«Garbo laughs!» in Ninotchka di Ernst Lubitsch (CINEMA D'ANTAN) ~ di Alessandro Iovinelli - TeclaXXI
CINEMA D’ANTAN
Alessandro Iovinelli
«Garbo laughs!» in Ninotchka di Ernst Lubitsch
Quando Lubitsch gira Ninotchka nel 1939, è un regista affermato a Hollywood, là dove era giunto nel 1922 su invito di Mary Pickford, una star del cinema muto.
Non era il primo dei cineasti tedeschi che emigrarono negli USA (si pensi a Eric von Stroheim arrivato nel 1920), né tanto meno l'unico grande maestro di origine europea che contribuì all’affermazione del cinema americano su scala mondiale. Basterebbe citare i nomi dei britannici Charlie Chaplin e Alfred Hitchcock; dei tedeschi David Friedrich Murnau, Fritz Lang, Robert Siodmak, Fred Zinnemann e William (all’anagrafe: Wilhelm) Dieterle; dello svedese Viktor Sjöström (e non parliamo DELLE attrici svedesi Greta Garbo e Ingrid Bergman!); degli ungheresi Michael Curtiz e Peter Lorre; degli austriaci Joseph von Stenberg e Billy Wilder, e così via, per sottoscrivere il celebre paradosso secondo il quale il cinema americano l’hanno creato gli europei. È un’esagerazione? Vexata quaestio. Non c’è dubbio però che il padre della commedia americana, quella che negli anni Trenta fu denominata sophisticated comedy, fu l’ebreo berlinese Ernst Lubitsch (1892-1947). Tant’è vero che il suo più grande epigono, il suddetto Billy Wilder (al secolo Samuel Wilder, il cui cognome andrebbe pronunciato: vɪldɐ) coniò per lui la definizione di “the Lubitsch touch”. Si tratta di una formula che sintetizza la inconfondibile miscela di leggerezza, arguzia, eleganza, nonchalance, sottotesto erotico (tanto audace quanto impercettibile, perfino alla censura puritana del codice Hays), in sostanza di tutte le qualità che si ritrovano nella filmografia dell’autore di Ninotchka.
Questo è il film che segna una svolta nella sua carriera, aprendo la strada alla stagione più gloriosa, cioè la serie di capolavori realizzati negli anni Quaranta: Scrivimi fermoposta (1940), Vogliamo vivere! (1942), Il cielo può attendere (1943).
Quando Ninotchka arrivò nelle sale cinematografiche americane, riscuotendo un grande successo, la Rivoluzione russa era già avvenuta una ventina d’anni prima, ma l’Unione Sovietica non aveva ancora provocato negli USA una paura di massa, come avvenne dopo la fine della Seconda guerra mondiale con l’inizio della Guerra Fredda, il maccartismo e la caccia alle streghe a Hollywood negli anni Cinquanta. Insomma, era un argomento sul quale si poteva scherzare. Sicché quel genio di Lubitsch poté trattare l’anticomunismo con arguta leggerezza (un po‘ come avevano fatto gli autori dei teatri e dei café-chantant di Vienna e mezza Europa ai tempi della Belle Époque con le vicende politiche cui alludevano il teatro satirico e l’Operetta), usandolo soltanto come un semplice pretesto, per imbastire una commedia brillante su misura sulla sua protagonista, Greta Garbo, la Divina per antonomasia.
Ma torniamo al capolavoro di Lubitsch. Siamo a Parigi, dove Ninotchka (Greta Garbo), una giovane e austera funzionaria, è stata inviata in missione per conto del governo sovietico. A un certo punto, la ritroviamo in un bistrot, dove sta consumando un pasto frugale in compagnia di Léon (Melvin Douglas), che un po’ la corteggia e un po’ cerca di far breccia nel suo stato d’animo assolutamente prevenuto verso di lui, non meno che verso tutta la civiltà occidentale. Tentando di far breccia nello sguardo sdegnoso e sprezzante della sua altera interlocutrice, Léon le racconta una storiella: un uomo entra in un bar e ordina al cameriere: «Per cortesia, mi porti un caffè senza panna», ma quello gli risponde: «Mi dispiace, signore: abbiamo terminato la panna, le porto allora un caffè senza latte?». È un esempio di nonsense e come tale andrebbe analizzato in termini narratologici: la presenza del negativo, il rovesciamento della logica, l’annullamento dell’attesa iniziale, ecc. Ma la vera questione si pone in questi termini: è una barzelletta divertente? Sì, forse, chissà. Di certo, non lo è per la destinataria della battuta, la quale infatti non ride per niente e continua impassibile a mangiare, tanto che Léon le ripete la storiella, poi cerca di spiegargliela, si confonde e alla fine si irrita con la sua insensibile interlocutrice. Ma così facendo, sposta la sedia e si appoggia a un tavolino accanto, come chi non volesse più dare ulteriori chiarimenti. Ed ecco che il tavolino si ribalta, Léon perde l’equilibrio e precipita a terra fragorosamente. La risata generale degli altri clienti dell’osteria lo lascia stupefatto – così noi lo vediamo – ma poi lui scruta dalla parte di Ninotchka e scopre che anche lei è scoppiata a ridere. Ora la camera la inquadra mentre è travolta dall’ilarità. Léon si rialza, è a disagio, si guarda intorno: nella sala tutti ridono, mentre adesso è lui che resta serio, trovando che ci sia poco da ridere sul proprio incidente. Alla fine, si mette di nuovo a sedere accanto alla ragazza, aspettando che lei la smetta di sghignazzare. Ma poi, una volta che gli animi si sono placati, è lui stesso a scoppiare di nuovo a ridere di sé, e anche Ninotchka ricomincia, come se ripensasse a quanto accaduto poco prima. Finale: i due ridono insieme.
L’impatto della scena non sarebbe stato tale, se quella non fosse stata la prima volta che l’interprete di Ninotchka avesse riso sullo schermo: «Garbo laughs!» annunciava la pubblicità. La sequenza è passata alla storia del cinema: c’era voluto il carisma del maestro della sophisticated comedy perché cadesse uno dei tabù del cinema degli anni d’oro di Hollywood: Greta Garbo, la Divina, che aveva legato il suo mito all’incarnazione della femme fatale, impersonando ruoli drammatici (Mata Hari)
e appassionati (Margherita Gautier),
e romantici (Anna Karenina),
Di questa ricezione della scena sicuramente resta qualche traccia indiretta nell’approccio dello spettatore di oggi, al quale il nome di Greta Garbo suggerisce, indipendentemente dalla sua conoscenza della storia del cinema, il nome di una star in assoluto. Tuttavia, quel che interessa qui è un’altra osservazione e riguarda la scena come tale, perché in essa si trova una dimostrazione di che cosa faccia ridere sempre e comunque e, al tempo stesso, di che cosa invece non abbia la stessa universalità.
Il personaggio di Léon – o meglio ancora, il regista Lubitsch – mostra la differenza tra umorismo e comicità. È una differenza che passa in primis attraverso i codici usati. Nel caso della storiella del “caffè senza panna e senza latte”, la modalità comica si realizza in forma linguistica e quindi richiede non solo il ricorso a una lingua comune tra emittente e destinatario, ma pure che tra i due vi sia un identico codice pragmalinguistico, ovvero un contesto, un uguale punto di vista sulla realtà, un medesimo sistema di valori e tradizioni, di usi e costumi; in breve, la condivisione degli stessi impliciti culturali. Apparentemente il primo elemento dovrebbe essere quello decisivo. Tuttavia, la comprensione letterale è sì conditio sine qua non per la riuscita perlocutiva dell’atto di parola, ma si rivela per tale funzione tanto necessaria, quanto non sufficiente – come sanno tutti i traduttori che hanno dovuto misurarsi con le prove dell’umorismo più raffinato: dai limerick della tradizione letteraria inglese alle battute di Groucho Marx o di Totò. Trasporre certi testi da una lingua all’altra significa annullarne lo spirito che potentemente vi circolava nell’originale.
Per tale motivo, il secondo ordine di fattori è quello che risulta decisivo: un destinatario ride di una storiella se la capisce (anche se è un nonsense), altrimenti la battuta non va a segno proprio come un dardo fuori bersaglio. Le probabilità di successo di un testo letterario fondato su quel che chiamiamo humour sono dunque subordinate all’insieme di condizioni che regolano qualsiasi atto della comunicazione linguistica. Ciò nondimeno, talvolta, il Witz, cioè il motto di spirito, non varca i confini nazionali.
Eppure, Greta Garbo ride! La domanda è allora: di che cosa ride? Ride della caduta di Léon, cioè di un evento che, all’improvviso, si compie davanti ai suoi occhi e che lo pone sotto tutta un’altra luce. Lasciamo perdere per il momento in che cosa consista tale evento – cioè, la caduta – e quale significato abbia nella dinamica del riso (in questo momento non è la questione che ci interessa e poi lo hanno già spiegato perfettamente Bergson e Pirandello nei rispettivi saggi sull’umorismo). Il punto è che si tratta di un evento extralinguistico, la cui rappresentazione non è legata al linguaggio verbale, ma a quello del corpo. È un gesto, dunque un’azione. La comicità è tanto più assoluta quanto più è universale, e quindi priva di un’espressione linguistica determinata nella quale il gioco ha successo, perché funziona, perché riesce – almeno nel senso che Wittgenstein attribuiva ai “giochi linguistici”. Basta pensare al trionfo planetario del cinema muto per averne una semplicissima dimostrazione. O anzi, è sufficiente tenere a mente le prove maggiori del teatro di Dario Fo, il grammelot del suo Mistero buffo (1969), là dove l’attore parla una lingua incomprensibile – e non solo per i non italofoni – ma ciò non ha impedito l’accoglienza internazionale dello spettacolo, giacché oltre alla mimica umana e alla gestualità del corpo qui conta anche il linguaggio da lui adoperato, il quale nella sua valenza onomatopeica attinge a un sostrato, per così dire, prelinguistico della voce umana.
Dunque, si può ridere col linguaggio anche quando il linguaggio umano c’è, ma nega la funzione per cui è stato creato dai Sapiens 160 mila anni fa. Ma qui mi devo fermare. Per spiegarmi meglio, ci sarà bisogno di riprendere il discorso un’altra volta, più ampiamente.
Alessandro Iovinelli
[Ho qui ripreso e rielaborato ex novo alcune mie considerazioni già apparse nel Salto oltraggioso del grillo, Il Filo d’oro, 2010]
Ninotchka di Ernst Lubitsch, 1939
ALESSANDRO IOVINELLI
È poeta, narratore, critico e regista teatrale.
Ha pubblicato libri di poesia, racconti, saggistica, nonché tre romanzi.
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