Collo di tartaruga (NARRATIVA) ~ di Luigi Ananìa - TeclaXXI

 

NARRATIVA

 

Luigi Ananìa

 

Collo di tartaruga

 

 

                                              jacquelinespaccini©2025


Caro Armando Bencintenga, come stai?

Oggi sei entrato a casa mia con il tuo passo sciolto e asimmetrico e il tuo sorriso gentile. Ma adesso che ti faccio una domanda, lo sguardo si smarrisce, ed ecco il tuo viso che si restringe, si contrae alla fine di ogni frase, si arresta davanti al dolce fluire dei ragionamenti, emette un’opinione secca e un borbottio, spinge il mento circolare in su e acquista l’assetto di un grugno. E intanto sotto al mento sulla parte superiore al petto si forma una corazza circolare e si hanno così due curve di protezione, corazza e grugno, una più lunga e una più corta ma con la medesima convessità. Sulla schiena poi si forma una superfice rigida e tonda, un vero e proprio carapace con delle protuberanze che affiorano sul morbido tessuto della giacca di cachemire. Così mentre parliamo il pensiero scivola su corazza e carapace e cade nel già detto, nell’indifferente, nell’inespresso, nell’opinione comune. L’unicità di ogni pensiero si generalizza e così si esaurisce il vagar curioso dello sguardo e della mente. A tratti grugno, petto e carapace s’ispessiscono e cerchi le parole dentro te stesso e nella storia del passato, una storia vista come un ricettacolo di certezze statiche, come un fondo in cui giace la verità che tu enunci con un’affermazione e un grugnito.

Non ti accorgi che la curiosità può salvarci dallo smarrimento e non serve anteporre masse, pesi e bastioni alla conoscenza di quel che non si vede, all’immagine successiva, alle parola che arriva dal niente e dal vuoto; no, non te ne accorgi e così rifuggi, poni confini, serri la mascella e ti assesti in posizione asimmetrica con lo sguardo altrove e la tua giacca inglese che si adagia sulla curva delle spalle; il tessuto misto di cachemire e di lana ammorbidisce la rigidità del tuo corpo e delle tue posizioni.  Quando poi sembra che noi due riusciamo a interloquire, produciamo raffiche infinite di dialoghi falliti.  

Ad esempio, ricordando un’abbazia del millecento in cui entrammo insieme l’anno precedente, io ti dico: “L’abbazia è sempre aperta ai visitatori”, e tu ribatti: “No, i frati non ci abitano”, e io di rimando: “I frati non ci abitano ma è aperta ai visitatori” e tu ispessendo il grugno: “Non ci abitano” e poi di nuovo domandi “Ci abitano?”. Io parlo del visitare e tu parli dell’abitare, non condividiamo i significati delle parole. E così via tra pause, assalti e rancori, io affermo con lo sguardo entusiasta: “questa è la canzone che amo di più”, e tu: No! Questa è una canzone famosa “e io inarcandomi: “l’importante non che è famosa, ma che è la canzone che amo di più”, e tu ripeti: “è famosa”. Tu fai riferimento alla fama, io al gusto e la conversazione si interrompe; io accenno a un nesso tra gusto, soggettività e fama ma tu mi guardi spostando da un lato il carapace e dall’altro lo sguardo. Poi io ti parlo di Valentino Ostuni, architetto grande appassionato dell’assurdo  e di quei suoi strambi discorsi sulle abitazioni che sono più degli esseri umani e poi passando di palo in frasca della sessualità a settant’anni, della concupiscenza vissuta come fastidio o come magnifica demenza;  e tu caro Armando, tu  mi rispondi parlando di un altro Valentino, Valentino Paraventi, architetto di sale concerto e musicista, “Persona squisita, squiiiisita” , e ripetendo “squisiiiiiita ammorbidisci il grugno e  protendi il collo dal bordo della giacca; ripeti “Valentino squisito” e pare che scandendo il nome Valentino non esista altro Valentino, pare che la realtà di quel nome non  coincida con una pluralità di esseri umani ma soltanto con Valentino Paraventi. Così la conversazione muore mentre tu ti crogioli nel tuo involucro avvolto dai tuoi soffici indumenti. Ma una sera a cena mi accorgo che la corazza e il carapace si dissolvono e il grugno si smussa.  Nella luce del tramonto vedo il tuo viso infrangersi nelle mille pieghe di un sorriso inatteso e tutto te stesso diventare un essere variabile come i colori del tramonto; non sei più il blindato Armando ma ti muovi come un illusionista che si dilata e si sgonfia, poi si piega e s’inarca rigirando le mani sugli sguardi di tutti i commensali. Dal bordo della tua giacca fuoriesce un collo lungo e flessibile come quello di una tartaruga che allungandosi distende le grinze.  È un collo sorprendente che si prolunga in direzione di un altro viso con la stessa lentezza della tartaruga e con un’estensione che sembra non avere fine; un cordone elastico che porta te stesso in prossimità di un altro volto in un lungo intervallo di tempo durante il quale il tuo viso si allarga in un sorriso riconoscente.  La tua larga dentiera e le tue labbra si ampliano e io caro amico fraterno mi meraviglio della tua espressione che nell’arco di mezz’ora è diventata l’emblema vivente della comprensione del prossimo; tutte le tue aperture, la bocca, le narici, e orecchie e anche gli occhi, diventati due grandi vuoti lucenti, manifestano curiosità e riconoscenza.

Il tuo avvicinamento progressivo agli altri tiene conto degli spazi di ognuno e quando ti allunghi verso di me riconosco l’Armando che a volte scompare dietro le sue corazze e che poi ritorna morbido ed entusiasta. È l’Armando metamorfico che, protendendo il collo, si trasforma da uomo a uomo-tartaruga e poi a essere prolungato con gli occhi che brillano di bianco e infine ad acrobata fantastico che si svincola e si allunga fra un ospite e l’altro.  Sì, l’acrobata che tanti anni fa entrava nel grande salotto di famiglia e approfittando di una strana articolazione dell’anca destra ideava passi obliqui, capriole diagonali, salti e contatti aerei tra la punta dell’alluce destro e il lobo dell’orecchio sinistro. Soltanto in quel salotto dissolvevi le corazze che già si andavano formando per mascherare la tua strana articolazione e la conseguente rotazione discontinua dell’anca.

Quand’eri studente, il tuo strano passo con l’anca destra che roteava di tre quarti, poi si fermava e infine con uno scatto terminava la rotazione completa, veniva osservata da tutti; nessuno ti guardava negli occhi, tutti guardavano quel giro dell’anca che si concludeva con uno scatto e uno schiocco. Allora, da un giorno all’altro, cominciasti a dedicare un tempo fisso per modellare un passo simile a quello degli altri; ogni sera alla stessa ora entravi nel salotto e inventavi degli esercizi ginnici per sviluppare delle fasce di muscoli e di nervi che attenuassero quella strana rotazione fino a renderla quasi invisibile; poi alla fine della ginnastica girovagavi tra le poltrone, il divano e il comò con indosso delle maglie sintetiche che ti aiutavano a raddrizzare l’andatura. Ma via via che assumevi un’andatura normale, si formavano sul dorso un carapace e sul davanti un torace curvo che si congiungevano ai lati come due corazze di protezione. Quando il passo diventò un passo simile a quello degli altri, procedevi con i fianchi lineari e inflessibili, il collo che fuoriusciva dal bordo delle due corazze; poi anche il tuo parlare si modificò diventando perentorio e secco, disseminato di opinioni comuni che si concludevano con un grugnito e un improvviso indurimento del mento. Eri riuscito a farti guardare negli occhi, ma nel momento della massima soddisfazione, quando ormai scambiavi sguardi e assensi con tutti i tuoi compagni di scuola, sentisti il desiderio irrefrenabile di rientrare nel salotto di famiglia e smuovere quelle due corazze da cui fuoriusciva il tuo capo e il tuo collo. Allora di sera mi invitavi nel salotto con tutti i lampadari accesi e   inventavi acrobazie, volteggi e voli da un lampadario all’altro; poi, mentre volavi e rimpiombavi con una capriola sul pavimento, sembrava che il carapace si dissolvesse e che una luce ti brillasse negli occhi, la stessa luce che c’è adesso nel tuo viso che mi guarda. E via via che ti avvicini e la voglia di sorridere ti ritrae le labbra sulle tue vaste gengive mi accorgo che quella luce tante volte l’ho vista e altrettante l’ho dimenticata. Infatti, guardandoti ora tra i riflessi della sera, mi accorgo che quel tuo sguardo è sempre esistito; è uno sguardo felice e inerme, uno sguardo che in passato ho visto velarsi di paure e di ombre e poi nascondersi.

Spesso quando ti guardavo vedevo   un susseguirsi di buio, di luce e di espressioni di sfida che sottendevano il pensiero “tu sei l’inadeguato al mondo, io sono l’adatto; e forse la stessa confusione vedevi tu nel mio sguardo. Ma poi d’improvviso riappariva quel brillio che tornava come un incantesimo nel tuo sguardo di ragazzo e che ora riconosco tra una galassia di occhi che si ricercano tra i colori del tramonto e i fumi dell’alcol.

Soltanto adesso mi accorgo quanto sei cambiato nei modi, nella voce e nelle espressioni, una vera e propria trasformazione, la trasformazione dell’Armando; negli ultimi anni il tuo collo si allunga sempre di più e il tuo sguardo è sempre più coinvolgente; le ombre compaiono per frazioni di secondo e la luce degli occhi e l’argento dei capelli irradiano sul tuo viso un chiarore, un’aureola oscillante che ti segue ovunque. Ci sono ancora il carapace e la corazza, ma il grugno è scomparso, si è modellato in un mento liscio e tondo. Il grugnito si è trasformato in una  prolungata risata che fuoriesce dalla larga dentiera che si allarga come una grata  aperta e liberale, un lasciapassare di suoni e di sentimenti;  ogni tanto  le tue frasi cosparse di erre arrotondate e le tue risate attraversate da lunghe aspirazioni e infinite espirazioni sono  inframezzate da versi animaleschi che rimandano al ricordo dell’Armando di una volta; ma il fantasma che ti perseguitava sembra essersi dileguato e ormai  ti senti parte integrante non soltanto della tua vecchia classe di scuola, ma anche di un’ immaginaria  comunità internazionale, una società celeste  in cui i cittadini  aleggiano tra le camere e gli ingressi al di sopra delle cose del mondo.

 [Una versione precedente del racconto è apparsa in Bestiario umano, DeriveApprodi, 2021]


LUIGI ANANÌA 


BIONOTA 

Luigi Ananìa si laurea in scienze agrarie presso l'università di Firenze nel 1986. Da allora scrive racconti e fa vino rosso a Montalcino presso l'azienda La Torre. Con la casa editrice Pequod ha pubblicato Il signor Ma (2000) e Cos'è questa nuvola (2011). Presso le edizioni DeriveApprodi ha curato l'antologia di racconti sul vino Confesso che ho bevuto (insieme a Silverio Novelli, 2004) e ha pubblicato Avant'ieri, storie di emigrazione tra la Sila, Torino e Buenos Aires (2009), Pixel, la realtà oltre lo schermo dei media (di nuovo insieme a Silverio Novelli 2012), Storie di volti e parole (2016) e  Bestiario umano (2021), ambedue in collaborazione con Nicola Boccianti. Ha scritto racconti per Il sempliceMaltese narrazioni e Nuovi Argomenti. 


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