sponde dell’estremo lembo dell’Adriatico. 

Prima di chiudere una nota va forse aggiunta a proposito dello stile ricercato di Košuta, padrone di una scrittura talmente raffinata e così tesa verso l’esito metaforico (altro che tordre le cou à l’éloquence …) da sfiorare la stucchevolezza. Il lettore italiano coglie perfettamente l’ironica strizzata d’occhio del concittadino sloveno: avete tentato per tanti anni di soffocare la mia lingua e la mia cultura, pare voglia dirci, che ora vi mostro come si può diventare perfettamente padroni della vostra (che è da sempre anche la mia). “Astronauta”, insomma, fra gli altri del libro. Nessuna ragione per adombrarsene, anzi. Quando poi si incontrano i cruschevoli rimbuzzare (per: rimpinzare) o svesciare (per: spiattellare) la simpatia si allarga magari in un sorriso, ma non viene meno.

 FULVIO SENARDI

 

BIONOTA Fulvio Senardi, insegnante e saggista, presiede l’Istituto giuliano di storia cultura e documentazione di Trieste e Gorizia.  Oltre a numerosi saggi di argomento storico-letterario, ha firmato varie monografie (Aldo Nove, D’Annunzio, Stuparich) e numerosi volumi che raccolgono i saggi dei convegni (e non solo) da lui organizzati negli anni (cfr. ww.istitutogiuliano.it). Collabora alle maggiori riviste italiane di storia della letteratura ed è redattore de «Il Ponte rosso» on line.

 


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