LE STORIE DELL'ARTE DI LUCILLA MELONI (ARTE)

 ARTE

Lucilla Meloni

Le storie dell’arte

 



Nel 2009 il convegno Arte e memoria dell’arte, curato da Patrizia Mania e Maria Ida Catalano all’interno della Scuola di specializzazione in Tutela e Valorizzazione dei Beni Storico Artistici dell’Università della Tuscia, i cui Atti furono pubblicati nel 2011 dalla casa editrice Gli Ori, come indica il titolo, rifletteva sul ruolo della memoria per la costruzione della storia dell’arte.

Metteva altresì in evidenza attraverso i diversi contributi storico-critici come le “amnesie” della disciplina abbiano condannato all’oblio, a secondo del diverso clima culturale in essere, molte ricerche che sono state riscoperte successivamente.

Parlare di storie dell’arte contemporanee significa allora porsi provvisoriamente a latere di ciò che è stato riconosciuto come fondamentale dalla storia e dalla critica d’arte, per volgere lo sguardo verso le esperienze degli artisti o dei movimenti che nella loro epoca o successivamente non hanno ricevuto lo stesso apprezzamento, per finire in un cono d’ombra.

Senza mettere in discussione la grandezza di quei lavori che, riprendendo e traslando il pensiero elaborato da Michel Foucault nel saggio del 1969 Qu’est-ce qu’un auteur, sono instauratori di “discorsività” poiché le loro opere: “hanno prodotto [...] la possibilità e la regola di formazione di altri testi”,  né la centralità delle vicende che sono state sostenute dalla critica d’arte e dal sistema espositivo a loro contemporaneo, appare necessario scandagliare nel vasto e molteplice territorio delle arti visive per recuperare quello che una determinata memoria ha scelto di non ricordare.  

Un modus operandi, quest’ultimo, che ha caratterizzato importanti recenti esposizioni, tra cui la documenta* di Kassel e la Biennale di Venezia. Proprio la scorsa Biennale di Venezia curata nel 2022 da Cecilia Alemani e intitolata Il latte dei sogni ha portato alla ribalta la produzione di molte autrici e autori poco conosciuti.   

Come esempio emblematico dell’esclusione dalla storia dell’arte, non solo da quella antica ma anche da quella contemporanea, si pensi al destino toccato a molte artiste, misconosciute o poco riconosciute nel loro tempo; misfatto che soltanto recentemente, dopo accalorate battaglie combattute all’interno del sistema espositivo e editoriale fin dagli anni Settanta del Novecento e con l’emergere di nuove generazioni in un mutato clima sociale, nel mondo occidentale è stato in parte riparato.

Esiste finalmente una cospicua letteratura sulle molte donne operanti negli anni Settanta.

Sono gli anni in cui in Italia, così come negli Stati Uniti e in altri Paesi occidentali, si consolida la cultura femminista: nel 1970 esce il Manifesto di Rivola Femminile di Carla Lonzi, Carla Accardi, Elvira Benotti, a cui seguiranno le edizioni degli Scritti di Rivolta Femminile; nel 1973 Adele Cambria fonda la rivista “Effe” per lavorare, come vi si legge: “su una stampa non più underground, ma alternativa”; nel 1976 Carla Accardi con Suzanne Santoro, Silvia Truppi, Eva Menzio, Teresa Montemaggiori e altre artiste apre a Roma la Cooperativa di Via del Beato Angelico, volta non solo a presentare al pubblico opere di autrici ma a svolgere un lavoro di indagine su quello che la cultura patriarcale non aveva permesso che venisse alla luce, per una riscrittura della storia dell’arte. Stesso intento perseguito dall’artista Simona Weller che nello stesso anno pubblica Il Complesso di Michelangelo. Ricerca sul contributo dato dalla donna all’arte del Novecento.

Tuttavia, in quello stesso decennio così contestatario e rivoluzionario, la XXXVII Biennale di Venezia del 1976, pur dando molto spazio al tema dell’impegno sociale nella sezione curata da Enrico Crispolti e Raffaele De Grada Ambiente come sociale e mettendo in luce il rapporto tra avanguardia e neoavanguardia nella mostra curata da Germano Celant Ambiente/Arte. Dal Futurismo alla Body Art, ospitava una esigua presenza femminile.

Si è dovuta attendere la XXXVIII Biennale di Venezia, nel 1978, per avere una folta partecipazione di artiste all’interno della manifestazione: sarà finalmente la rassegna Materializzazione del linguaggio curata da Mirella Bentivoglio, a proporre le sperimentazioni verbo-visive di ottanta autrici.

Tra i molti casi adombrati, si può citare anche l’arte programmata italiana, che dopo un momento di gloria coincidente con gli inizi degli anni Sessanta e con il boom economico, dalla metà del decennio successivo è caduta in una sorta di oblio, che ha fatto sì che nei manuali di Storia dell’arte questa fosse citata “en passant”.

La storia dell’arte cinetica e programmata, che vede protagonisti il milanese Gruppo T (Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo, Gabriele Devecchi, Grazia Varisco) e il padovano Gruppo N (Alberto Biasi, Ennio Chiggio, Toni Costa, Manfredo Massironi) si inserisce in quella più vasta dei gruppi europei che si formano tra la fine degli anni Cinquanta e i primi del Sessanta del secolo scorso.

Formatisi tra il 1959 e il 1960 con una chiara piattaforma programmatica resa pubblica nelle loro dichiarazioni, i gruppi rifiutano il principio di autorialità. Gli artisti fanno propria la metodologia del design e privilegiano, teoricamente, un’arte moltiplicata e moltiplicabile. Critici verso il sistema dell’arte, si definiscono “operatori estetici” e immaginano una produzione destinata a un largo pubblico; prendono le mosse dalla Fenomenologia e dalla Cibernetica ma sono interessati anche ai nuovi modelli teorici dell’epoca, come la Teoria dell’informazione. Producono oggetti cinetici e programmati manipolabili dal fruitore, a intervento manuale o meccanico che, in variazione o in mutamento, generano “nella dialettica di caso e programma” una struttura provvisoria: qualcosa che, per citare ancora Umberto Eco, “si fa mentre noi lo ispezioniamo”.

Nell’ambito della ricerca visiva indagano il principio di gradimento, l’organizzazione interna delle forme, l’instabilità percettiva, la persistenza delle immagini sulla retina, la variazione dell’immagine con il movimento eccentrico, la sua metamorfosi attraverso l’interferenza e la diffrazione della luce.

Il movimento partecipa alle più importanti mostre nazionali e internazionali dell’epoca: dalle diverse edizioni di Nuova Tendenza tenutesi a Zagabria, che raccoglievano l’avanguardia cinetica e programmata, alla XXXII Biennale di Venezia del 1964 con sale personali, a Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960/1970, curata da Achille Bonito Oliva a Roma al Palazzo delle Esposizioni nel 1970 e molte delle sue opere entrano subito nelle collezioni della Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Sebbene abbia avuto come sostenitori autori quali Umberto Eco che presenta in catalogo la mostra fondativa Arte programmata arte cinetica opere moltiplicate opera aperta tenutasi nel negozio Olivetti a Milano nel maggio del 1962 e Luciano Anceschi - attraverso i contributi dedicati all’argomento sulla rivista “il verri”- e molti storici dell’arte, da Umbro Apollonio a Giuseppe Gatt, a Gillo Dorfles, Giulio Carlo Argan, a Filiberto Menna, a Lea Vergine, a Guido Ballo, a Enrico Crispolti, solo per restare in ambito italiano, da un certo punto in poi, con l’affermarsi di altri universi poetici – tra Pop Art e Arte Povera -  sull’arte programmata è calato il silenzio.  

All’amnesia della storia dell’arte durata dalla metà degli anni Settanta alla seconda metà degli anni Novanta (con l’eccezione della mostra ordinata da Lea Vergine nel 1983 a Milano Arte programmata e cinetica 1953-1963. L’ultima avanguardia), ha fatto seguito una rivisitazione del movimento attraverso esposizioni, cataloghi, monografie e acquisizioni museali e, non ultimo, un ritorno massiccio degli “oggetti” dell’arte programmata alle fiere d’arte contemporanea, con lo sviluppo di un nuovo collezionismo.

Interesse nato non per caso con l’emergere dell’arte tecnologica e interattiva, con il recupero del lavoro in comune da parte di molti giovani artisti e delle pratiche partecipative: ambedue aspetti fondamentali dell’arte programmata, che l’hanno resa di nuovo attuale negli anni Novanta.

Proprio perché ogni narrazione, al di là dell’indiscussa oggettività dei fatti, è figlia del gusto di un’epoca, a nuovi sguardi corrispondono nuove interpretazioni; si pensi all’importanza assunta da Le Vite di Giorgio Vasari per l’ermeneutica dell’arte del Rinascimento o all’alterna fortuna toccata nel corso del tempo al Manierismo, alla pittura del Seicento o all’Ottocento italiano.

È pertanto imprescindibile riandare alle fonti, scandagliare e cercare e riproporre ciò che pur non essendo capitale caratterizza un preciso momento, poiché la storia dell’arte, come tutte le storie, non può essere concepita come un blocco unitario e ordinato composto dalla successione di tasselli; il rimescolarli, come esercizio della critica, può infatti portare alla luce quello che è stato adombrato.


 * mostra d'arte moderna e contemporanea che si tiene ogni cinque anni a Cassel (Hesse).

 

 LUCILLA MELONI 


BIONOTA
 

Lucilla Meloni insegna Storia dell’Arte Contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Roma. Dal 2011 al 2016 ha diretto l’Accademia di Belle Arti di Carrara. Studiosa dell’Arte programmata, si è interessata agli aspetti partecipativi messi in campo dalla ricerca visiva fin dagli anni Sessanta del Novecento e alle tematiche relative all’arte di gruppo. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Commenti

  1. Uno sguardo diverso sulla problematica con una bella analisi

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