Roma Roma Roma (LE SQUADRE DEL CUORE) ~ di Alessandro Iovinelli - TeclaXXI
LE SQUADRE DEL CUORE
Roma Roma Roma
di Alessandro Iovinelli
Foro Romano photo ©Jacqueline Spaccini
Roma capoccia
Mi vanto sempre di essere romano e
romanista, perché la mia famiglia lo è sempre stata.
Il mio nonno paterno, Pasquale, tenne
per l’AS Roma fin dalla sua fondazione nel 1927, quando la squadra giocava in
casa ancora al Velodromo Appio e non era approdata al Campo Testaccio, lo
storico stadio che ne divenne il cuore durante gli anni Trenta e fino al 1940,
proprio alla vigilia del primo scudetto, conquistato nel 1942.
Sull’appartenenza di Pasquale, dei suoi
fratelli (Arcangelo, Graziano, Gustavo e Mario), nonché dei suoi figli, Franco
e Marcello, mio padre, al club giallorosso, cioè a quella squadra di calcio che
negli anni Ottanta ai tempi del secondo scudetto vinto dalla squadra di Ledholm con Falcao, Conti e Di Bartolomei, la mia generazione avrebbe evocato con l’appellativo di
Magica (ma il lemma va pronunciato con due g,
cioè Maggica), non vi sono dubbi. Mio
nonno era presente in tribuna già al suo esordio, in campionato contro il
Livorno il 25 settembre 1927. Per la cronaca: la partita terminò con un
successo dei giallorossi per due a zero (gol di Ziroli e Fasanelli).
La tradizione familiare è proseguita poi con me e con mio figlio.
La Roma nella mia infanzia
In epoca in cui i bambini che andavano
allo stadio non si mascheravano con la maglietta e i calzoncini della loro
squadra, nella mia infanzia indossavo una tenuta molto più casareccia con berretto
giallorosso, sciarpa di pari colore e tre bandiere di diversa grandezza. Io e mio padre avevamo l’abbonamento e
dunque seguivamo la squadra in tutte le partite casalinghe. Col sole o col
freddo. Anche nelle domeniche in cui pioveva, anzi diluviava. I primi anni
prendevamo posto nella Monte Mario, in seguito traslocammo in Tribuna Tevere
non numerata. Il che significò non solo vedere la partita da una peggiore
angolazione, ma anche – almeno negli incontri di cartello – restare in piedi, schiacciati
nella calca, ed essendo io ancora un bimbo dovevo restare necessariamente
abbarbicato sopra una cassetta di lattine di Coca Cola, che consentisse di
farmi largo tra le teste.
Forse è perché ho
cominciato ad andare allo stadio ancora molto piccolo, ma di quelle prime
partite ho memorie molto vaghe. A una, forse la prima in assoluto, mi annoiai
così tanto che non ne seguii neppure il secondo tempo, preferendo restare a
giocare, pur da solo, con una lattina davanti a un bar sottostante alle scale che
conducevano fuori dell’Olimpico. Come mia attenuante, posso evocare la pessima prestazione
della nostra squadra, che infatti perse l’incontro con la Spal 1 a 0. Mio
padre, superstizioso come lo erano tutti gli Jovinelli, mi ammonì severamente:
«Non sarà che porti jella? Sta attento, se
perdiamo anche la prossima, non ti ci porto più».
Probabilmente fu questa la ragione per la quale
all’inizio andavo a vedere soltanto gli incontri amichevoli, che si svolgevano
d’estate tra la Roma e i club blasonati. Ne ricordo uno contro il Santos, la
squadra brasiliana dove giocava Pelè, allora il calciatore n.1 nel mondo.
Vincevamo addirittura 2 a 0 al termine del primo tempo. Ma poi Edson Arantes de
Nascimento, detto Pelè, doveva essersi svegliato e i Santistas avevano capovolto il risultato, vincendo in extremis per 3 a 2. Una sconfitta, ma con onore, mi
aveva poi spiegato mio padre, va accettata serenamente. Da adulto avrei capito
che in una partita amichevole, le motivazioni di una squadra in tournée estiva
all’estero, soprattutto se famosa, sono vicine al concetto di esibizione
pubblicitaria, senza dunque quella cattiveria agonistica che mortificherebbe la
squadra ospite, i cui giocatori sono invece motivatissimi a fare bella figura
davanti a cotanto avversario. Ma ai bambini piacciono sempre le belle favole. Quanto
ai tifosi, sono per loro stessa natura dei bambini senza tempo.
A posteriori, non ho nessun problema a
riconoscere che a quei tempi la Roma fosse una squadra modesta.
Il primo evento importante al quale assistetti
fu la vittoria in Coppa Italia nel 1969, quando battemmo il Foggia 3 a 0 (reti
di Landini, Capello e Peirò).
Per il resto, conservo il ricordo solo dei miei
stati d’animo trepidi, ansiosi, emozionati, o di circostanze extracalcistiche. Per
esempio, ho memoria di un derby con la Lazio, da noi vinto per 2 a 1, ma solo perché
vi andammo con Anna Pancani, la moglie di Giovanni Amati, nonché madre delle
sue tre figlie.
Amati era socio degli Jovinelli dalla riapertura
dell’Ambra nel secondo dopoguerra. Era stato un accordo inevitabile, visto il
potente circuito cinematografico che lui aveva impiantato nella capitale, ma la
mia famiglia aveva sempre tenuto a mantenere una certa autonomia rispetto all’ingombrante
alleato. Inoltre, mio nonno diffidava di Nino, come in casa lo chiamavano, considerandolo
un imprenditore vulcanico, ma troppo spregiudicato. Lo circondava infatti
un’aura mefistofelica. A volte si parlava di lui come se fosse il diavolo, o
quanto meno uno che ci avesse fatto un patto.
Ad ogni modo, la moglie aveva chiesto a mio
padre di portarla all’Olimpico ad assistere al derby e così eravamo passati a
prenderla in via dei Villini, al quartiere Nomentano. Rammento tanti
particolari di quella domenica ancora calda, come capita sovente nell’autunno
romano. A cominciare dalla simpatia un po’ snob di Anna Maria Pancani che in
effetti, prima di sposarsi giovanissima con quell’attempato nonché facoltoso
imprenditore cinematografico, era stata un’attrice, recitando tra l’altro nelle
Amiche di Michelangelo Antonioni.
Memorie calcistiche al di là dei luoghi comuni
A volte andavamo a vedere la
nostra squadra anche in trasferta. Rammento un viaggio col treno giallorosso a
Firenze per vederla contro i viola. E un’altra volta andammo da soli a Napoli,
perché la Roma era ospite dei partenopei. Mi verrebbe da commentare che erano
altri tempi, visto che alla fine ci salutammo tra baci e abbracci con i tifosi del
«ciuccio», secondo lo stemma della squadra del Napoli, se non fosse che mi devo
contraddire nel mio elogio del passato, citando per obiettività storica un
episodio molto più recente, cioè dei nostri tempi, in cui gli stadi appaiono militarizzati,
con tifosi aggressivi e frange intolleranti, anzi violente.
Di padre in figlio: una partita a Treviso con Romain
Come ho già detto, la
passione per la Roma l’ho trasmessa a mio figlio. Che si chiama Romain forse
anche perché fu un modo di evocarla fin dal nome, introducendola all’interno della
parola – ma sto esagerando, avendo la genesi del suo nome tutta un’altra storia.
Tuttavia, siamo vissuti per molti anni all’estero e così lui ha potuto vedere
pochissime partite dal vivo. Una lacuna nella sua infanzia (lo stadio, le
bandiere, le canzoni, i cori di incitamento, ecc.) della quale si è talora lamentato.
Nel 2006 abitavamo a Zagabria, la capitale croata che dopo tutto non è troppo
distante da Trieste. Da lì poi si possono raggiungere in poco tempo le città
del Veneto, tra le quali Treviso. Così decidemmo di partire, quando si disputò
l’incontro di campionato tra il Treviso, che lottava per la retrocessione, e la
Roma, in corsa per lo scudetto, che non vinse, ma che fu assegnato a tavolino
all’Inter, dopo lo scandalo di calciopoli. Venne anche Jacqueline, ma non ci
seguì allo stadio, preferendo visitare una mostra dedicata alla via della seta.
Insieme passammo un bel weekend, vedendo anche Trieste e la stessa città di
Treviso, di cui ho un bel ricordo, a partire dalla sua fitta rete di canali.
Non per niente viene detta la «piccola Venezia».
Romain aveva quattordici
anni e si era bardato, come da copione, da tifoso giallorosso in modo
inequivocabile. Lo stadio era piccolo, ma gremito. Noi due, da soli, ci
attestavamo al di sotto della soglia di una sparuta minoranza di tifosi ospiti,
perché facevamo proprio la figura delle classiche mosche bianche in un mare di
supporter trevisani. Per giunta, se a Napoli era stato agevole per tutti
mantenersi fedeli al fair play, in quanto la partita si
concluse 0 a 0, senza episodi discussi e solo per le miracolose parate del
nostro portiere, Pier Luigi Pizzaballa; invece, a Treviso vincemmo 1 a 0, con
gol di Alberto Aquilani, proprio il giocatore il cui cognome mio figlio aveva
impresso sulle spalle della sua maglietta. La mia esultanza si espresse in modo
composto e distaccato, come in una vignetta dell’Ottocento, nella quale appare
un distinto gentiluomo che, togliendosi il monocolo, esclama sorpreso: «Ohibò!
Abbiamo segnato». Di ben altra intensità fu la gioia manifestata dal mio
Romain. Lo vidi saltare in piedi e gridare con le braccia levate al cielo: «Goool!»
Che innocenza, mi dissi. Ma che temerarietà, pensai vilmente. Mi aspettavo infatti
da parte degli avversari, per lo meno qualche commento infastidito, se non a
brutto muso, o peggio. Ma non accadde nulla. Anzi una signora, seduta nella
fila sottostante alla nostra, si voltò verso di noi e, con un largo sorriso di
tenerezza, disse dolcemente al mio eroico ragazzo:
«Ora sei contento, eh?»
Un mito da sfatare: il calcio dei vecchi tempi
Insomma, la ferocia negli stadi non è un destino ineluttabile. E non sempre
il nostro tempo è peggiore del passato. Anzi. Anche in epoche lontane si
registravano episodi di violenza – e non individuale, bensì collettiva, dove
era il gruppo, il branco, la folla ad agire brutalmente. Di quegli anni remoti,
che oggi ci paiono pioneristici e soffusi da una luce romantica, alla De
Coubertin, mi è rimasto impresso un episodio testimoniato da mio padre e che
non si qualifica certamente come prova di civiltà sportiva. Fa peraltro parte
della mitologia familiare – del quale però non ho trovato conferma negli
archivi dei giornali dell’epoca. Il che non mi stupisce, visto che la stampa
sotto il regime fascista lo ignorò per non compromettere l’immagine di un paese
in pace al suo interno e senza disordini di alcun tipo.
Era successo che, in occasione di un derby con la Lazio, particolarmente infuocato, le opposte fazioni erano venute alle mani durante la partita. Gli scontri proseguirono anche dopo, tanto che un manipolo di laziali esagitati – ai nostri tempi, li definiremmo ultras, anzi ultrà – cercarono di assalire perfino il presidente della Roma, verosimilmente Renato Sacerdoti, il quale stava lasciando lo stadio in auto. Avendo assistito all’aggressione, i fratelli Jovinelli non esitarono a prendere le difese della vittima dell’assalto, aggrappandosi alle portiere della sua macchina e così gli fecero da scudo contro gli aggressori. Fu la nostra battaglia delle Termopili, giacché gli Jovinelli, contrariamente alla loro fama di giovanotti fumantini e pugilatori, vuoi per l’inferiorità numerica, vuoi per la posizione precaria e svantaggiosa, ne presero più di darle.
La leggenda della Roma «testaccina»
In quei lontani anni, una sfida storica fu quella con la Juventus, già
coronata da diversi scudetti, che si concluse con un sonante 5 a O – evento
compiutosi il 15 marzo 1931 e immortalato in un film di Mario Bonnard. Il
titolo del suo film si rifà letteralmente al clamoroso risultato. Sempre per la
cronaca, ricorderò i marcatori. Furono: Lombardo, Volk, Fasanelli e Bernardini (autore
di una doppietta). Tra i marcatori della
cinquina è doveroso sottolineare la presenza di due nomi. Il primo è Rodolfo
Volk. Fiumano di nascita, era un atleta monumentale, almeno per quei tempi. Infatti,
era soprannominato Sciabolone (da pronunciare con due b, cioè Sciabbolone). Ancora
oggi viene considerato tra i migliori attaccanti della storia giallorossa.
Quanto alla seconda menzione speciale, ossia quella per Fulvio Bernardini, si
tratta di un’altra bandiera della squadra e della città, essendo «romano de
Roma», rimasto famoso non solo come centromediano di tecnica e visione del
gioco inestimabili, ma anche come allenatore di squadre, quali la Fiorentina
(scudetto 1956), il Bologna (scudetto 1964) e la Nazionale (che rifondò dopo la
disfatta ai mondiali in Germania Ovest nel 1974).
Il campo dove avvenne quella impresa sportiva fu Testaccio, naturalmente. Ancora
oggi, tra i tifosi giallorossi, si è soliti definire una Roma «testaccina», se
la nostra compagine ha giocato una partita veemente, sanguigna e di carattere.
Quel carattere che la squadra mostrava davanti al suo pubblico appassionato e
che rendeva il fattore casalingo davvero decisivo – come avrebbero testimoniato
le statistiche e coloro che c’erano. Del resto, lo diceva anche la canzone che
i tifosi intonavano in quegli anni Trenta: «Campo Testaccio ci hai tanta
gloria, nessuna squadra ce passerà. Ogni partita è ‘na vittoria, ogni romano è
‘n bon tifoso e sa strillà».
ALESSANDRO IOVINELLI
È poeta, narratore, critico e regista teatrale.
Ha pubblicato libri di poesia, racconti, saggistica, nonché tre romanzi.
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