I fiori di Brueghel (narrativa) ~ di Eduardo Rebulla - TeclaXXI
NARRATIVA
Eduardo Rebulla
I fiori di Brueghel
Federico Borromeo conobbe Jan Brueghel a Roma, forse nella bottega del cavalier d'Arpino o in quella di Paul Bril, e ne rimase un appassionato committente fino al 1622. Ma un committente particolare, perché di Brueghel amava soprattutto i vasi e i cesti di fiori. Era colpito dalla «minuzia e diligenza» con cui quel pittore del Nord riusciva a trattenere nel dipinto la bellezza fugace dei fiori, rendendoli così reali e sensibili da suscitare il desiderio di annusarli. Federico era incantato dalla fedeltà dei colori, dalla loro trasparenza, dalla delicatezza del tratto di quei fiori recisi che si affollavano con grazia. Gli sembrava che il pittore avesse sfidato il tempo e sconfitto la precarietà, offrendo uno spettacolo che, al contrario di quanto generalmente accadeva per altre nature morte, sfuggiva al malinconico destino delle cose che spariscono, alla vanitas mundi. Qui tutto era invece rovesciato e la “vanità” del fiore, la sua effimera bellezza, era riscattata e consegnata alla durata, inalterabile.
Si racconta che Jan Brueghel, ricevuta per lettera una nuova commissione da parte del cardinale Borromeo, gli rispondesse in tono piuttosto sconsolato, pregandolo di rinunciare all’ennesimo quadro di fiori. Perché per dipingerne uno ci voleva troppo tempo e una pazienza infinita. In più, occorreva trovare i fiori della giusta qualità e del colore adatto e poi affrettarsi a dipingerli prima che deperissero oppure rinnovarli di continuo, rispettando la disposizione originale. Insomma, una fatica immane. Non avrebbe invece potuto scegliere un paesaggio?
Ma il cardinale non raccolse l’invito. I paesaggi lo stancavano presto e finivano per stare lì, attaccati alla parete, senza che lui riuscisse più a vederli. I fiori, invece, quei fiori, quelli di Brueghel, li poteva osservare per ore senza saziarsi mai della loro bellezza e scoprendo ogni volta nuovi dettagli, che gli colmavano gli occhi e lo spirito di gioia. Perché è nei fiori più che in qualsiasi altra manifestazione che la natura raggiunge lo zenit della sua potenza.
Brueghel, dietro tanta insistenza, si vide costretto ad accettare. «Dovrete avere pazienza però», gli scrisse. «E se avete intuito quali difficoltà deve affrontare il pittore per dipingere un tulipano screziato, un giglio rosso, una rosa bianca, un garofano, una viola o qualsiasi altra delle decine di specie che ci vogliono per fare una giusta composizione, se avete intuito questo e la cura che ci vuole a riunirli all’interno di un vaso di cui occorre con altrettanta meticolosità cogliere le trasparenze, oppure all’interno di un cesto di cui riproporre il delicato intreccio dei bordi, la morbidezza flessuosa dei manici, la luce che ne accarezza la trama e la riscalda, ecco se amate a tal punto la gara che la pittura ingaggia con la natura, allora dovete anche riconoscerne per intero e senza contrattazioni il loro valore materiale».
Il cardinale rilesse la lettera di Brueghel e per un attimo gli sembrò di averlo davanti agli occhi: un uomo ancora giovane, ma fin troppo magro, con il volto scavato, coi capelli rossicci che già inclinavano al bianco giallastro sulle tempie, coi baffi stopposi che ricoprivano delle labbra fin troppo carnose, con la barba rada sulle guance e il pizzo che scendeva sulla gorgiera bianca. Un uomo sfibrato, senza forza interiore, coi modi e il linguaggio da cortigiano. Solo negli occhi scuri, nei lampi che li accendevano, come un sottobosco in cui filtri qualche raggio di sole, aveva colto la traccia di un’anima inquieta, un’anima che non si soddisfa ed è abituata a cercare – simile a un predatore.
Chiamò il suo segretario.
«Rispondete al signor Brueghel, ringraziatelo per la sua disponibilità e rassicuratelo che gli sarà inviato esattamente quanto avrà deciso di chiedere, un terzo subito e due terzi a fine lavoro. Stabilite, però, una data per la consegna: non oltre tre mesi. Ed esortatelo ad essere puntuale e, soprattutto, per equità, a non contrattare sul tempo».
Poi lo licenziò con un gesto e allungò la mano sul tavolo, raccolse il libro e lo sfogliò fino al passo che cercava e cominciò a leggere, articolando ogni parola con le labbra, sottovoce. E mentre procedeva nella lettura dell’Ecclesiaste, ritrovò quel sentimento che aveva altre volte avvertito e che era niente più che un filo sottilissimo, una traccia, un lampo corrusco che si perde nel folto della boscaglia, proprio come negli occhi di Brueghel. Sì, è vero – penso fra sé – nell’Ecclesiaste risuona in ogni frase il disgusto di chi è disingannato dalla vanità del mondo. E non c’è mai la quiete di chi è rassegnato ma l’amarezza per ciò che si è perso o per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. Un’amarezza affilata come la lama di un coltello, luccicante e sensuale come tutte le cose che sono destinate a sparire.
EDUARDO REBULLA
BIONOTA Nato a Palermo nel 1950, Eduardo Rebulla ha sempre vissuto nella sua città. Di professione medico, ha coltivato la scrittura nel tempo rubato. Ha pubblicato sette romanzi, sei con l’editore Sellerio (Carte Celesti, Linea di terra, Segni di fuoco, Sogni d’acqua, Stati di sospensione, La misura delle cose) e uno con Baldini&Castoldi (Le conseguenze estreme).
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