Norma o decenza? Sulla lingua dei linguisti - Parte I (LINGUA ITALIANA) ~ di Gualberto Alvino - TeclaXXI
LINGUA ITALIANA
Gualberto Alvino
Norma o decenza? – Sulla lingua dei linguisti
Parte Prima
immagine creata con Freepik da un'idea di Jacqueline Spaccini©2025
Nel suo bel saggio sul Sentimento della norma linguistica nell’Italia di oggi,[1]
largo d’analisi e dati preziosi tanto allo specialista che all’amatore di
lingua, Luca Serianni si soffermò su un mio scritto[2]
additandone l’«assunto di partenza» nella richiesta agli studiosi di cose
linguistiche d’«una prosa stilisticamente elaborata e non semplicemente chiara
e corretta», forzandone così l’interpretazione. Ma diamogli senz’altro la
parola:
In
anni più recenti un raffinato studioso di letteratura moderna, noto in
particolare come editore delle impervie pagine di Antonio Pizzuto, ha scritto
anch’egli in tono semiserio un articolo sulla sciatteria linguistica di «un
drappello di celeberrimi linguisti italiani in servizio permanente effettivo il
cui ingegno e magistero scientifico nessuno ardirà porre in dubbio». Più che
discutere l’assunto di partenza, e senza negare la fondatezza di alcuni rilievi
particolari, è interessante notare come una delle imputazioni più frequenti
sia, ancora una volta, la ridondanza, nella fattispecie la ripetizione della
stessa parola o di parole corradicali o, come scrive più forbitamente il
critico, il «ripudio dell’ellitticità non meno indotto da vocazione professorale
alla ridondanza che da scarsa attitudine in materia di tecniche sostitutive».
Uno dei brani incriminati è il seguente (il grassetto indica per l’appunto le
ripetizioni, il corsivo un commento di Alvino): «La situazione italiana è molto diversa. Quando si parla
di dialetti italiani non ci si riferisce a diverse
varietà di italiano: i dialetti italiani differiscono
fra loro, e dalla lingua nazionale, tanto
che quelli che parlano dialetti diversi possono non
essere in grado di capirsi reciprocamente [l’omissione
dell’avverbio avrebbe forse nociuto alla trasparenza del dettato?]. I dialetti possono differire l’uno
dall’altro tanto quanto il francese differisce dallo spagnolo».
Si tratta di un passo estratto da
un’opera di Anna Laura e Giulio Lepschy, La
lingua italiana. Storia, varietà dell’uso, grammatica, Milano, Bompiani,
1995. Personalmente, avrei qualcosa da eccepire sulla presentazione che, in
vari interventi, i Lepschy hanno dato sul rapporto tra lingua e dialetti in
Italia. Ma non trovo nulla da ridire sul modo di scrivere, funzionale — proprio
attraverso l’apparente “ridondanza” informativa — a mettere in adeguato rilievo
l’assunto radicale da loro sostenuto: cioè, che tra i dialetti dell’italiano ci
sia la stessa differenza che sussiste tra due lingue diverse, sia pure
derivanti dallo stesso ceppo, come il francese e lo spagnolo. Paradossalmente,
anche uno scrivente estremamente avvertito dei vari livelli d’uso della lingua,
come Alvino, finisce col trascurare la differenza tra un manuale (come quello
dei Lepschy), di taglio informativo e destinato a un largo pubblico, e un
saggio letterario, rivolto ai pochi che condividono l’orizzonte culturale
dell’autore; solo nel secondo ci si può ben permettere, aristocraticamente,
un’elaborazione stilistica che riuscirebbe persino fuor di luogo in un testo di
studio.[3]
Non ho nessuna difficoltà a riconoscere
d’aver sempre avuto in odio qualunque mimesi del parlato e di rabbrividire di
fronte alle infingardaggini di certi scriventi, perfino nei ricettarî e nelle
istruzioni di pronto soccorso; ma sarei più quadrupede di quanto mi ritenga se
osassi allevare le pretese affibbiatemi dal mio cortese critico. Quando mai
avrei chiesto ai linguisti girandole d’immagini, sconvolgenti invenzioni, mirabili
iperboli?
L’«assunto di partenza» del mio saggio era
tutto nel seguente quesito: «chi vorrà asserire che una forma ottusa, una
coscienza linguistica annullata può ugualmente veicolare acume, intuizione,
originalità in fatto proprio di lingua? In termini più espliciti: di quale
attendibilità critico-scientifica potrà mai godere il noncurante della propria
stessa pagina?»;[4]
quanto dire: il privo d’orecchio non può che essere un musicista da strapazzo,
o un pessimo analista di musica. Delirante sillogismo? Asserto scandaloso? Non
credo, visto il franco consenso tributato al mio scritto da molti addetti ai
lavori. Del resto, il ragionamento mi sembra lapalissiano: chi, come i Lepschy,
scrive «capirsi reciprocamente» in luogo di «capirsi» non mostra forse
d’ignorare che il concetto di reciprocità è racchiuso nella particella
pronominale in coda al verbo e che dunque l’avverbio riesce — oltreché
insoffribilmente ridondante (non sarebbe la fine del mondo) — affatto
inaccettabile da qualsiasi riguardo? Mi rifiuto di credere che l’autore della
più celebrata grammatica italiana oggi in circolazione, scrivente sobrio lucido
sorvegliato, irreprensibile perfino nei commerci epistolarî, non trovasse
«nulla da ridire»; ma santo cielo, in quale sperduta contrada italiana esistono
parlanti estrosi a tal segno da concepir frasi come «Quei due non sono in grado
di capirsi reciprocamente», «Allora? ci siamo capiti reciprocamente?» o
d’architettare astrusi congegni del tipo «La situazione italiana è molto
diversa. Quando si parla di dialetti italiani non ci si riferisce a diverse
varietà di italiano: i dialetti italiani differiscono fra loro, e dalla lingua
nazionale, tanto che quelli che parlano dialetti diversi possono non essere in
grado di capirsi reciprocamente. I dialetti possono differire l’uno dall’altro
tanto quanto il francese differisce dallo spagnolo» per dire semplicemente che
tra i dialetti italiani corre la stessa differenza che separa due lingue
(perché aggiungere diverse? due
lingue non possono certo essere uguali), sia pur derivanti dal medesimo ceppo,
come il francese e lo spagnolo?
Linguaggio aristocratico? Suprema
elaborazione stilistica? Per carità! Solo un grano di buon senso, di
cognizione, e soprattutto di decenza. Non ho mai chiesto altro ai linguisti.
Doti, si badi, strettamente correlate, perché chi non sa scrivere non conosce
la lingua, e chi ignora la lingua non può essere in grado di scriverne (né di
pensare in modo lucido e razionale, o di pensare tout court). Prova ne sia che il citato manuale è infarcito di
notazioni e avvertenze stravaganti come queste:
a) «In certi casi la stessa parola si può
trovare con una consonante singola e con una doppia; per es. […] filossera
e fillossera, melone e mellone» [p.
83];
b) «la
specie, le specie; la superficie, le superficie (si incontrano anche i plurali le speci, le superfici,
considerati meno corretti)» [p. 101];
c) «ma l’uso di voi sta diminuendo, e a uno studente straniero può convenire
limitarsi a lei per i conoscenti, e
al tu per amici e colleghi» [p. 107);
d) «Perfino con verbi pronominali in cui la
forma senza pronome non sarebbe ambigua, occorre dire vogliono che tu ti penta e non vogliono
che ti penta» [p. 132];
e) «mi gli presentano
e gli mi presentano
possono entrambi valere “presentano me a lui”. Questi nessi sono comunque duri
e generalmente evitati» [p. 181];
cui
opponevo nel mio saggio le seguenti osservazioni:
a) Si vorrà porre la prima coppia (costituita da
pure varianti di forma) sull’identico piano della seconda (lingua vs dialetto)?
b) con buona pace dei Lepschy, il plurale le superficie è oramai fuori corso da
molti decennî, avendo lasciato libero campo alla forma da essi
inesplicabilmente indicata come «meno corretta»;
c) l’uso dell’allocutivo voi non sta diminuendo: è completamente scomparso, e lo «studente
straniero» avrebbe tutto il diritto di apprendere che esso sopravvive
esclusivamente nel parlato informale del Meridione;
d) non è chi non colga l’assoluta inconsistenza
del precetto (tanto più singolare in quanto proveniente dai più acri oppositori
della norma linguistica), vista la perfetta equivalenza sia grammaticale che
semantica delle due proposizioni;
e) «generalmente»? quei nessi sono accuratamente
evitati nella lingua italiana, e il prospettarne anche soltanto una remotissima
plausibilità in un’opera d’uso eminentemente pratico[5]
non può non ingenerare la più sviante, antipedagogica babilonia.
[5] Anna
Laura e Giulio Lepschy, La lingua
italiana, Milano, Bompiani, 1981, p. 2: «Il nostro scopo è di arricchire la
consapevolezza dello studente italiano e di dare allo studente straniero la
possibilità di capire un’ampia gamma di espressioni, scegliendo quelle per lui
più adatte da usare nel parlato o nello scritto».
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GUALBERTO ALVINO
BIONOTA
Scrittore e critico letterario, Gualberto Alvino si è particolarmente dedicato agli irregolari della letteratura italiana, da Consolo a Bufalino, da Sinigaglia a D’Arrigo, da Balestrini a Pizzuto. Suoi scritti poetici, narrativi, critici e filologici appaiono regolarmente in riviste accademiche e militanti, di alcune delle quali è redattore e referente scientifico. Dirige la collana «Vallecchi / Italianistica» e collabora stabilmente con l’Istituto della Enciclopedia Italiana (Treccani) con recensioni e rubriche.


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