IL CASTELLO DI FRANZ KAFKA (I PARTE) (CRITICA LETTERARIA) ~ DI PAOLA CAPRIOLO - TECLAXXI
CRITICA LETTERARIA
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Paola Capriolo
Il Castello di Franz Kafka
Parte prima
Tradurre Kafka è un’impresa ingannevolmente semplice.
La sua sintassi è piana e scorrevole, non ci si imbatte mai in quei periodi
irti di subordinate che fanno impazzire ad esempio il traduttore di Thomas
Mann, e neppure in termini rari o ricercati che costringano a lunghe
consultazioni dei vocabolari. Un linguaggio quotidiano, quasi colloquiale, che
trae in inganno proprio per la sua apparente spontaneità ed è in realtà quanto
di più sorvegliato e preciso si possa immaginare, perché quella semplicità non
è un punto di partenza, ma una conquista, la meta di un cammino rigoroso volto
alla ricerca dell’essenziale.
Del tutto simile è la situazione di chi si trova ad
affrontare Kafka come lettore, prestando magari più attenzione al cosiddetto
“contenuto” che non alla forma e trascurando il fatto che qui come non mai i
due aspetti sono così strettamente intrecciati da risultare addirittura
inseparabili.
Anche le trame di Kafka sono semplicissime, si possono
riassumere in poche parole: un commesso viaggiatore di nome Gregor Samsa si
sveglia un mattino trasformato in un enorme insetto e, progressivamente
emarginato e respinto dalla famiglia, finisce col lasciarsi morire d’inedia;
un’altra mattina (il momento del risveglio in Kafka rappresenta spesso una
soglia critica) il procuratore Joseph K. scopre di essere sotto processo, e
dopo aver tentato invano di sfuggire all’imperscrutabile tribunale che lo
perseguita viene giustiziato con due pugnalate nel cuore.
Queste, ridotte all’osso, le trame della Metamorfosi e del Processo; e quella del Castello,
almeno fin dove ci è dato di leggerlo trattandosi di un romanzo incompiuto, può
essere esposta in modo ancora più sintetico: un uomo di nome K. vorrebbe
accedere al castello per assumere l’impiego di agrimensore, ma non ci riesce.
Tutto qui: per oltre trecento pagine non leggiamo quasi d’altro che dei suoi
tenaci e disperati tentativi, sempre votati al fallimento.
Qui come altrove, Kafka è maestro nel costruire sulla
scarna ossatura della sua trama una labirintica, vertiginosa serie di episodi
che non servono tanto a far progredire l’azione (un’azione vera e propria, una
vicenda in senso stretto, quasi non esiste) quanto a dissolverla, a ridurla
all’assurdo: un po’ come le interpretazioni del sacerdote e di Joseph K. fanno nel Processo
con la famosa parabola Davanti alla
legge, il cui tema tra l’altro, l’attesa di poter accedere a un luogo che
si presenta come inaccessibile, anticipa direttamente quello del Castello. Data la sua brevità forse vale
la pena di leggerla integralmente:
“Davanti
alla Legge sta un guardiano. Da questo guardiano arriva un uomo di campagna e
chiede di aver accesso alla Legge. Ma il guardiano dice che ora non può
concedergli l’accesso. L’uomo riflette e poi domanda se gli sarà dunque
consentito di accedervi in seguito. ‘Può darsi,’ dice il guardiano, ‘ma adesso
no.’ Poiché la porta della Legge è aperta come sempre e il guardiano si fa da
parte, l’uomo si curva per guardare all’interno attraverso la porta. Quando il
guardiano se ne accorge, scoppia a ridere e dice: ‘Se ti attrae tanto, allora
cerca di entrare nonostante il mio divieto. Ma bada: io sono potente. E sono
soltanto l’ultimo dei guardiani. Di sala in sala ci sono però guardiani l’uno
più potente dell’altro. Già la vista del terzo, neppure io riesco più a sostenerla.’
Simili difficoltà l’uomo di campagna non se le era aspettate, la Legge, pensa,
deve pur essere accessibile a tutti e in qualsiasi momento, ma osservando
meglio il guardiano nel suo cappotto di pelliccia, il suo grosso naso a punta,
la lunga, sottile e nera barba tartarica, decide che è meglio attendere finché
non gli concederanno il permesso di entrare. Il guardiano gli dà uno sgabello e
lo fa sedere a un lato della porta. Lì egli siede per giorni e per anni. Fa
molti tentativi per essere ammesso e sfinisce il guardiano con le sue
preghiere. Il guardiano lo sottopone spesso a piccoli interrogatori, gli chiede
del suo paese e di molte altre cose, ma sono domande distaccate, come le
pongono i grandi signori, e alla fine torna sempre a dirgli che non può ancora
lasciarlo entrare. L’uomo, che si è ben provvisto per il suo viaggio, sacrifica
tutto, anche le cose più preziose, per corrompere il guardiano. Questi accetta
tutto, ma dicendo: ‘Lo accetto solo perché tu non creda di aver trascurato
qualcosa.’ Durante quei molti anni l’uomo osserva il guardiano quasi
ininterrottamente. Dimentica gli altri guardiani e questo primo gli sembra
l’unico ostacolo per accedere alla Legge. Maledice il caso sfortunato, nei
primi anni a voce alta, poi, quando invecchia, limitandosi a brontolare tra sé
e sé. Diventa infantile e poiché studiando per anni il guardiano è arrivato a
conoscere anche le pulci nel suo collo di pelliccia, prega anche le pulci di
aiutarlo a far cambiare idea al guardiano. Infine, la sua vista diventa debole
ed egli non sa se intorno a lui si faccia davvero più buio o se siano solo i
suoi occhi a ingannarlo. Adesso però nel buio scorge un fulgore, che erompe
inestinguibile dalla porta della Legge. Ormai non gli resta molto da vivere.
Prima della sua morte, tutte le esperienze di quel tempo gli si compongono
nella mente in una domanda, che finora non ha mai rivolto al guardiano. Gli fa
cenno, poiché non è più in grado di sollevare il proprio corpo che si sta
irrigidendo. Il guardiano deve chinarsi profondamente su di lui, perché la differenza
di statura si è modificata molto a sfavore dell’uomo. ‘Che vuoi sapere ancora?’
domanda il guardiano. ‘Sei insaziabile.’ ‘Tutti aspirano alla Legge,’ dice
l’uomo, ‘allora com’è che in tutti questi anni nessuno, tranne me, ha chiesto
di entrare?’ Il guardiano capisce che l’uomo è alla fine e per raggiungere
ancora il suo udito quasi spento gli urla: ‘Qui nessun altro poteva ottenere di
entrare, perché questo ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado a
chiuderlo.”
Questa
breve storia capovolge radicalmente i presupposti del libro in cui compare
prefigurando così la grande opera successiva: se nel Processo si
trattava di sfuggire alla legge, all’autorità, o come altro vogliamo definirla,
nel Castello (come
nella parabola) avviene l’esatto contrario: la legge è una porta cui si bussa
invano, l’autorità qualcosa che, pur dominando ogni aspetto della nostra vita,
rimane avvolto in un silenzio impenetrabile e protetto da una radicale
estraneità.
Così, la sera in cui arriva per la prima volta al
villaggio K. non riesce neppure a scorgere il monte del castello, avvolto com’è
dalla nebbia e dalla tenebra. Ma le cose non migliorano alla luce del giorno:
“Quando K. contemplava il castello, spesso gli
sembrava di osservare qualcuno che se ne stesse là seduto tranquillamente e
guardasse davanti a sé, non assorto nei suoi pensieri e dunque inaccessibile a
tutto il resto, ma con libera noncuranza: come se fosse solo e nessuno lo
osservasse; eppure doveva accorgersi di essere osservato, tuttavia questo non
scalfiva minimamente la sua tranquillità e davvero (non si capiva se ne fosse
la causa o l’effetto) gli sguardi dell’osservatore non riuscivano a reggersi e
scivolavano via” (p.108).
Quest’ultima frase è un ottimo esempio dei balzi
spericolati che Kafka sa compiere da una descrizione apparentemente realistica
a una sorta di repentina trasfigurazione fantastica. (>> continua)
PAOLA CAPRIOLO
BIONOTA
Nata a Milano nel 1962, Paola Capriolo ha esordito nel 1988 con la raccolta di racconti La grande Eulalia (Feltrinelli) e ha pubblicato numerose altre opere di narrativa, l’ultima delle quali è Irina Nikolaevna o l’arte del romanzo (Bompiani 2023). Ha tradotto opere di Goethe, Kleist, Keller, Stifter, Schnitzler, Kafka e Thomas Mann.
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