Cinema di immigrazione: Io capitano di Matteo Garrone. L'immigrazione e il cinema (parte prima) ~ di Flavia Brizio-Skov (CINEMA) - TeclaXXI


CINEMA

 

Flavia Brizio-Skov

 

                      Cinema di immigrazione: Io capitano di Matteo Garrone

 

Parte Prima – L’immigrazione e il cinema


fotogramma dal film IO, CAPITANO di Matteo Garrone

 

Non ci sono dubbi che il cinema europeo come quello italiano negli ultimi decenni ha sostenuto la causa dei gruppi marginalizzati, considerati vittime della discriminazione razziale e religiosa operata da gruppi estremisti, da organizzazioni criminali e da governi che emettono leggi sempre più punitive. È altrettanto vero che i paesi europei hanno avuto negli ultimi vent’anni un grande afflusso di migranti che hanno portato alla ribalta problemi insiti nei paesi stessi, come la non-omogeneità degli spazi nazionali, il concetto di nazione, e hanno politicizzato domande relative al concetto di identità nazionale, che in paesi come l’Italia è stato sempre problematico. Gli immigranti provengono da paesi dell’Ex-Cortina di Ferro, dal Medio Oriente, dalle ex-colonie africane, dall’Estremo Oriente… una vera valanga umana causata da un insieme di fattori, come povertà, guerre, genocidi, pulizie etniche e intolleranze religiose. Naturalmente i migranti modificano lo spazio della nazione ospite. Attraverso le loro pratiche religiose, preferenze alimentari, festività, usanze, linguaggio, essi creano uno spazio transculturale, nel quale viene ridefinito il concetto di nazione, che – riprendendo una categoria coniata dall’antropologo indiano Arjun Appadurai – viene oggi chiamato borderscape. Esso contraddice le tradizionali distinzioni tra dentro e fuori, cittadini e alieni, e sfida le differenze razziali, religiose ed etniche insite nel concetto di nazione tradizionale.[1]  

       L’Europa, essendo un continente la cui popolazione sta invecchiando e il tasso di nascite è diminuito, dipende dall’integrazione dei migranti.[2] Tuttavia, negli ultimi anni, discorsi razzisti, xenofobici, ed eurocentrici hanno avuto successo, come testimoniano i vari partiti di destra che hanno vinto le elezioni, e le molteplici leggi anti-immigrazione approvate.[3] L’Unione Europea ha riconosciuto l’importanza della ‘diversità’ asserendo la necessità di “rafforzare i diritti umani, la tolleranza razziale e l’accettazione multiculturale.”[4] Nonostante queste affermazioni, il percorso che il migrante deve fare per avere il permesso di lavoro, il permesso di soggiorno, la cittadinanza o l’asilo politico rimane arduo e spesso impossibile per molti. Nel caso dell’Italia, per esempio, nel 2002 il parlamento ha approvato la legge Bossi-Fini che rende illegale per un individuo che non possiede un passaporto della Comunità Europea entrare in un paese europeo senza un contratto di lavoro; obbligando così tutti coloro che non posseggono tale passaporto e perdono il lavoro nel paese ospite a rientrare nel loro paese. In questo modo è abolita la legge della sponsorship che permetteva a individui non europei di entrare nel paese sotto il patrocinio di uno sponsor già residente in Italia. Si consente inoltre al governo italiano di decidere la quota di individui non-Europei che possono entrare nel paese in un anno; e infine rende tutti i cittadini stranieri che non si conformano a queste direttive soggetti a incriminazione e rimpatrio forzato.[5]

     Nonostante la situazione sempre più tragica dell’immigrazione, il cinema continua a sensibilizzare le coscienze.[6] Barboni, in un saggio apparso in un recente volume, Passato e Presente nel Cinema Italiano (2022)[7], delinea la storia del cinema italiano di immigrazione cominciando da Pummarò di Michele Placido uscito nel lontano 1990 e divide la produzione filmica tra il 1990 e il 2020 in sei categorie: “1) Estraneità, 2) Spostamento, 3) Specularità, 4) Sovrapposizione, 5) Sdoppiamento, e 6) Moltiplicazione.”[8] Nella prima categoria (“Estraneità: gli immigrati visti dagli italiani”) si incontrano film che osservano l’immigrante attraverso gli occhi di un protagonista autoctono che, per via di un processo di autocoscienza finisce coll’abbracciare il Diverso, mostrando allo spettatore come l’indifferenza e i pregiudizi verso l’immigrante distruggano le relazioni umane e danneggino il tessuto sociale (Terraferma, 2011, di Emanuele Crialese; La giusta distanza, 2007, di Carlo Mazzacurati; L’ordine delle cose, 2017, di Andrea Segre). Nella seconda categoria (“Spostamento: nei panni degli immigrati”) troviamo film che pongono un protagonista bianco e privilegiato attraverso una serie di strane circostanze nella stessa posizione dell’Altro, cosicché, con la conseguente perdita dello stato originario, costui diventa un immigrante clandestino e esperimenta sulla sua pelle le ingiustizie, e le umiliazioni vissute dall’Altro, cosa che lo costringe a guardare al suo paese con occhi diversi, acquistando un nuovo senso di identità e una maggiore consapevolezza umana (Lamerica, 1994, di Gianni Amelio; Quando sei nato non puoi più nasconderti, 2005, di Marco Tullio Giordana; Tolo tolo, 2020, di Luca Medici). In “Specularità: riconoscersi nell’altro” (terza categoria) l’immigrante e l’autoctono sono i due lati della stessa medaglia, ovvero entrambi sono vittime della marginalizzazione e solitudine di una società nella quale l’autoctono non riconosce se stesso e il migrante non è riconosciuto e, nella quale, entrambi sono emarginati perché immersi in una società priva di umanità (Cover boy, 2006, di Carmine Amoroso; Come l’ombra, 2007, di Martina Spada; Gorbaciof, 2010, di Stefano Incerti; Fiore gemello, 2018, di Laura Luchetti). In “Sovrapposizione: registi italiani, protagonisti stranieri” (quarta categoria) i film hanno un approccio narrativo basato sulla sovrapposizione dello sguardo tra autori italiani e protagonisti immigrati (Vesna va veloce, 1996, di Carlo Mazzacurati; L’assedio, 1998, di Bernardo Bertolucci; La sconosciuta, 2006, di Giuseppe Tornatore, Vergine giurata, 2015, di Laura Bispuri; Io sono Li, 2011, di Andrea Segre). I film inclusi in “Sdoppiamento: figli/e di immigrati” (quinta categoria) si concentrano sulla seconda generazione di famiglie immigrate con figli adolescenti che si dibattono tra le regole imposte dalla famiglia e le sollecitazioni di una società mediatica lontana dalla cultura e educazione familiare, la cui identità in erba rimane intrappolata tra il desiderio di integrarsi per evitare la marginalizzazione e il peso enorme di differenti costumi culturali e religiosi spesso irriconciliabili (Saimir, 2004, di Francesco Munzi; Good Morning Aman, 2009, di Claudio Noce; Alì dagli occhi azzurri, 2009, di Claudio Giovannesi; Bangla, 2019, di Phaim Bhuiyan).  La sesta categoria, (“Moltiplicazione dei punti di vista”) infine include film che usano più di un protagonista e creano una proliferazione di situazioni marginali che diventano emblematiche della mancanza di stato sociale del Diverso, ma che tuttavia mostrano allo spettatore che i problemi che agitano il migrante come lavoro, vita sentimentale, aspirazioni, sogni, soldi, salute, disoccupazione… sono comuni a tutti noi, e, allo stesso tempo, mettono in atto la critica e la decostruzione del punto di vista autoctono del regista - metacinema (Ospiti, 1998, di Matteo Garrone; Bell’amico, 2002, di Luca D’Ascanio; La mia classe, 2013, di Daniele Gaglione).

    Registi come Gianni Amelio (Lamerica, Italia, 1994), Mathieu Kassovitz (La Haine, Francia, 1995), Costantine Giannaris (Hostage 2005; Man at Sea, 201, Grecia), Michael Haneke (Caché 2005; Happy End, 2017, Austria), Michael Winterbottom (In this World, 2002, UK), Aki Kaurismaki (Le Havre, 2011; The other side of hope, 2017, Finlandia), Fatih Akin (Head-on, 2004; The edge of heaven, 2007, Germania) e altri hanno trattato gli aspetti più controversi dell’immigrazione contemporanea, e hanno documentato i viaggi dei migranti verso l’Europa, ovvero le ingiustizie, i soprusi sofferti lungo i percorsi migratori dal paese d’origine alla destinazione finale, sottolineando le politiche esclusioniste degli stati ospiti che sovente negano all’Altro ogni possibilità di sopravvivenza. Molte di queste storie sono narrate dal punto di vista del migrante in modo da mettere in risalto l’apatia e l’indifferenza che pervadono la maggioranza della popolazione autoctona.

     L’insieme dei film europei e italiani qui menzionati formano, a nostro parere, un gigantesco puzzle in cui i vari tasselli elucidano i cambiamenti, le evoluzioni, e le involuzioni delle società contemporanee. Secondo Appadurai (2001) l’immaginazione gioca un ruolo importante nella comprensione dell’Alterità, per questa ragione il cinema può influenzare la mente del pubblico, le immagini diventano “atti iconici” ovvero immagini capaci di scatenare reazioni e azioni che contribuiscono alla costruzione della nostra realtà e possono provocare trasformazioni culturali, possibilmente per il meglio.[9]

      Un tassello importante di tale puzzle è Io capitano (2023) di Matteo Garrone. Il film è di difficile catalogazione, perché manca il punto di vista autoctono giacché il viaggio dei due migranti è filmato al di fuori dell’Italia da un regista che, seppur italiano, lascia predominare il punto di vista del Diverso. Inoltre, Garrone evita il problema alquanto scomodo dell’inserimento in Italia dei migranti terminando il viaggio dei suoi protagonisti alle soglie della Sicilia. Diremmo che il film di Garrone crea una moltiplicazione di punti di vista del Diverso, osservando le terribili traversie che i migranti affrontano prima di arrivare alla ‘Fortezza Europa’, e allo stesso tempo lasciando allo spettatore, attraverso un ‘finale aperto’, il compito di ponderare su cosa sarebbe avvenuto nella società del benessere italiano una volta che i protagonisti e i loro numerosi compagni di viaggio fossero arrivati a destinazione.[10]



[1] Cfr. Aine O’Healy, Migrant Anxieties. Bloomington: Indiana UP, 2019, p. 7 e Chiara Brambilla, «Exploring the critical potential of the borderscapes concept» in Geopolitics, 20:1. https://doi.org/10.1080/14650045.2014.884561

[2] Cfr. Guido Rings, The Other in Contemporary Migrant Cinema. New York: Routledge, 2016, pp. 1-2.

[3] Cfr. Capusotti Enrica, «Moveable identities: Migration, subjectivities and cinema in contemporary Italy» in Modern Italy, 14:1, 55-68, 2009.

[4] Cfr. The Council of Europe and the Cultural Heritage Information Documents, Strasbourg: CoE 1991:9.

[5] Bossi è stato il leader di Lega Nord e Fini il leader di Alleanza Nazionale, due partiti di estrema destra.

[6] Cfr. Filmografia sull’immigrazione in Italia: https://it.wikipedia.org/wiki/Filmografia_sull%27immigrazione_in_Italia

[7] Cfr. Diego Barboni, «Una questione di punti di vista: l’immigrazione nel cinema italiano contemporaneo di finzione» in Passato e Presente nel Cinema Italiano – Storia e Società sul Grande Schermo, a cura di Chiara De Santi e Federica Colleoni. Roma: Vecchiarelli Editore, 2022, p. 179-203.  

[8] Diego Barboni, Ibid., p. 181.

 [9] Cfr. Edgar Morin, Lo spirito del tempo. Roma: Meltemi, 2017, p. 230-35.

[10] Cfr. Michael T. Martin, «’Fortress Europe’ and Third World Immigration in the Post-Cold War Global Context» in Third World Quarterly 20, no. 4 (1999), p. 832.


FLAVIA BRIZIO-SKOV 

Flavia Brizio-Skov is Full Professor at the University of Tennessee where she teaches Italian and Cinema. She has published a book on Lalla Romano (La scrittura e la memoria: Lalla Romano, 1993), a critical monograph on Antonio Tabucchi (Antonio Tabucchi: navigazioni in un universo narrativo, 2002), and has edited a collection of articles: «Reconstructing Societies in the Aftermath of War: Memory, Identity, and Reconciliation» (Boca Raton, 2004). 

In 2011 she edited a volume, Popular Italian Cinema: Culture and Politics in a Postwar Society and her latest monograph, Ride the Frontier: Exploring the Myth of the American West on Screen, was published by McFarland in 2021. 

Recently a chapter on an Italian author has appeared in a large volume entitled The Western in the Global Literary Imagination (Holland, Brill, 2023).

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