VENEZIA, ULTIMI MITI di XAVIER TABET (STORIA)

 

STORIA – VENEZIA

 

Xavier Tabet

 

Venezia, ultimi miti

 



   Per capire oggi non solo la storia immaginaria di Venezia, ma anche la sua storia vera e propria, occorre sicuramente partire dalla caduta della aristocratica Serenissima nel 1797. Attorno alla morte politica di Venezia si opera la trasformazione del mito politico di Venezia d’antico regime in un mito estetico, letterario e artistico nell’Ottocento, quando la città rappresenta la patria ideale, in Europa, di una nuova aristocrazia: quella degli esteti, per i quali l’arte diviene una religione. All’epoca in cui Venezia incarna l’incosciente ideale degli intellettuali e degli artisti a disagio nelle città moderne e industriali, sulla laguna si consuma il gioco ambiguo di un’aristocrazia logorata da una morte millenaria e di una morte portatrice di un’aristocrazia immaginaria. Si passa insomma dalla morte di Venezia, la sua morte politica, alla nascita delle mitologie romantiche e poi decadenti della morte a Venezia, quando essa diventa città della resistenza al progresso, della svalutazione dei valori del mondo e dell’industria, della scienza e della tecnica. Ma anche città della resurrezione, di un nuovo slancio vitale e di una nuova nietsceanna potenza.

   Questo mito ottocentesco non sopravvive tuttavia alla prima guerra mondiale. Negli anni Venti, Venezia fa oramai parte, in  Europa, del « mondo di ieri ». In Europa, Venezia cessa di essere la posta in gioco di un dibattito politico che verte sull’interpretazione della sua storia e sul senso autentico e immaginario della sua aristocrazia. Si può quindi affermare che la nazionalizzazione di Venezia, la sua vera  italianizzazione, si compie soltanto attorno alla Prima guerra mondiale, sotto l’impulso della destra nazionalista (e modernista) veneziana. Una volta tramontata l’epoca dei miti europei, la grande Venezia, secondo l’espressione italiana di inizio Novecento, viene incitata a ricollegarsi con il suo passato di antica regina dell’Adriatico, e allo stesso tempo a proiettarsi nella modernità. Questo attraverso l’elaborazione di una nuova idea, dannunziana, della « città di vita » che si costruisce in reazione alle visioni degli stranieri, ritenute immobiliste e passatiste.

   Mentre la guerra accelera il passaggio dal patriotismo risorgimentale ad un nuovo nazionalismo, ben più aggressivo, la nuova ideologia marittima della venezianità rappresenta l’apporto specifico di Venezia alla cultura nazional-fascista, in una città nella quale il fascismo conserverà sempre una tonalità più dannunziana che mussoliniana: quella di un fascismo d’ordine, più aristocratico e capitalista che plebeo, ma anche più marittimo che rurale, più adriatico e balcanico che mediterraneo e africano. Un altro lascito essenziale del nazionalismo veneziano alla cultura del Regime consiste nell’idea che Venezia deve adattarsi alla modernità. Questa modernità di Venezia viene associata al suo nuovo ruolo marittimo, attraverso la realizzazione di Porto Marghera, a partire dal 1917. Il mito modernista porta ad una reinvenzione di Venezia, in particolare della tradizione marinara e dei fasti veneziani del passato. Nei ruggenti anni Trenta, la nuova Venezia, come la si chiama allora, viene pensata allo stesso tempo come moderna e antica, terrestre e marittima.

   I miti, ivi compresi i miti moderni, sono delle costruzioni, o ricostruzioni, semplificatrici, totalizzanti. Sono delle costruzioni artificiali piuttosto deboli, da un punto di vista concettuale, della realtà e della storia. Tuttavia, grazie appunto alla loro assenza di complessità, servono ad agire sulla storia del tempo presente, a darle un orientamento. Ora, sarà appunto in nome dell’esaltazione della secolare tradizione marittima veneziana che si accentuerà paradossalmente la svolta, il riorientamento, di Venezia verso la terraferma : quella di Marghera, ma anche di Mestre, incorporata nel 1926 al suo Comune. Questo progetto andrà di pari passo con l’assunzione del turismo e della cultura come elemento centrale dell’economia di Venezia. Durante il Ventennio, la nuova élite, quella di Giuseppe Volpi  e di Vittorio Cini, intende certo adattare Venezia alla modernità, ma anche salvaguardarla religiosamente in quanto città delle arti, dello spettacolo e della cultura. Inoltre, altra cosa fondamentale per il destino della città, essa procede parallelamente con una vera e propria «bonifica umana». Una prima selezione della popolazione è avviata in effetti proprio durante gli anni del Regime, quando dal 1931 al 1939 ben dodicimila residenti lasciano Venezia insulare, con l’aumento dei fitti nel centro. Il progetto punta a espellere verso la terraferma le classi medio basse, a depurare la città storica dalla presenza ingombrante delle classi popolari.

  Dopo il 1945, sarà la visione orgogliosa della venezianità a non funzionare più da un punto di vista ideologico. Venezia diventa allora un problema, : Il problema di Venezia, come si intitola il grande convegno organizzato nel 1962 dalla Fondazione Cini. Poco dopo, la terribile inondazione del 1966 viene sentita come la testimonianza della possibilità della sparizione vera e propria della città (un trauma vissuto di nuovo nel 2019). L’acqua alta riorienta la discussione sul destino di Venezia. Porto Marghera diventa, negli anni Sessanta, un capro espiatorio, trasformandosi da salvezza economica della città a incombent­­­­­­­­­­­­­e minaccia per la sua sopravvivenza. È da allora che la questione della salvaguardia della città costituisce forse l’ultimo mito di Venezia, quello di Sauver Venise, come si intitola nel 1969 il Rapport dell’Unesco. Venezia si trasforma in « metafora planetaria », quella dei rischi che l’innalzamento del livello delle acque fa correre al pianeta.

   Nel dopoguerra, in seno alla classe dirigente veneziana, teorie e i miti nazional-fascisti saranno tuttavia semplicemente messi nel dimenticatoio, senza una revisione critica. Si assiste, sotto il patrocinio delle gerarchie ecclesiastiche, alla tacita riabilitazione delle visioni romantiche e decadenti di Venezia quale città d’arte fragile da preservare. Viene attuata una sua « denazionalizzazione », con l’elaborazione, poco a poco, dell’immagine di una Venezia fuori dalla storia dopo la sua annessione al Regno d’Italia, o perlomeno di una città immersa in problemi unicamente suoi. Eppure, nella realtà dei fatti, le giunte locali, prima a guida comunista tra il 1946 e il 1951, poi democristiane fino alla metà degli anni Settanta, non fanno che proseguire il modello di sviluppo industriale voluto dal gruppo dirigente precedente. Negli anni Sessanta viene creato addirittura un secondo polo industriale a Marghera, prima che venga abbandonato, nel decennio successivo, il progetto di un terzo polo, quando l’acqua alta del 1966 segna la vittoria del partito della conservazione.

  Nell’immediato dopoguerra, per via degli sfollati provenienti dall’esodo istriano, la popolazione veneziana giunge a quasi duecentomila abitanti (mentre oggi, come sappiamo, la «città insulare», secondo il termine attuale, si arresta a circa cinquantamila). Ma viene presto accentuato, attraverso varie fasi, il processo di sostituzione selettiva degli abitanti. Negli anni Cinquanta e Sessanta si assiste in effetti all’espulsione parziale delle classi basse e medio basse verso la terraferma, per via degli affitti e del degrado dell’abitato. Questo fenomeno continua, negli anni Settanta e Ottanta, con l’esilio forzato delle classi a bassissimo reddito, espulse sulla scia dei restauri delle case che fanno ulteriormente salire i prezzi. Nei decenni a cavallo del nuovo secolo si compie la definitiva destinazione di Venezia alla monocultura turistica, all’epoca del turismo diventato fatto sociale globale. Oggi, con circa trenta milioni di visitatori all’anno, e dopo la riconversione dell’intero tessuto urbano nella direzione dell’albergo diffuso, la città iperspremuta è ormai miniera d’oro, risorsa interamente appropriabile e monetizzabile. Ridotta a brand, a simulacro, essa rischia di diventare sempre più la preda di un’onnivora economia carnevalesca di massa.

  Al momento della pandemia, Venezia è stata messa di fronte alle sue impasses contemporanee, quando la città, svuotata dei turisti, è stata obbligata a confrontarsi con la sua « nuda vita ». Ma i problemi dell’overturismo sono poi tornati, al punto che sono previsti, come sappiamo, dei veri e propri cancelli per operare la selezione, il monitoraggio, e la sorveglianza di quelli che potranno visitarla. Questa soluzione corrisponde allo spirito delle nostre società di controllo, ma non risolve il problema di fondo di Venezia, che è anche quello della perdita della popolazione, l’altro rovescio della medaglia della monocultura turistica. Va da sé che tutti questi fenomeni attuali non sono propri solo di Venezia. Ma non vi è dubbio, come ha scritto di recente Paola Somma, che «è a Venezia che l’esperimento di distruggere una comunità per venderne le pietre è stato condotto con più sistematicità e compiutezza» (Privati di Venezia. La città di tutti per il profitto di pochi, 2021). Quanto al  mito attuale della salvaguardia, uno dei suoi rischi è quello di una città salvata dalle acque ma ridotta a una conchiglia vuota, con l’unica risorsa, diventata mortifera, del turismo.

  Si può quindi certo ritenere che Venezia è un caso banale, o troppo noto, di città mito. Rappresenta tuttavia un caso interessante proprio in quanto costituisce un caso limite: quello dei rischi della riduzione della città a mercato e a immagine, a « non luogo » della postmodernità.    

   Venezia rimane insomma un oggetto indispensabile per pensare la città come bene comune, per pensare cioè sia il diritto alla città sia la politica della città.

    Ma forse anche per pensare la politica tout court. 

XAVIER TABET 

BIONOTA

Xavier Tabet est professeur au département d’études italiennes de l’Université Paris 8. Ses travaux

portent sur les liens entre la littérature, la politique et le droit, en Italie, du XVIIIe au XXe siècle. Il

a publié des ouvrages sur les interprétations et usages contemporains de Machiavelli, sur le mythe

de Venise de l’ancien régime à nos jours, et sur le droit pénal de Beccaria à Lombroso.


 

Commenti