IL CASTELLO DI FRANZ KAFKA (II PARTE) (CRITICA LETTERARIA) ~ DI PAOLA CAPRIOLO - TECLAXXI
CRITICA LETTERARIA
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Paola Capriolo
Il Castello di Franz Kafka
Parte seconda
K. è ben più dinamico e intraprendente dell’uomo di
campagna del Processo, contrariamente
a lui non si limita a un’attesa passiva; e il fatto che il castello sia così
inaccessibile da respingere addirittura gli sguardi dell’osservatore non può
certo indurre alla rinuncia un individuo che da ragazzo aveva compiuto
l’impresa di scalare il muro di cinta del cimitero solo per vincere una sfida,
per “aver ragione di quel muro alto e liscio” (p.32) e piantarvi in cima la
propria bandierina. E questo, notate bene, è l’unico suo ricordo, l’unica cosa
che Kafka ci rivela della sua vita prima dell’arrivo al villaggio.
A rendere Il
castello ancora più complesso delle altre opere di Kafka è appunto il
mistero che avvolge la figura del protagonista, o se preferite la sua
ambiguità. All’oste e agli avventori della Locanda del Ponte si presenta come
“l’agrimensore che il conte ha fatto venire”, ma quando questa qualifica viene
ufficialmente confermata per telefono da un funzionario di “lassù” al figlio di
un sottocustode che in quel momento si trova alla locanda , tra sé e sé K. sembra
accogliere la notizia con uno strano stupore:
“Così il castello lo aveva nominato agrimensore.
Questo da un lato giocava a suo svantaggio, poiché dimostrava che al castello
si sapeva tutto il necessario su di lui, si erano soppesati i rapporti di forza
e si era accettata la lotta sorridendo. D’altro lato però giocava anche a suo
vantaggio, poiché confermava la sua opinione che là lo sottovalutassero e che
egli avrebbe avuto più libertà di quanto inizialmente avesse osato sperare”
(p.7).
C’è di che restare sconcertati. Di quale lotta si sta
parlando, di quali rapporti di forza? K. è davvero venuto qui in tutta
innocenza perché assunto come agrimensore trovandosi poi inaspettatamente di
fronte a una mancata accettazione da parte del castello, o le sue motivazioni
erano diverse fin dall’inizio? Molto più avanti, a circa metà del libro, K.
ripenserà a quella prima sera e alla telefonata che Schwarzer, il figlio del
sottocustode, aveva fatto al castello per aver conferma della sua identità:
“…Non bisognava dimenticare che quell’accoglienza
aveva impresso l’orientamento decisivo a tutto ciò che sarebbe seguito.
Attraverso Schwarzer, in modo affatto illogico, era stata richiamata su K. fin
dal primo momento l’attenzione delle autorità, quando egli, ancora del tutto
straniero al villaggio, senza conoscenze, senza un rifugio, stremato dalla
marcia, completamente indifeso com’era mentre giaceva là sul pagliericcio, era
esposto a qualsiasi iniziativa da parte delle autorità stesse. Già una notte
più tardi tutto avrebbe potuto svolgersi in maniera diversa: tranquillamente,
quasi in segreto. In ogni caso nessuno avrebbe saputo nulla di lui, nessuno
avrebbe avuto sospetti o avrebbe esitato ad accoglierlo almeno per un giorno
come garzone girovago, si sarebbe visto quanto fosse capace e affidabile, se ne
sarebbe parlato in giro con i vicini, probabilmente egli si sarebbe sistemato
ben presto come servo da qualche parte” (p.181).
Qui sembra che già prima di arrivare K. sapesse
perfettamente a cosa andava incontro e contasse di farvi fronte, come dice lui
stesso poco più avanti, con “menzogne e macchinazioni segrete” (p.182); e
sembra anche che il suo vero obiettivo non fosse tanto di vedersi confermato
nell’impiego di agrimensore, quanto di insediarsi nel villaggio confondendosi
con i suoi abitanti per poi sferrare di lì, quasi inosservato, l’ assalto al
castello. Quel castello la cui attrattiva ai suoi occhi è forse la stessa esercitata
su di lui nell’infanzia dal muro “alto e liscio” del cimitero.
Per riuscire nella sua impresa pensa bene di
fidanzarsi con Frieda, addetta alla mescita dell’Albergo dei Signori e
soprattutto amante di Klamm, il funzionario che impersona più di ogni altro la
potenza del castello, la sua maestà imperscrutabile e a tratti grottesca, e che
è il vero, invisibile antagonista di K. Klamm che, secondo una testimone attendibile,
ha una natura proteiforme, che appare “in un modo quando viene al villaggio e
in tutt’altro modo quando lo lascia, in un modo prima di bere la birra e in un
altro dopo averla bevuta, in un modo da sveglio, in un altro nel sonno, in un
modo quando è solo, in un altro durante i colloqui, e cosa più che logica… in
modo quasi totalmente diverso su al castello” (p.193-94).
Ma non è tutto, nelle sue riflessioni K. aggiunge
un’altra pennellata al ritratto:
“Una volta l’ostessa aveva paragonato Klamm a
un’aquila e questo a K. era sembrato ridicolo, ma ora non più, pensava alla sua
lontananza, alla sua dimora inespugnabile, al suo mutismo forse interrotto da
grida quali K. non ne aveva ancora mai udite, al suo penetrante sguardo
dall’alto la cui presenza non si lasciava mai dimostrare, mai negare, ai
cerchi, intangibili dall’abisso dove si trovava K., solo a tratti visibili per
un istante, che descriveva lassù secondo leggi misteriose… tutto ciò accomunava
Klamm e l’aquila” (127).
Qui attraverso l’ immagine dell’aquila Kafka compie di
nuovo il balzo verso quella dimensione mitica che è il fondamento segreto di
tutto il romanzo, come in generale di tutta la sua narrativa. Mitica, o almeno
ammantata di implicazioni religiose è anche la figura di Barnabas, il giovane
messaggero, degradata figura di angelo che dovrebbe fare da tramite tra K. e il
castello e la cui inaffidabilità, agli occhi di K., è simboleggiata dalla rozza
camicia da contadino della quale può scorgere la stoffa piena di rammendi sotto
il serico e ingannevole luccichio della giacca; come pure quella “bella e
triste immagine” di Madonna con il bimbo al seno in cui K. si imbatte il primo
giorno a casa del conciatore Lasemann (p.16).
E quanti particolari, quante figure, quanti episodi
sarebbero ancora da menzionare… L’ostessa della Locanda del Ponte, che
sbalordisce per la sua mole gigantesca e per la sua eloquenza; Amalia,
l’orgogliosa fanciulla messa al bando dalla comunità per aver respinto le rudi
profferte di un funzionario; i due aiutanti di K., Artur e Jeremias, diaboliche
marionette che si muovono sempre come in un cartone animato; Pepi, la servetta
agghindata e maligna; il sonnacchioso funzionario Bürgel che all’Albergo dei
Signori fa balenare l’opportunità decisiva agli occhi di un K. incapace di
coglierla perché ancora più insonnolito di lui…
La scena con Bürgel secondo me è uno dei vertici del
libro: un vertice di sottigliezza e di cattiveria. Infatti quella che il
loquace funzionario annuncia alla “parte”, ossia a K. , è nientemeno che una
possibile resa da parte del castello:
“Come il bandito nel bosco la parte ci estorce nella
notte sacrifici di cui altrimenti non
saremmo mai capaci… Potremmo ben sforzarci di tener nascosta alla parte la vera
situazione. Lei, per suo conto non si accorge quasi di nulla. Spossata, delusa,
priva di riguardi e resa indifferente dalla spossatezza e dalla delusione,
probabilmente secondo il suo modo di vedere è penetrata solo per un qualche
motivo indifferente e casuale in una stanza diversa da quella in cui voleva
andare, siede lì ignara e con il pensiero si occupa, se pure si occupa di
qualcosa, del proprio errore o della propria stanchezza. Non si potrebbe
lasciarla stare com’è? Non si può. In preda alla loquacità di chi è felice,
bisogna spiegarle tutto. Bisogna, senza poter risparmiarsi minimamente,
mostrarle in modo particolareggiato cosa è accaduto e per quali motivi è
accaduto, quanto sia straordinariamente rara e singolarmente grande
l’opportunità, bisogna mostrarle come la parte sia sì venuta a incappare in
questa opportunità con un’assoluta sprovvedutezza, di cui nessun’altra creatura
sarebbe capace fuorché appunto una parte, ma adesso se vuole, signor
agrimensore, possa dominare del tutto la situazione e a tale scopo non debba
far altro se non esprimere in qualche modo la sua preghiera, per la quale è già
pronto l’adempimento, anzi, verso la quale esso si protende…” (p.296-97).
Ma a questo punto K. cede definitivamente al sonno,
senza capire che fingendo di parlare in termini generali Bürgel gli sta
illustrando nel modo più schietto e meticoloso la loro attuale situazione e gli
sta offrendo la vittoria su un piatto d’argento. Non se ne accorge nemmeno
quando Bürgel lo chiama direttamente in causa con quell’improvvisa forma
vocativa, “signor agrimensore”… Nonostante le sue “macchinazioni” e la sua
pretesa astuzia, qui K. si mostra davvero così sprovveduto da dar ragione allo
sprezzante giudizio che l’ostessa della Locanda del Ponte aveva pronunciato su
di lui paragonandolo a “un bambinetto che non sa ancora camminare bene e si
avventura in avanti” (p.272).
Ma più che una qualsiasi immaturità o debolezza di
carattere, il vero limite di K. consiste nell’essere da capo a piedi un uomo
della volontà, convinto di poter conquistare con l’abilità o con lo sforzo ciò
che per sua natura non si lascia conquistare. Non a caso l’unica occasione in
cui giunge davvero vicino all’ “adempimento” è quella in cui è troppo stremato
per perseguirlo, in cui smette di combattere; perché, ci avverte Kafka in uno
dei suoi folgoranti aforismi, chi cerca non trova, solo chi non cerca viene trovato.
Dal punto di vista formale, comunque, la scena con
Bürgel è soltanto un esempio tra molti: Kafka conduce gran parte della sua
narrazione attraverso i lunghi monologhi, a volte diretti, mascherati da
dialoghi, a volte affidati all’indiretto libero, nei quali ciascun personaggio
enuncia davanti a K. la propria verità, senza che tutte queste verità parziali,
frantumate come in un caleidoscopio, arrivino mai a comporne una generale,
attendibile, definitiva.
Come l’uomo di campagna, noi lettori rimaniamo sempre
di qua dalla soglia, e tale è anche il destino di K. fino all’ultima riga di
questo romanzo del quale non è stata scritta la fine. Secondo Max Brod Kafka
aveva in mente una sorta di beffardo happy end: K. avrebbe ricevuto dal
castello non la sospirata nomina ad agrimensore, ma il permesso ufficiale di
vivere e lavorare al villaggio, e per colmo di ironia l’avrebbe ricevuto in
punto di morte.
Non sappiamo se Brod avesse compreso correttamente le
intenzioni del suo amico; comunque sia, il testo che noi possediamo si
interrompe bruscamente lasciando addirittura una frase a metà:
“Porse a K. la mano tremante e lo fece accomodare
accanto a lei, parlava a fatica, si faticava a capirla, ma ciò che disse”
(p.347)
Ciò che disse non lo sapremo mai. Forse possiamo
consolarci pensando che un finale del genere, ossia un non -finale, corrisponde
segretamente allo spirito del libro: per ogni sua pagina in fondo vale quello
che Olga afferma delle lettere che suo fratello Barnabas consegna a K. da parte
del castello:
“Le riflessioni che suscitano sono infinite e poiché
il punto in cui le si interrompe è determinato soltanto dal caso anche il
giudizio rimane casuale” (p.255).
O come spiega il sacerdote all’altro K., quello del Processo:
“Il testo è immutabile e le interpretazioni spesso
esprimono soltanto la disperazione al riguardo”
Ecco, a ben vedere i capitoli e gli episodi del Castello non sono altro che questo: una
serie potenzialmente infinita di interpretazioni per un testo che ignoriamo e
che continua a sfuggirci.
BIONOTA
Nata a Milano nel 1962, Paola Capriolo ha esordito nel 1988 con la raccolta di racconti La grande Eulalia (Feltrinelli) e ha pubblicato numerose altre opere di narrativa, l’ultima delle quali è Irina Nikolaevna o l’arte del romanzo (Bompiani 2023).
Ha tradotto opere di Goethe, Kleist, Keller, Stifter, Schnitzler, Kafka e Thomas Mann.
Molto interessante. Avevo letto Il processo anni fa e lo rileggerò anche alla luce di quanto scrive Paola Capriolo in questo articolo .
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