Lettera persa ~ di Luigi Ananìa (NARRATIVA) - TeclaXXI

NARRATIVA

 

Luigi Ananìa

 Lettera persa

                                                     


          Ciao Andrea, sono Peppino Esposito, ti scrivo da Montreux, ho 99 anni e sto bene in salute; mio figlio è diventato amministratore delegato di una banca svizzera e mi ha alloggiato in un hotel con vista sul lago di Ginevra. Chi l’avrebbe mai detto, ero un bambino scalzo sui vicoli di terra del paese e adesso sono servito e riverito da camerieri svizzeri in livrea. La mattina vado a fare colazione a un bar che si chiama Jeunesse Dorè e incontro la cantante Tina Turner che mi fa un sorriso meraviglioso. In tutti i bar i prezzi sono alti e io pago lasciando laute mance; mi fa piacere veder scivolare fra le dita i soldi di carta pensando a mia madre che non maneggiava denaro ma soltanto pomodori, patate, e cetrioli. È ormai vent’anni che sto qua a Montreux e per passare il tempo, io che non ho nemmeno la quinta elementare, mi sono messo a leggere decine e decine di romanzi e mi è venuta la voglia di guardare gli esseri umani e di entrare nell’anima di ognuno come fanno gli scrittori con i loro personaggi; così mi sono messo a osservare tutte le persone che incontro e a ricordare tutti quelli che ho conosciuto, così da analfabeta che ero sono diventato un fisionomista dell’anima umana. Ho ripensato anche a te caro Andrea, come stai? Io sono stato l’autista di tuo padre e ti avevo spesso davanti agli occhi; eri un ragazzo ombroso, con lo sguardo offeso e conoscevi la potenza del silenzio; avevi capito che il silenzio può essere un assalto senza rumore, ma più eri silente più eri offeso perché gli altri offesi dal tuo silenzio ti dicevano che eri un essere    inesistente.  Poi dall’età di diciassette anni hai parlato alle persone, agli alberi, agli animali e a un certo punto hai cantato perché cantare ti portava dalla realtà a un altrove e da un altrove alla realtà. Appassionato alla vita sei diventato un selvaggio nelle selve e un animale notturno in città tra i fantasmi di luce, di cemento e di sguardi.  Crescevi con uomini e donne che vivevano in baracche o in grandi ville dove diventavano servi di altri uomini e di altre donne. C’era molto odio in quella società di animali, uomini e donne che alle fontane lavavano e rilavavano, lavavano tutto e tutto diventava una distesa di magnifici panni bianchi al vento. C’era l’odio tra i ricchi di sempre e i poveri da secoli e fra i ricchi poveri e i poveri rimasti poveri; si respirava l’odio, tu   lo vedevi negli sguardi beffardi e lo sentivi mischiato alla disperazione sotto un cielo sempre uguale di chi diceva che sotto quel cielo non c’era niente da fare. Ma insieme all’odio c’era la tenerezza che ti avvolgeva   in un sogno da cui ricadevi in un niente di risposte senza domande, un niente in cui coltivavi la passione per le voci e le espressioni.  Spesso camminavi fra le montagne dove i lupi mangiavano i tuoi cani e i servi marchiavano a fuoco gli animali di tuo padre, un mondo pieno di versi in cui si era tutti animali fra gli alberi, le radici e le fosse.

Mi piace perdermi nel passato; ti ricordi? A volte io, te e tuo padre andavamo dalle selve alla città di provincia, la città degli uffici, la città misera con l’illusione del potere di stato e là da un albergo di lusso misero che si affacciava su tutta la città misera rivedevamo sempre lo stesso uomo anziano che sulle scale parlava a un altro anziano e gli diceva    che con una tanica gigante piena di benzina voleva dare fuoco alla città. E quando tornavamo tu ritrovavi tua madre, allora una ragazza con gli occhi verdi fiume e le guance come petali di rosa; nella camera accanto c’era un’altra signora dai seni abbondanti, le dita imperlate e i capelli raccolti in un fermaglio che ti diceva “sono io tua madre non tua madre” e ti serrava stretto ai suoi seni. La sera i servi di tuo padre barcollavano al buio ubriachi e a volte qualcuno saliva a casa e urlava come un bovino su cui si stringevano masse di uomini per marcarlo e imprigionarlo.  Tu e tuo fratello eravate bambini   insieme ad altri bambini, cani, maiali e a cavalli che giravano intorno a un palo legati a una corda da cui si volevano districare ma non potevano altro che girare e scalpitare. Ogni estate tornavate tra quella popolazione selvatica e tu sapevi che tra la gente conosciuta c’era  un’altra società suddivisa in capi e caporali che tramavano per acchiappare denaro   con lo sparo al posto della contrattazione,  un’associazione  che braccava gli uomini come gli animali,  uno stato  invisibile  di  cui tu   intravedevi l’esistenza in qualche sguardo di sfida e nelle ragioni nascoste di certi  silenzi. Una volta con me e tuo padre rischiasti di capitare nel mezzo di quella società criminale e di vederne i volti.  Era una sera d’estate e con tuo padre tornavamo dalla città di provincia, la città degli uffici e delle facce offuscate da coltri di fumo di sigarette.  Nel cortile alto dell’albergo avevamo rivisto il signore che guardava la città   e diceva di volerla incendiare. Tuo padre ti aveva messo alla prova mandandoti a sbrogliare matasse di pratiche burocratiche da impiegati figli di altri impiegati, raffigurazioni viventi del grande stato latente. Poi tornando a casa   passammo per i boschi, ettari ed ettari di bosco di cui non vedevi la fine e di cui ti chiedevi come si facesse a non perdersi; io guidavo e   tuo padre trovava tutte le strade fra valli e montagne grandi come una regione. Mentre ci avvicinavamo a casa tuo padre disse di fermarci a trovare il signor Aldo, quel suo amico con la bella moglie e sette figli piccoli, ma tu preferivi andare a comprare una di quelle giacche che, quando le portavi a scuola tutti ti invidiavano perché il tessuto grezzo di cui era fatta evocava un’animalità perduta. Tuo padre ti accontentò e andammo in un emporio a comprare la giacca e ormai al tramonto   tornammo a casa da tua madre che ci aspettava con lo sguardo appassionato di un’attrice. Meno male che comprammo la giacca, se fossimo andati dal signor Aldo avremmo trovato nel salotto due banditi con i fucili puntati su tutta la sua famiglia; due componenti della banda avevano rapito il figlio più grande e altri due erano rimasti a casa con le armi spianate per impedire che   chiamassero la polizia.  L’azienda del signor Aldo confinava con quella di tuo padre e la mattina dopo il rapimento gli operai non parlavano d’altro; tutti quanti dissero di aver sentito il rombo di quella macchina con i fari accesi nella notte e di avere visto due banditi con un bambino dentro un sacco, come se tutti si fossero dati appuntamento in un sogno. Nei giorni seguenti in azienda tutti si chiesero perché avevano rapito il figlio del signor Aldo e non te o tuo fratello; d’altronde tutti si aspettavano che fosse rapito uno di voi, eravate benestanti e di notte misteriose automobili giravano intorno a casa vostra. Qualche operaio di tuo padre era riuscito a vedere qualche targa e disse che erano targhe di paesi delinquenti.

Caro Andrea, te lo dico adesso alla tenera età di novantanove anni, l’organizzatore del sequestro del figlio del signor Aldo ero io insieme agli operai Tramonti, Mollo, Tosto   e a un tale chiamato Capo e vipera che veniva da un lontano paese di assassini. Dovevamo prendere te e di notte Capo e vipera spiava la casa, ma alla fine decidemmo di prendere il figlio del signor Aldo perché avevamo paura dei vostri quattordici cani e perché io e Tramonti   volevamo bene a tuo padre che aveva uno sguardo che ci arrivava dritto al cuore. Così rapimmo il figlio maggiore del signor Aldo e lo portammo al paese di Capo e vipera in un podere vicino al mare. Quando arrivarono lo misero in una fossa legato con una catena a un palo cementato a terra accanto alla porcilaia. La moglie di Capo e vipera gli portava la pasta al sugo e le cotolette impanate insieme alla broda per i maiali e di giorno in giorno il bambino che noi chiamavamo   Nostro caro Ciccio ingrassò. Per tre mesi l’abbiamo pasciuto come i maiali e qualche notte Mollo lasciava la vostra azienda e lo andava a trovare per raccontargli delle storie che s’inventava guardando le stelle.  I soldi arrivarono ma quella testa matta di Capo e vipera li prese tutti per sé e affidò Nostro caro Ciccio a una impresa edile di suoi amici che lo imprigionarono in un pilastro di cemento. Mi dispiace raccontarti questa storia ma prima di andare all’altro mondo ti volevo salutare e dirti quanto sono grato a tuo padre che mi ha permesso di guadagnare i soldi per fare studiare mio figlio Raffaele che adesso è un famoso banchiere svizzero. Per ora non ho nessuna voglia di morire e qui a Montreux passeggio lungo le rive del lago e guardo la gente che passa; leggo, cammino e guardo, e a volte confondo i personaggi dei libri con i turisti e con gli abitanti del paese.  Sono lungo e secco come una volta e cammino con lo stesso passo che avevo quando attraversavo i terreni impervi dell’azienda; sembro una vecchia pertica sorridente che tutti salutano incuriositi dalle mani callose , il passo da contadino e i vestiti eleganti appesi alla spalle. La mattina estasiato dal verde, dalle montagne innevate e dai riflessi del sole sul lago vado al Jeunesse dorè e trovo già il tavolo pronto per me con una tazzina di caffè fumante appena uscito dalla caffettiera. Alain, il capocameriere mi vede da lontano e prepara tutte le cose che mi piacciono cosicché non ho niente da domandare, sorrido a tutti e tutti mi sorridono; poi mentre sorseggiò il caffè mi lascio baciare dal sole e da Tina Turner che mi domanda di mio figlio e delle mie due nipotine gemelle Giselle e Pauline. La mia terza età a Montreux è davvero una meraviglia se non fosse per certi sogni che arrivano di notte e lasciano degli  strascichi durante giorno; il  più ricorrente arriva con l’affanno e mi sovrasta con un coro di voci di bambini che proviene dalle pareti  e si diffonde  in tutta la suite; nel  coro distinguo la  voce di Nostro caro Ciccio che mi invita ad andare   nelle parti nascoste dell’hotel,  dentro i canali dell’aria condizionata, nei vuoti del calcestruzzo, nelle tubature,  nelle porosità  del cemento pieno di anime, di insetti e di microbi; poi d’improvviso vedo la sua faccia seguita da facce di  altri bambini  uscire dalle pareti e invadere il mio materasso, allora mi sveglio. Il giorno seguente vado a pranzo nella sala interna del Jeunesse e rivedo le stesse facce sulle pareti che si ripiegano su sé stesse come se mi volessero inglobare nel mondo dell’aldilà e diventare anch’io un volto fluttuante dal cemento all’aria. Per fortuna che c’è Alain che, quando mi vede cadere dalla sedia mi solleva e con voce suadente mi riporta alla giusta visione delle cose. Ma appena uscito dal ristorante mi riviene in mente Nostro caro Ciccio e allora torno alla suite e penso a qualcosa che possa riportarmi serenità. Come prima cosa mi vesto con i miei migliori capi d’abbigliamento e vado a passeggiare lungo le rive del lago con le scarpe inglesi   con i buchini che mi infondono una calma britannica; ma alla fine della passeggiata rivedo l’ectoplasma del Nostro caro Ciccio fra i tanti volti svizzeri che mi sorridono. Allora torno a casa di corsa e chiamo mio figlio Franco e gli dico che voglio parlare con le mie due nipotine gemelle Pauline e Giselle con indosso il vestito celeste orlato di bianco. Gli do appuntamento telefonico e grazie al mio telefonino di ultima generazione le posso vedere in video chiamata sulla parete di fronte al mio letto. Spengo la luce e la parete si illumina con Giselle e Pauline che mi sorridono davanti a un quadro che rappresenta il Paradiso. Mi salutano con le manine dello stesso colore dei corpi nudi di Adamo ed Eva e raccontano di come hanno passato la giornata; ogni tanto litigano perché una vuole parlare prima dell’altra ma poi ritornano uguali e sorridenti e mi dicono in francese che da grandi vogliono venire ad abitare in una casa accanto al mio Hotel. Così mi ritorna il buon umore e prima di dormire apro un cassetto pieno di indirizzi di tutte le persone che ho conosciuto e li rimesto affondando la mano tra i foglietti scritti e i biglietti da visita; poi  ne scelgo uno come un numero della tombola e scrivo una lettera.  Scrivo fino a notte fonda e a volte quando mi prende il sonno confondo i sogni con i ricordi che racconto su un foglio protocollo a righe. Adesso scrivo a te e domani ti spedisco una lettera dall’ufficio postale di Montreux.

 

Tuo Peppino Esposito

Montreux 12/ 12/2023

 

 LUIGI ANANÌA


BIONOTA 

Luigi Ananìa si laurea in scienze agrarie presso l'università di Firenze nel 1986. Da allora scrive racconti e fa vino rosso a Montalcino presso l'azienda La Torre. Con la casa editrice Pequod ha pubblicato Il signor Ma (2000) e Cos'è questa nuvola (2011). Presso le edizioni DeriveApprodi ha curato l'antologia di racconti sul vino Confesso che ho bevuto (insieme a Silverio Novelli, 2004) e ha pubblicato Avant'ieri, storie di emigrazione tra la Sila, Torino e Buenos Aires (2009), Pixel, la realtà oltre lo schermo dei media (di nuovo insieme a Silverio Novelli 2012), Storie di volti e parole (2016) e  Bestiario umano (2021), ambedue in collaborazione con Nicola Boccianti.  Ha scritto racconti per  Il sempliceMaltese narrazioni e Nuovi argomenti.



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