Nascita del concetto di complessità (scienza) ~ di ALESSANDRO GIULIANI -TeclaXXI

 

SCIENZA

Alessandro Giuliani

 

Nascita del concetto di complessità

 

Gilbert Keith Chesterton, più di cento anni fa, nel suo libro «Eretici», portava la nostra attenzione sul fatto che di salute i malati discutano molto più spesso dei sani, così come di libertà i carcerati rispetto a chi sia a piede libero. Potremmo estendere il discorso a un gran numero di situazioni in cui l’interesse genera da un disagio causato da una mancanza, non a caso Alessandro Manzoni ci spiega come il proliferare di grida emesse contro le soperchierie dei bravi fosse indice di una sostanziale incapacità a opporsi a esse.

Lo stesso meccanismo è alla base dell’impetuoso aumento dell’uso del termine complessità che diventa un punto nodale della ricerca scientifica alla fine degli anni Settanta. Negli anni precedenti quasi nessuno aveva sentito il bisogno di definire la ‘complessità’ come un concetto autonomo, per cui ci si limitava a un uso generico del termine per indicare la necessità di un sovrappiù di applicazione per venire a capo di un problema. Certo, i matematici discettavano di ‘numeri complessi’ ma con un’accezione del tutto diversa rispetto a quella con cui se ne discuteva nella vita quotidiana e poi si è inteso il termine nella scienza. Vale allora la pena di chiedersi quale lutto e conseguente disagio abbia suscitato un tale interesse verso il concetto di complessità tanto da portare alla nascita di interi istituti di ricerca e dipartimenti universitari intitolati alla complessità e alla percolazione del concetto di complessità nel discorso pubblico.

Il lutto era niente di meno che l’evidente fallimento della scienza nel prevedere il comportamento di tutto quel vasto mondo che va dalle macromolecole biologiche alle società umane il cui comportamento globale ‘emergeva’ in maniera largamente misteriosa dall’interazione delle loro parti.

Prima che la crisi della promessa della scienza positivista di eliminare progressivamente tutte le zone d’ombra della natura diventasse evidente, alcuni isolati profeti avevano già subodorato che c’era qualcosa nell’aria e qui vale la pena di citarne due.

Il primo è Gerhard Fankhauser, un embriologo nato in Svizzera nel 1901 ed emigrato negli Stati Uniti nel 1931, ed è proprio negli Stati Uniti, a Princeton, dove ebbe modo di conoscere il suo molto più famoso collega Albert Einstein.

Il soggetto principale della ricerca di Fankhauser era lo sviluppo degli embrioni di anfibio e durante le sue ricerche, attorno al 1945, lo scienziato si trovò di fronte a un fenomeno inaspettato. Fankhauser aveva scoperto un mutante di una varietà di tritone (Triturus viridescens) che aveva un corredo genetico corrispondente a un multiplo del normale. Questa condizione era la conseguenza di un fenomeno piuttosto comune detto poliploidia in cui l’assetto cromosomico, che in una specie normalmente diploide è costituito da coppie di cromosomi omologhi, passa a un numero maggiore di copie. Una conseguenza evidente di questa moltiplicazione del materiale genetico nel tritone era la grandezza doppia delle cellule del mutante rispetto alla condizione di base. Quando però dal livello cellulare si passava a livelli di organizzazione superiore, la dimensione degli organi (nella fattispecie il diametro dei dotti renali) era identica a quella della varietà diploide. Ciò era reso possibile dal fatto che gli organi del mutante erano formati da un numero di cellule corrispondente alla metà di quelle presenti nel corrispondente organo della varietà diploide. Il buon senso non ci consente di apprezzare immediatamente l’eccezionalità di questo risultato: tutto sommato le dimensioni di un edificio non hanno nulla a che vedere con le dimensioni dei mattoni ma derivano dalle esigenze funzionali e strutturali della costruzione. A maggior ragione ciò dovrebbe valere per un dotto renale il cui diametro riveste una importanza cruciale per il mantenimento di un flusso adeguato alle esigenze fisiologiche dell’organismo. Il lettore e la lettrice ricordino però che la scienza moderna nacque (non senza fondate ragioni) in opposizione al buon senso e al realismo ‘ingenuo’ e soprattutto aborrendo qualsiasi considerazione teleologica, appuntiamoci questa considerazione, e passiamo alla reazione di Albert quando il suo buon amico Gerhard lo mise a parte suoi risultati.

«Gli esseri viventi sono una vera meraviglia. Lo stesso fatto che un essere vivente possa esistere con un numero di cromosomi tre o quattro volte maggiore del normale è decisamente notevole. Ma ancora più singolare, a mio parere, è il fatto che, nonostante la presenza di cellule singolarmente molto più grandi del normale, la grandezza dell’intero animale resti immutata. Sembra come se l’importanza della cellula come elemento che governi l’organizzazione dell’intero organismo sia stata molto sopravalutata. La reale natura del determinante della forma e dell’organizzazione sembra decisamente oscura»

Lo stupore di Einstein, concluso dalla frase evidenziata che ci fa capire come Einstein avesse predetto quale fosse il nocciolo della questione, è genuino e ci dice molto su ciò che chiamiamo ‘determinismo’ e in generale sull’atteggiamento (ancora maggioritario a ben vedere) della scienza nei confronti della realtà secondo cui ci si aspetta che il livello causalmente più rilevante sia collocato alla scala di indagine più dettagliata.

Posto che lo stupore è il marchio ineludibile di qualsiasi vero atteggiamento scientifico, mille miglia lontano dalla tronfia arroganza di certa tecno-scienza attuale, soffermiamoci sull’introduzione da parte di Einstein di due concetti, a quei tempi, molto sottovalutati dalla scienza: forma e organizzazione. Di fatto la cellula è l’elemento più fondamentale di ciò che consideriamo vivente e quindi, da un punto di vista deterministico, il livello causale privilegiato. Einstein intuiva come i risultati del suo amico e collega minassero alla base questo modo di pensare, e individuava nello studio delle relazioni fra le parti (forma e organizzazione) il luogo dove si dovesse focalizzare l’indagine dei sistemi complessi. L’ascesa della biologia molecolare e del conseguente geno-centrismo era ancora di là da venire ma Einstein ne intuiva già la successiva crisi.

Il secondo profeta del sopravvenire del disagio che avrebbe portato alla nascita di una scienza facente esplicito riferimento alla complessità fu Warren Weaver.

Qui abbiamo a che fare con un personaggio molto diverso rispetto a Fankhauser: non più un maestro dell’arte della sperimentazione da laboratorio, piuttosto una mente poliedrica che, a partire da una formazione incentrata sull’ingegneria civile e la matematica applicata, riuscì a passare nel corso degli anni dalla ricerca teorica (fu insieme a Claude Shannon il padre della teoria matematica dell’informazione e diede fondamentali contributi in statistica e calcolo delle probabilità) a incarichi politici e organizzativi di grande rilievo, ricoprendo per molti anni il posto di direttore della sezione di scienze naturali della fondazione Rockfeller. Era inoltre un formidabile divulgatore, e proprio in un suo visionario articolo di divulgazione apparso nel 1948 sull’ American Scientist troviamo quella che a nostra conoscenza è la prima trattazione esplicita del concetto di complessità in ambito scientifico (Warren Weaver. "Science and complexity." American Scientist 36.4 (1948): 536-544). In questo articolo, Weaver propone una ripartizione dei problemi affrontati dalla scienza in tre aree distinte da lui denominate: ‘Semplicità Organizzata’, ‘Complessità Disorganizzata’, ‘Complessità Organizzata’.

La figura seguente illustra le differenze tra i tre domini. Nel caso della semplicità organizzata (pannello di sinistra) abbiamo pochi enti legati fra loro da interazioni che si dipanano nel tempo in maniera molto regolare e ripetibile. Questo è il campo dove è nata la scienza moderna nel XVI secolo (si pensi alle orbite dei pianeti, alla caduta dei gravi o alla meccanica newtoniana): i sistemi a semplicità organizzata mostrano dei comportamenti altamente ripetibili che suggeriscono leggi universali largamente indipendenti dalle caratteristiche peculiari degli enti coinvolti. Questo è il motivo per cui. nei manuali di fisica per il liceo, le leggi del moto vengono introdotte con esempi che coinvolgono in maniera intercambiabile palle di cannone, treni, sciatori o pianeti. Questi enti, molto diversi tra loro, possono essere utilmente approssimati a un punto materiale inesteso. anche se non esiste nulla del genere in natura questa astrazione consente di concentrarsi sui pochi aspetti importanti per descrivere il movimento nello spazio. Questo è il campo in cui ci si può permettere l’astrazione più spinta arrivando alla conclusione (apparentemente) paradossale per cui lo studio dei sistemi semplici è quello che permette l’applicazione della matematica più sofisticata.

Nel pannello centrale troviamo la rappresentazione grafica dei sistemi a ‘Complessità Disorganizzata’: è il mondo della termodinamica dove la stessa (a volte anche maggiore) generalità raggiunta nello studio dei sistemi ‘semplici’ è ottenuta con un procedimento inverso. In termodinamica non si ha a che fare con pochi enti che intrattengono relazioni stabili fra di loro, ma con un numero sterminato

di oggetti elementari (molecole) le cui relazioni reciproche sono occasionali, continuamente mutevoli (moto Browniano, di fatto ‘urti-e-rimbalzi’) e prive di un orientamento privilegiato. Questa situazione fa sì che si possa trascurare la conoscenza atomistica del sistema per passare a dei descrittori (e.g. pressione, temperatura, volume) corrispondenti a ‘medie’ eseguite su popolazioni transfinite (una mole di una sostanza corrisponde a 1023 molecole) che quindi, anche se descriventi una situazione casuale a livello microscopico, danno vita a un quadro sostanzialmente deterministico a livello di popolazione. Nell’ambito della complessità disorganizzata iniziano ad affiorare due temi cruciali per lo studio dei sistemi complessi: il presentarsi di proprietà emergenti e di transizioni di fase. Una proprietà emergente non è altro che una proprietà che dipende dal raggiungimento di una certa dimensione del sistema in studio per ‘emergere’.

Un esempio immediato è il traffico automobilistico: il traffico è senza alcun dubbio provocato dagli autoveicoli ma non esiste il traffico di una sola automobile, la condizione di ‘traffico’ si raggiunge a partire da un flusso minimo di autovetture (numero di autovetture per unità di tempo) il cui valore è a sua volta influenzato dalla larghezza delle strade e dalla loro disposizione nello spazio (rotatorie, incroci, semafori). Sarebbe insomma privo di senso cercare all’interno della struttura di un’automobile un ipotetico generatore del traffico, laddove invece, anche se il traffico è fatto di automobili, è molto più utile studiare le ‘condizioni ambientali’ in cui il fenomeno si esplica (e.g. orari di lavoro o di partenze per le vacanze, rapporto fra densità abitativa e densità di luoghi di lavoro).

L’esempio del traffico richiama la coppia ‘transizione di fase’ – ‘criticità’: se la situazione del flusso automobilistico è critica (vicina alla saturazione), è sufficiente una piccola perturbazione (e.g. un veicolo che occupa anche solo in parte la carreggiata a causa di un guasto) che in condizioni normali avrebbe causato solo un lieve disturbo, per bloccare il flusso veicolare. Già questo piccolo esempio ci suggerisce molto sulla non-linearità (e quindi mancanza di proporzionalità) delle relazioni causa-effetto e sulla loro dipendenza dallo stato del sistema, ma ora arriviamo al pannello di destra, che è poi quello che ci interessa di più.

Come si percepisce dalla figura, la complessità organizzata si mostra come una sorta di ‘via di mezzo’ fra le altre due situazioni prese in considerazione da Weaver: della semplicità organizzata mantiene la specificità delle interazioni tra gli elementi che quindi non possono essere considerate in termini di media come nel caso della complessità disorganizzata. D’altro canto, a differenza del caso ‘semplice’, la complessità organizzata presenta un notevole dinamismo delle interazioni fra i suoi elementi (in ciò avvicinandosi al caso della sua controparte ‘disorganizzata’) che fa sì che la forma e il numero delle interazioni tra gli elementi costituenti muti al variare delle condizioni ambientali inibendo qualsiasi tentativo di derivarne leggi universali deterministiche e costringendoci alla ricerca di ‘principi di organizzazione’ che poi si cominceranno a rivelare. Ma questo avverrà qualche decennio dopo, tanto che Weaver concludeva il suo articolo affermando come la scienza dei suoi tempi non fosse attrezzata per fronteggiare il dominio della complessità organizzata. La scoperta di principi di organizzazione comuni a proteine, regolazione genica, ecosistemi, reti sociali, ci regalerà un altro tipo di generalità basata sull’assunto che ‘Tutti gli enti possono essere considerati come strutture di interazione tra le loro partì. 

A partire dalla complessità organizzata comincia a essere possibile parlare di adattamento ‘creativo’ alle condizioni ambientali e quindi di un sistema vivente in senso proprio. Non a caso, il confine tra fisica della ‘semplicità’ e della ‘complessità’ si situa al livello delle macromolecole biologiche che occupano una sorta di terra di mezzo, come evocato dal titolo di un articolo scientifico apparso circa trenta anni fa sulla rivista Physics Today: Frauenfelder, Hans, and Peter G. Wolynes. "Biomolecules: where the physics of complexity and simplicity meet." Physics Today 47.2 (1994): 58-64’ letteralmente: ‘Le molecole biologiche: dove la fisica della semplicità e della complessità si incontrano’.

Nel 1948 Weaver individuava già nello studio della complessità organizzata la frontiera (a quel tempo ancora aldilà da venire) della scienza di base, i recenti Nobel della fisica a Giorgio Parisi, John Hopfield e Geoffrey Hinton e il conseguente sviluppo tecnologico di sistemi (impropriamente detti intelligenti) di computazione dimostrano la lungimiranza della visione di questo poliedrico scienziato.

Concludiamo con un breve elenco di proprietà che permettono di definire un sistema come dotato di un comportamento complesso. L’elenco in questione potrà apparire criptico ma ha l’unico scopo di stimolare la curiosità della lettrice e del lettore di Tecla:

1.    Possibilità di presentare risposte differenziate agli stimoli ambientali in termini di configurazioni alternative sufficientemente stabili del sistema stesso.

2.            Organizzazione specifica (e modificabile) delle interazioni fra le sue parti.

3.    Manifestazione di proprietà emergenti collettive attingibili con diverse configurazioni microscopiche.

4.    Comportamento critico e transizioni di fase

Una scienza nuova che implica un atteggiamento nuovo rispetto alla nostra posizione nel mondo che ci circonda, mirabilmente racchiuso dal titolo di un’opera divulgativa di un pioniere del campo, Stuart Kauffmann ‘At Home in the Universe’, che sarebbe a dire ‘A Casa nell’Universo’ e che consiglio (cfr. Editori Riuniti) dal profondo del cuore a chi sia arrivato alla fine di questo articolo.

ALESSANDRO GIULIANI

BIONOTA  Alessandro Giuliani vive a Roma, è sposato e padre di due figlie. Attualmente è Dirigente di Ricerca presso l’Istituto Superiore di Sanità.

È stato visiting professor all’Università Keio di Tokio, all’Istituto Indiano di Tecnologia (IIT) a Trivandrum (Kerala), all’Università di Chicago (USA) e all’Università di Tomsk (Federazione Russa).

Lavora da circa quaranta anni alla costruzione di modelli fisico-matematici di sistemi biologici complessi con particolare riguardo allo studio della struttura delle molecole proteiche, alla previsione di ‘transizioni di fase’ nell’espressione genica e alle relazioni tra struttura chimica e attività biologica. Ha contribuito, insieme a Joseph Zbilut e Charles Webber dell’Università di Chicago allo sviluppo dell’Analisi Quantitative delle Ricorrenze (RQA), attualmente diventata un metodo standard per l’analisi non-lineare delle serie temporali.  

È autore di 489 pubblicazioni scientifiche su riviste internazionali ‘peer-review’ e di 10 libri di divulgazione.

 


Commenti

  1. Son riuscita ad arrivare alla fine dell'articolo ,intuibile ,a grandi linee e spiegato con rara semplicità. Grazie.Che poi alla fine fisica e poesia e sempre nuove varianti donano il movimento. Federica

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  2. Grazie delle tue gentili parole, quanto al movimento hai perfettamente ragione Alessandro Giuliani

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