Collo di tartaruga (NARRATIVA) ~ di Luigi Ananìa - TeclaXXI
NARRATIVA
Luigi Ananìa
Collo di tartaruga
Caro Armando Bencintenga, come stai?
Oggi sei entrato a casa mia con il tuo passo sciolto e
asimmetrico e il tuo sorriso gentile. Ma adesso che ti faccio una domanda, lo
sguardo si smarrisce, ed ecco il tuo viso che si restringe, si contrae alla
fine di ogni frase, si arresta davanti al dolce fluire dei ragionamenti, emette
un’opinione secca e un borbottio, spinge il mento circolare in su e acquista
l’assetto di un grugno. E intanto sotto al mento sulla parte superiore al petto
si forma una corazza circolare e si hanno così due curve di protezione, corazza
e grugno, una più lunga e una più corta ma con la medesima convessità. Sulla
schiena poi si forma una superfice rigida e tonda, un vero e proprio carapace
con delle protuberanze che affiorano sul morbido tessuto della giacca di
cachemire. Così mentre parliamo il pensiero scivola su corazza e carapace e cade
nel già detto, nell’indifferente, nell’inespresso, nell’opinione comune. L’unicità
di ogni pensiero si generalizza e così si esaurisce il vagar curioso dello
sguardo e della mente. A tratti grugno, petto e carapace s’ispessiscono e
cerchi le parole dentro te stesso e nella storia del passato, una storia vista come
un ricettacolo di certezze statiche, come un fondo in cui giace la verità che
tu enunci con un’affermazione e un grugnito.
Non ti accorgi che la curiosità può salvarci dallo smarrimento
e non serve anteporre masse, pesi e bastioni alla conoscenza di quel che non si
vede, all’immagine successiva, alle parola che arriva dal niente e dal vuoto; no,
non te ne accorgi e così rifuggi, poni confini, serri la mascella e ti assesti
in posizione asimmetrica con lo sguardo altrove e la tua giacca inglese che si
adagia sulla curva delle spalle; il tessuto misto di cachemire e di lana
ammorbidisce la rigidità del tuo corpo e delle tue posizioni. Quando poi sembra che noi due riusciamo a
interloquire, produciamo raffiche infinite di dialoghi falliti.
Ad esempio, ricordando un’abbazia del millecento in
cui entrammo insieme l’anno precedente, io ti dico: “L’abbazia è sempre aperta ai
visitatori”, e tu ribatti: “No, i
frati non ci abitano”, e io di rimando: “I frati non ci abitano ma è aperta ai visitatori” e tu ispessendo il grugno: “Non ci abitano” e poi di nuovo domandi “Ci abitano?”. Io parlo del visitare e tu parli dell’abitare, non condividiamo
i significati delle parole. E così via tra pause, assalti e rancori, io affermo
con lo sguardo entusiasta: “questa è la
canzone che amo di più”, e tu: “No!
Questa è una canzone famosa “e io
inarcandomi: “l’importante non che è
famosa, ma che è la canzone che amo di più”, e tu ripeti: “è famosa”. Tu fai riferimento alla fama,
io al gusto e la conversazione si interrompe; io accenno a un nesso tra gusto,
soggettività e fama ma tu mi guardi spostando da un lato il carapace e
dall’altro lo sguardo. Poi io ti parlo di Valentino Ostuni, architetto grande
appassionato dell’assurdo e di quei suoi
strambi discorsi sulle abitazioni che sono più degli esseri umani e poi
passando di palo in frasca della sessualità a settant’anni, della concupiscenza
vissuta come fastidio o come magnifica demenza; e tu caro Armando, tu mi rispondi parlando di un altro Valentino,
Valentino Paraventi, architetto di sale concerto e musicista, “Persona squisita, squiiiisita” , e ripetendo
“squisiiiiiita” ammorbidisci il grugno e protendi il collo dal bordo della giacca;
ripeti “Valentino squisito” e pare che
scandendo il nome Valentino non esista altro Valentino, pare che la realtà di
quel nome non coincida con una pluralità
di esseri umani ma soltanto con Valentino Paraventi. Così la conversazione
muore mentre tu ti crogioli nel tuo involucro avvolto dai tuoi soffici indumenti.
Ma una sera a cena mi accorgo che la corazza e il carapace si dissolvono e il
grugno si smussa. Nella luce del
tramonto vedo il tuo viso infrangersi nelle mille pieghe di un sorriso inatteso
e tutto te stesso diventare un essere variabile come i colori del tramonto; non
sei più il blindato Armando ma ti muovi come un illusionista che si dilata e si
sgonfia, poi si piega e s’inarca rigirando le mani sugli sguardi di tutti i
commensali. Dal bordo della tua giacca fuoriesce un collo lungo e flessibile
come quello di una tartaruga che allungandosi distende le grinze. È un collo sorprendente che si prolunga in direzione
di un altro viso con la stessa lentezza della tartaruga e con un’estensione che
sembra non avere fine; un cordone elastico che porta te stesso in prossimità di
un altro volto in un lungo intervallo di tempo durante il quale il tuo viso si
allarga in un sorriso riconoscente. La tua
larga dentiera e le tue labbra si ampliano e io caro amico fraterno mi meraviglio
della tua espressione che nell’arco di mezz’ora è diventata l’emblema vivente
della comprensione del prossimo; tutte le tue aperture, la bocca, le narici, e
orecchie e anche gli occhi, diventati due grandi vuoti lucenti, manifestano
curiosità e riconoscenza.
Il tuo avvicinamento progressivo agli altri tiene
conto degli spazi di ognuno e quando ti allunghi verso di me riconosco l’Armando
che a volte scompare dietro le sue corazze e che poi ritorna morbido ed
entusiasta. È l’Armando metamorfico che, protendendo il collo, si trasforma da
uomo a uomo-tartaruga e poi a essere prolungato con gli occhi che brillano di
bianco e infine ad acrobata fantastico che si svincola e si allunga fra un
ospite e l’altro. Sì, l’acrobata che
tanti anni fa entrava nel grande salotto di famiglia e approfittando di una
strana articolazione dell’anca destra ideava passi obliqui, capriole diagonali,
salti e contatti aerei tra la punta dell’alluce destro e il lobo dell’orecchio
sinistro. Soltanto in quel salotto dissolvevi le corazze che già si andavano
formando per mascherare la tua strana articolazione e la conseguente rotazione
discontinua dell’anca.
Quand’eri studente, il tuo strano passo con l’anca destra
che roteava di tre quarti, poi si fermava e infine con uno scatto terminava la
rotazione completa, veniva osservata da tutti; nessuno ti guardava negli occhi,
tutti guardavano quel giro dell’anca che si concludeva con uno scatto e uno
schiocco. Allora, da un giorno all’altro, cominciasti a dedicare un tempo fisso
per modellare un passo simile a quello degli altri; ogni sera alla stessa ora
entravi nel salotto e inventavi degli esercizi ginnici per sviluppare delle
fasce di muscoli e di nervi che attenuassero quella strana rotazione fino a
renderla quasi invisibile; poi alla fine della ginnastica girovagavi tra le
poltrone, il divano e il comò con indosso delle maglie sintetiche che ti
aiutavano a raddrizzare l’andatura. Ma via via che assumevi un’andatura normale,
si formavano sul dorso un carapace e sul davanti un torace curvo che si
congiungevano ai lati come due corazze di protezione. Quando il passo diventò
un passo simile a quello degli altri, procedevi con i fianchi lineari e inflessibili,
il collo che fuoriusciva dal bordo delle due corazze; poi anche il tuo parlare
si modificò diventando perentorio e secco, disseminato di opinioni comuni che
si concludevano con un grugnito e un improvviso indurimento del mento. Eri
riuscito a farti guardare negli occhi, ma nel momento della massima
soddisfazione, quando ormai scambiavi sguardi e assensi con tutti i tuoi
compagni di scuola, sentisti il desiderio irrefrenabile di rientrare nel
salotto di famiglia e smuovere quelle due corazze da cui fuoriusciva il tuo
capo e il tuo collo. Allora di sera mi invitavi nel salotto con tutti i lampadari
accesi e inventavi acrobazie, volteggi e voli da un
lampadario all’altro; poi, mentre volavi e rimpiombavi con una capriola sul
pavimento, sembrava che il carapace si dissolvesse e che una luce ti brillasse
negli occhi, la stessa luce che c’è adesso nel tuo viso che mi guarda. E via
via che ti avvicini e la voglia di sorridere ti ritrae le labbra sulle tue
vaste gengive mi accorgo che quella luce tante volte l’ho vista e altrettante l’ho
dimenticata. Infatti, guardandoti ora tra i riflessi della sera, mi accorgo che
quel tuo sguardo è sempre esistito; è uno sguardo felice e inerme, uno sguardo che
in passato ho visto velarsi di paure e di ombre e poi nascondersi.
Spesso quando ti guardavo vedevo un susseguirsi
di buio, di luce e di espressioni di sfida che sottendevano il pensiero “tu sei l’inadeguato al mondo, io sono l’adatto”; e forse la stessa confusione
vedevi tu nel mio sguardo. Ma poi d’improvviso riappariva quel brillio che tornava
come un incantesimo nel tuo sguardo di ragazzo e che ora riconosco tra una
galassia di occhi che si ricercano tra i colori del tramonto e i fumi
dell’alcol.
Soltanto adesso mi accorgo quanto sei cambiato nei
modi, nella voce e nelle espressioni, una vera e propria trasformazione, la
trasformazione dell’Armando; negli ultimi anni il tuo collo si allunga sempre
di più e il tuo sguardo è sempre più coinvolgente; le ombre compaiono per
frazioni di secondo e la luce degli occhi e l’argento dei capelli irradiano sul
tuo viso un chiarore, un’aureola oscillante che ti segue ovunque. Ci sono
ancora il carapace e la corazza, ma il grugno è scomparso, si è modellato in un
mento liscio e tondo. Il grugnito si è trasformato in una prolungata risata che fuoriesce dalla larga
dentiera che si allarga come una grata aperta e liberale, un lasciapassare di suoni e
di sentimenti; ogni tanto le tue frasi cosparse di erre arrotondate e le
tue risate attraversate da lunghe aspirazioni e infinite espirazioni sono inframezzate da versi animaleschi che
rimandano al ricordo dell’Armando di una volta; ma il fantasma che ti
perseguitava sembra essersi dileguato e ormai ti senti parte integrante non soltanto della
tua vecchia classe di scuola, ma anche di un’ immaginaria comunità internazionale, una società celeste in cui i cittadini aleggiano tra le camere e gli ingressi al di
sopra delle cose del mondo.
BIONOTA
Luigi Ananìa si laurea in scienze agrarie presso l'università di Firenze nel 1986. Da allora scrive racconti e fa vino rosso a Montalcino presso l'azienda La Torre. Con la casa editrice Pequod ha pubblicato Il signor Ma (2000) e Cos'è questa nuvola (2011). Presso le edizioni DeriveApprodi ha curato l'antologia di racconti sul vino Confesso che ho bevuto (insieme a Silverio Novelli, 2004) e ha pubblicato Avant'ieri, storie di emigrazione tra la Sila, Torino e Buenos Aires (2009), Pixel, la realtà oltre lo schermo dei media (di nuovo insieme a Silverio Novelli 2012), Storie di volti e parole (2016) e Bestiario umano (2021), ambedue in collaborazione con Nicola Boccianti. Ha scritto racconti per Il semplice, Maltese narrazioni e Nuovi Argomenti.


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