Cinema di immigrazione: Io Capitano di Matteo Garrone (parte seconda) ~ di Flavia Brizio-Skov (CINEMA)

 CINEMA 

FLAVIA BRIZIO-SKOV

Cinema di immigrazione: Io Capitano di Matteo Garrone.

Io Capitano di Matteo Garrone (parte seconda)

* la prima parte è stata pubblicata il 13 settembre 2024



     Nel 2023, Garrone vince al Festival di Venezia il Leone d’argento per la regia di Io capitano e, il giovane protagonista del film, Seydou Sarr, ottiene il Premio Marcello Mastroianni per la miglior interpretazione come attore emergente. Il film viene osannato dalla critica ed è nominato nella categoria dei Best Foreign Film alla cerimonia degli Oscar (2024). La storia scritta da Garrone con la collaborazione di Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini e Andrea Tagliaferri si basa sulle testimonianze di molti migranti raccolte dal regista[1]. Il film narra la storia di due adolescenti senegalesi, amici per la pelle e cugini, Seydou e Moussa, che decidono di partire dalla loro terra natale e intraprendere l’arduo viaggio verso l’Italia all’insaputa delle rispettive famiglie, per inseguire il sogno di diventare cantautori di successo. Il viaggio quindi per loro è un’avventura che li dovrebbe portare verso un futuro migliore in un Paese che solo conoscono attraverso le trasmissioni mediatiche dei loro telefonini, insomma una Italia di celluloide e lustrini. Naturalmente il viaggio intrapreso con coraggio, speranza e l’incoscienza dell’adolescenza li porta a confrontarsi con predoni, torture, soprusi, e con una umanità rapace, intercalata qua e là da sprazzi di generosità e aiuto.

     La macchina da presa segue da vicino i due ragazzi, i primi piani dei loro volti colgono lo stupore e il raccapriccio di fronte ad atti di disumanità estrema quali l’abbandono di un migrante caduto dalla camionetta nel deserto, la morte di una donna estenuata dalla marcia a piedi nel Sahara (che Seydou vorrebbe salvare), la sete dei migranti sulla bagnarola sovraffollata che li conduce in Italia, le torture che, derubati dei soldi dagli stessi poliziotti/mercenari/predoni libici, devono subire non potendo pagarsi il riscatto telefonando alle famiglie. Insomma, un’umanità famelica che si arricchisce alle spalle di chi è già povero e disgraziato. Seydou e Moussa hanno paura, soffrono, vengono feriti, ma allo stesso tempo resistono. La forza dei loro sogni, il desiderio di aiutare la famiglia, la fede religiosa («Dio è con noi», dice Seydou sulla barca a un certo punto quando tutto sembra perduto), l’amore per la madre, le sorelle e il rimorso per averle abbandonate, li spingono a continuare questa odissea tragica dal Senegal alla Sicilia attraverso il deserto del Sahara.

     Nel paese di origine da dove provengono i due ragazzi non sono poverissimi, vanno a scuola, hanno una famiglia felice, la madre ha un piccolo negozio, non sono abbienti ma possono vivere; tuttavia, nella loro inesperienza, credono alle immagini mediatiche di una Italia che non esiste nella realtà[2]. Sognano come milioni di persone prima di loro una ‘vita migliore.’ Come biasimarli? Generazioni e generazioni di italiani a fine ‘800 e nel secondo dopoguerra del secolo scorso emigrarono in America con lo stesso sogno, con poche lire in tasca, ma tanta speranza. Il viaggio dei due va per tappe, scandite dai confini dei vari paesi; ogni tappa costituisce uno scalino nella crescita interiore dei ragazzi, che imparano a capire come va il mondo[3]. L’empatia di Seydou per la sofferenza umana non viene sminuita dalla paura, o dall’orrore: sogna di salvar la donna nel deserto facendola volare in salvo; sogna di tornare a vedere sua madre con l’aiuto di un angelo per chiedere scusa per averle mentito. Il ragazzo tentenna a volte di fronte a responsabilità tanto più grandi di lui, ma alla fine trova in sé stesso il coraggio per affrontare le avversità: cercare il cugino, salvarlo, e guidare la barca sino alla Sicilia. Dopo aver superato le varie sfide, ormai giunto in prossimità della terraferma, Seydou grida all’elicottero della Guardia Costiera italiana «Io capitano! Io capitano!». Il ragazzo ha ragione: sia Seydou che Moussa sono diventati uomini, hanno superato l’orrore, la paura, senza perdere mai la loro dignità e la loro umanità. Sono diventati capitani della loro esistenza, in un mondo che non è riuscito a traviarli. Il film si conclude con un primo piano dello sguardo di Seydou, che sorride felice per aver finalmente raggiunto la meta e aver portato in salvo Moussa e gli altri migranti.

     Nel film la sapiente fotografia di Paolo Carnera crea effetti spettacolari specialmente nelle sequenze del Sahara, e quando, all’inizio del film, si assiste alle feste e balli di quartiere a Dakar non scivola mai nel folcloristico. Come sostiene Baroncini, Garrone ha «drammatizzato l’immigrazione», illuminandone non solo il lato documentaristico, ma facendone risaltare il lato spirituale, mostrando l’odissea di due anime, così da far diventare il percorso on the road dei due protagonisti l’archetipo di una condizione migratoria universale[4]. Se ogni capitolo del film corrisponde a una discesa verso gli inferi – furto, estorsione, prigione, tortura – un mondo infernale creato su questa terra dagli uomini, ogni capitolo scandisce anche l’ascesa della coscienza di Seydou, che supera ogni prova senza intaccare il suo nocciolo di umanità. I due percorsi si intersecano sino alla fine e si concludono quando il ragazzo grida la sua vittoria finale proclamandosi capitano di sé stesso.

     L’originalità del film, tuttavia, deve ricercarsi nel fatto che Garrone conclude la storia dei due ragazzi alle soglie della Sicilia, lasciando allo spettatore il compito di domandarsi come sarebbe continuata la vicenda. Cosa succederà ai due ragazzi una volta arrivati in Italia? Seguendo Ella Shoat e Robert Stam, poniamoci queste domande: «Chi parla attraverso il film? Chi viene immaginato in ascolto? Chi ascolta di fatto? Chi guarda? E quali aspirazioni sociali sono sollecitate dal film?»[5]. Domandiamoci anche: lo Stato aiuterà queste persone a collocarsi o si limiterà a trarle in salvo dal mare? Esiste corrispondenza tra giustizia e legalità? Le politiche repressive inibiscono la pietas tra gli uomini? L’ultima frontiera sul quale il film termina sarà forse quello più difficile da varcare: riusciranno Seydou e Moussa a varcare il confine etico, giuridico e politico che li attende? O rafforzeranno i numerosi gruppi di extra-comunitari sans papiers che affollano gli angoli delle piazze italiane, che dormono per strada e chiedono l’elemosina tra l’indifferenza generale delle persone che escono dai supermercati italiani con centinaia di euro di spesa nel carrello senza degnarli di uno sguardo?

     In Io capitano, i migranti provenienti dai diversi paesi africani si esprimono in varie lingue autoctone, come wolof o arabo, e parlano anche la lingua degli ex-colonizzatori, francese e inglese. Sono costoro che si narrano in prima persona nel film, e si narrano per lo spettatore europeo, bianco e privilegiato che seduto comodamente in poltrona guarda il film, e dovrebbe sentirsi costretto a simpatizzare con la storia dei migranti perché la storia dei due adolescenti è accattivante, ci dà la possibilità di fare un viaggio attraverso la loro anima, la loro coscienza e il loro sviluppo da giovani inesperti a adulti. L’occhio della telecamera inchioda chi guarda alle proprie responsabilità, costringendolo a diventare testimone delle sofferenze dei migranti. Guardare il film implica una responsabilità morale da parte di chi osserva; il film sembra suggerire che non solo i governi, ma anche i cittadini europei hanno il dovere morale di aiutare questa gente come ampiamente sottolineato da Levinas e Derrida in due famosi saggi[6].

     Il fatto che Garrone fermi le riprese del film alla soglia dell’Italia e congeli l’elicottero della Guardia Costiera italiana in un eterno giro di eliche sopra la barca dei migranti, costringe il pubblico a riflettere su quale sarà il trattamento riservato ai migranti da parte delle autorità una volta sbarcati in Italia. Cosa riserverà il futuro a questi immigranti illegali? Sappiamo che i confini non sono solo creati dalle frontiere geografiche e/o politiche, ma che esistono molti altri confini. Ricordiamo Jerry Masslo, un ragazzo africano che nel 1989 lavorava illegalmente come raccoglitore di verdura a Caserta e che è ucciso, portando alla ribalta le incredibili condizioni in cui i migranti vivono sfruttati dalle organizzazioni criminali. È un evento che ha dato origine a una legge protettiva, la Legge Martelli del 1990, purtroppo revocata da quella punitiva (Legge Bossi-Fini) del 2002[7]. Al colonialismo storico di antico stampo, delimitato da confini fisici, si è sostituito un altro tipo di colonialismo meno visibile, ma altrettanto crudele[8]. Oggi le frontiere invisibili sono quelle che esistono tra classi dominanti e classi subordinate, tra cittadini autoctoni privilegiati e masse ‘invisibili’ di alieni, tra la pelle bianca e quella non-così-bianca, tra cristiani e musulmani, tra coloro che bene o male hanno una collocazione nella società e coloro che non vi hanno posto.

     Vorremmo infine fare delle ipotesi sul resto del viaggio dei due protagonisti una volta sbarcati in Italia, e vedere che cosa sarebbe potuto succedergli se mai fossero riusciti, una volta dimessi dal Centro di Accoglienza, a ottenere un permesso di soggiorno e un permesso di lavoro. A questo fine, ci pare che le risposte esistano già in molti film italiani che si concentrano su cosa succede al migrante una volta ammesso legalmente in Italia. Tenendo presente che Seydou e Moussa sono minorenni, secondo la legge italiana dovrebbero rimanere in Italia sotto la tutela dello stato fino al compimento dei 18 anni e poi, probabilmente, gli sarebbe concesso di rimanere nel Paese legalmente. Tuttavia, se pensiamo alla storia dei protagonisti di molti film sull’immigrazione la loro vicenda potrebbe essere meno rosea.

     Se Seydo e Moussa rimanessero in Italia una vasta gamma di problemi già trattati da altri film verrebbero a galla. Infatti, una volta imparata la lingua italiana, riuscirebbero i due a integrarsi nel paese ospite o rimarrebbero ai margini anche dopo aver superato la soglia della povertà attraverso il lavoro?  Ce la farebbero a farsi una famiglia e a costruirsi una vita nonostante la diversa religione ed etnia? La diversità razziale e religiosa come abbiamo visto su molti schermi si pone come un insormontabile ostacolo all’integrazione dei migranti in una società tradizionalmente bianca, cristiana e – secondo noi – fondamentalmente razzista come quella italiana. O’Healy fa notare che le relazioni romantiche tra bianchi e migranti rappresentate nei film italiani raramente si concludono con la possibilità di figliolanza[9].  Domandiamoci anche se in ultima analisi i due giovani sarebbero capaci di superare i conflitti tra tradizione, desideri e ambizioni, tra il peso della loro cultura nativa e i costumi occidentali.

     Infine, vorremmo reiterare che il film di Garrone è decisamente importante per aver concentrato la sua attenzione sul viaggio dei migranti, sulle difficoltà della loro odissea e sul loro viaggio interiore, specialmente oggigiorno quando l’attenzione dei media è tutta concentrata sul momento dell’arrivo dei migranti, sui salvataggi effettuati in mare, sui morti affogati. Il pubblico vede moltitudini di migranti, senza dubbio partecipa alla loro vicenda umana di vittime senza però venire mai in contatto con il fulcro del loro sentire, con la loro individualità. La complessa esperienza umana implicita in un viaggio pericoloso come quello dei migranti, lontano dalla propria patria, dalla famiglia, dalle tradizioni, causa travagli interiori e traumi dei quali rimaniamo all’oscuro. Inoltre, sia i sogni che le aspirazioni che motivano queste persone vengono raramente mostrati allo spettatore dai media. Attraverso film, telegiornali, e quotidiani osserviamo un fenomeno umano di larga portata, ma non riusciamo a conoscere i singoli individui con le loro storie diverse e particolari. Garrone con Io capitano ci offre questa opportunità, ma non ci fornisce soluzioni. Noi vorremmo augurare ai due giovani, dei quali abbiamo condiviso le traversie, un futuro carico di meritata felicità, ma il regista ci lascia con una quantità di domande sulla condizione umana.

Il film non ci dà conforto, ci abbandona a poche miglia dalla Sicilia, creandoci ansia e speranza per il futuro dei due ragazzi e dei loro compagni, ma anche suggerendoci che ogni migrante che incontreremo per le strade a elemosinare o a dormire per terra potrebbe essere Seydou o Moussa e di conseguenza dovremmo fare il possibile per aiutarlo. 



[1] Nei titoli di testa del film sono elencati i nomi dei migranti che hanno fornito le loro testimonianze a Garrone, Gaudioso, Ceccherini e Tagliaferri, grazie alle quali è poi scaturita la sceneggiatura di Io capitano.

[2] Prima di partire da Dakar, i due ragazzi visitano un ciabattino di nome Sisco che, avendo fatto il viaggio verso l’Europa, a loro avviso potrebbe essere preziosa fonte di informazioni e consigli. Costui invece suggerisce ai ragazzi di stare a casa e con rabbia li redarguisce, dicendogli che non sanno a che cosa vanno incontro, a quali pericoli si esporranno e che l’Europa non è come loro se la immaginano. I due ragazzi rimangono scossi, ma non gli credono.

[3] Le tappe nei vari luoghi dal Senegal alla Sicilia costituiscono i capitoli del film, e narrano paese per paese, la discesa agli inferi dei protagonisti. I due ragazzi cominciano il viaggio a Dakar in Senegal quasi spensieratamente in pullman, proseguono per Agadez in Niger dove acquistano passaporti falsi e pagano 800 dollari per attraversare il deserto del Sahara in macchina, cosa che avviene solo in parte in quanto il camioncino li abbandona e, da un certo punto in poi, devono procedere a piedi con una marcia estenuante sotto il sole del deserto; giunti in Libia, prima sono depredati dei loro averi, Moussa viene separato dal cugino e poi entrambi vengono torturati in prigione a Sabha. Seydou, una volta liberatosi dalla prigionia grazie all’aiuto di un muratore che gli salva la vita e lo tratta come un figlio, raggiunge Tripoli dove ritrova il cugino ferito, insieme vanno a Zuara in Libia per imbarcarsi con altri migranti per l’Italia. Penultima tappa il Mar Mediterraneo e, infine, ultima tappa la Sicilia, mai raggiunta, ma intravista come un miraggio dal mare.

[4] Luca Baroncini, “Io capitano di Matteo Garrone,” in Cenerentola, domenica 01 Ottobre 2023.

[5] Cfr. Ella Shohat e Robert Stam, Unthinking Eurocentrism: Multiculturalism and the Media. Londra: Routledge, 1994, p. 205.

[6] Cfr. Levinas, Otherwise than Being, Pittsburgh: Duquesne UP, 1981, p. 79 e Jacques Derrida, “Hospitality, Justice, and Responsibility,” in Questioning Ethics, ed. Richard Kearney and Mark Dooley. New York: Routledge, 1999, pp. 65-83.

[7] Cfr. Aine O’Healy, Migrant Anxieties. Bloomington: Indiana UP, 2019, p. 78.

[8] Il razzismo contro gli africani neri non sembra una prerogativa solo dell’Europa, nel film infatti viene messo in risalto più volte che i “neri” non sono ammessi negli ospedali a Tripoli. La Libia è un Paese arabo e, a quanto pare, considera la gente di colore proveniente dalle regioni del sud-Sahara come cittadini di seconda categoria, se non di terza, negandogli l’accesso alla sanità anche nei casi di emergenza. Moussa che ha ricevuto una ferita a ama da fuoco mentre fuggiva dalla prigione deve essere operato per non perdere la gamba, e forse anche la vita, ma i libici, all’apparenza, lo lascerebbero morire.  Questo non succederebbe in Italia dove i Centri di Accoglienza sono provvisti di personale medico. Inoltre, si vuol fare notare che “La Libia è caratterizzata da una forte instabilità politica che di fatto limita e in molti casi nega alla popolazione civile l’accesso a diritti fondamentali quali salute e istruzione. Migliaia di persone non hanno accesso all’assistenza sanitaria e i farmaci scarseggiano. Recenti stime del Ministero della Salute ci raccontano che solo il 60% degli ospedali sono parzialmente o completamente in funzione, gran parte del personale medico è fuggito dal paese, e i pochi medici rimasti non hanno strumenti o risorse per poter lavorare in sicurezza. Una recente analisi sulla capacità del settore sanitario libico promossa dall’Organizzazione Mondiale della Sanità evidenzia che su un totale di 1656 strutture sanitarie, il 17% degli ospedali e il 20.1% dei centri di primo soccorso non sono funzionanti. Cfr.  https://helpcode.org/progetti/emergenza-sanitaria-libia

[9] Secondo O’Healy sembra che ci sia un rifiuto a rappresentare sullo schermo la progenie frutto di incroci di razze, unica eccezione Billo, il Gran Dakar di Laura Muscardin, 2007. O’Healy, ibid., p. 152.

 

LAVIA BRIZIO-SKOV 

Flavia Brizio-Skov is Full Professor at the University of Tennessee where she teaches Italian and Cinema. She has published a book on Lalla Romano (La scrittura e la memoria: Lalla Romano, 1993), a critical monograph on Antonio Tabucchi (Antonio Tabucchi: navigazioni in un universo narrativo, 2002), and has edited a collection of articles: «Reconstructing Societies in the Aftermath of War: Memory, Identity, and Reconciliation» (Boca Raton, 2004). 

In 2011 she edited a volume, Popular Italian Cinema: Culture and Politics in a Postwar Society and her latest monograph, Ride the Frontier: Exploring the Myth of the American West on Screen, was published by McFarland in 2021. 

Recently a chapter on an Italian author has appeared in a large volume entitled The Western in the Global Literary Imagination (Holland, Brill, 2023).


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