L'UOMO CHE AMAVA LE DONNE di François Truffaut (1977) di Alessandro Iovinelli (CINEMA D'ANTAN)

 CINEMA D’ANTAN

Alessandro Iovinelli

L’uomo che amava le donne di François Truffaut (1977)


   

     Come ogni cinéphile che si rispetti, anch’io ho un olimpo personale, una sorta di Hall of Fame in cui annovero quei 5 o 6 grandi registi, che per me hanno assunto il valore non solo di maestri del cinema, ma si sono trasformati anche in un vero e proprio canone estetico. Tra i miei punti di riferimento, un posto speciale è occupato senz'altro da François Truffaut (Parigi, 1932 – 1984). Ho sempre amato le sue prove d’autore (e perfino di attore). Per qualche suo film la definizione di capolavoro mi pare appropriata. Nella maggior parte dei casi, il risultato fu comunque buono, se non ottimo. E perfino nei rari casi in cui il film non mi convinse del tutto, vi ho trovato sempre qualcosa, fosse una sola scena, che me lo rendesse caro e indimenticabile.

     Ma devo aggiungere che, pur non avendolo conosciuto di persona, l’ho sempre considerato un amico, del quale conoscevo la filmografia completa, la vita privata e finanche il carattere, tanto da poter decifrare le implicazioni autobiografiche celate all’interno dei suoi film. Che ci sono sempre nel suo cinema, fin dalla straordinaria opera prima: I quattrocento colpi. È un film per il quale, se non possiamo usare la categoria di autofiction, ci sentiamo tuttavia autorizzati a vedere il protagonista, il piccolo Antoine Doinel (interpretato dal mitico Jean-Pierre Léaud) come un personaggio transfert del regista (infatti tornerà in un ciclo di film a lui dedicati).        

     Se non ci sono dubbi sul fatto che Antoine Doinel sia una proiezione autobiografica dell’infanzia di Truffaut, lo stesso vale per Bertrand Morane, il protagonista dell’Uomo che amava le donne.    

     I due personaggi non solo si somigliano, ma hanno qualcosa che li accomuna. Antonie Doinel, nei Quattrocento colpi, e Bertrand Morane, nei suoi ricordi d’infanzia inseriti all’interno dell’Uomo che amava le donne, condividono la stessa esperienza traumatica: entrambi un giorno, per caso, hanno sorpreso la madre mentre si baciava con un uomo, che non era il padre (il quale tuttavia non era nemmeno il vero padre), bensì un amante, uno dei tanti. E lo stesso Truffaut ha rivelato di non essere il figlio del marito della madre, bensì il frutto di una sua relazione extraconiugale.

     Non bisogna per forza essere seguaci di Sigmund Freud e della psicoanalisi, per sapere che nei maschi della specie umana il rapporto con le donne è filtrato da quello basico e, per così dire, ontologico (cioè, fin dal concepimento) che ciascuno ha con la propria madre. Se fosse consentito adoperare la terminologia freudiana, si potrebbe concludere a questo punto che le alternative per i maschi sono due e soltanto due: o si è edipici oppure si è anti-edipici (in questo caso prendo in prestito il lemma da Gilles Deleuze e Félix Guattari). Insomma, se Bertrand Morane fosse diventato uno di quegli Uomini che odiano le donne alla Stieg Larsson, ci sarebbe stato tutto. Invece il suo percorso è stato un altro, l’opposto: non potendo amare sua madre, ha scelto non già di odiare le donne, quanto piuttosto di amarle tutte quante. Questa è stata la sua scelta di vita. Goethe parlerebbe di ewig Weibliche. Il personaggio di Truffaut invece non vola così in alto, addirittura nell’iperuranio platonico, là dove si incontrano gli archetipi, compreso Das ewig Weibliche, cioè l’eterno femminino (per dirla alla Carducci). Lui rimane con i piedi per terra, ovvero nella realtà immanente che ci è stata assegnata nell’hic et nunc della nostra unica vita. Dunque, parla del genere femminile in quanto tale e lo contempla con gli occhi ammirati di uno studioso del fenomeno naturale, ancor prima che di un innamorato.



     Con questo spirito è girata una delle sequenze più belle del film. Mi riferisco alla scena in cui appare una folla anonima di donne che incedono con passi rapidi e leggeri per le vie, mentre la calda voce di Charles Denner (l’attore che interpreta magnificamente Bertrand, conferendogli un’aura di ironica malinconia) legge un passo delle memorie che il suo personaggio ha cominciato a scrivere e che daranno il titolo al film. Bertrand non inizia raccontando la sua vita, ma descrivendo chi ha sempre amato: le donne. È un passo che noi vecchi etero del Novecento o, meglio, (come si deve dire nel nuovo Millennio, per non essere subito accusati di sessismo) noi uomini cisgender consideriamo particolarmente suggestivo: «Come in certe specie animali, le donne praticano l’ibernazione. Per quattro mesi spariscono, non si vedono più. Ai primi raggi del sole di marzo, come si fossero passate parola o avessero ricevuto un ordine di mobilitazione, spuntano a decine per le strade, in abiti leggeri e tacchi alti. Allora ricomincia la vita».

     Le trionfatrici di questo gineceo ambulante sono le gambe, emerse da gonne più o meno leggere, più o meno colorate e soprattutto più o meno corte. Tuttavia, esse non sono disdegnate, se avvolte in appropriati pantaloni. Questo è il significato simbolico della panoramica cui abbiamo assistito e che si conclude con una sentenza degna di un’epigrafe: «Le gambe delle donne sono come compassi che misurano il globo terrestre in tutti i sensi, dandogli il suo equilibrio e la sua armonia».

     Noi spettatori sappiamo fin dall’inizio del film che Bertrand Morane è già morto. La prima scena rappresenta infatti il suo funerale, al quale partecipano soltanto donne, delle quali sono inquadrate principalmente le gambe. Ma è dopo queste parole che comprendiamo la soluzione di regia adottata da Truffaut.        

     Quando andai al cimitero di Montmartre a rendergli omaggio, ho scoperto che sulla sua tomba c’era anche un’iscrizione votiva, che diceva: «La terre te cache mais mon cœur te voit encore». Si potrebbe immaginare che l’epitaffio di Bertrand Morane rovesciasse il punto di vista sepolcrale, affermando rivolto alla visitatrice che fosse andata a onorarlo: «La terre ME cache mais je VOUS vois encore» Naturalmente il “vous” sarebbe riferito alle gambe delle donne.

 

 


 L’uomo che amava le donne, 1977 (tit. or. L’homme qui aimait les femmes­­­)

Regia di François Truffaut

Soggetto e sceneggiatura di François Truffaut, Michel Fermaud, Suzanne Schiffman

Fotografia di Nestor Almendros

Musiche di Maurice Jaubert

Con     Charles Denner, Natalie Baye, Brigitte Fossey, Monique Dury, Nelly Borgeaud, Leslie Caron, Frédérique Jamet


ALESSANDRO IOVINELLI

BIONOTA 

Alessandro Iovinelli, direttore scientifico di TeclaXXI

Alessandro Iovinelli (Roma, 1957) ha conseguito la laurea in lettere (Roma, La Sapienza) e il dottorato di ricerca in “Culture et Societé en Italie du Moyen-Age au XXème siècle”, (Parigi, La Nouvelle Sorbonne).
È poeta, narratore, critico e regista teatrale. Ha pubblicato libri di poesia, racconti, saggistica, nonché tre romanzi.

 


Commenti

  1. Commento profondo e particolarmente sentito
    Scritto oltre che con la mente, con un profondo sentimento, che fa capire, caro Ale, quanto tu sia veramente il degno erede degli Iovinelli, creatori dell'Ambra
    Super

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  2. Grazie, Alessandro, per questo tuo scritto esemplare, incisivo, illuminante👏💐❤️

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