L'opera lirica dalle origini a Wagner - parte II (MELODRAMMA) ~ di Gabriella Minarini - TeclaXXI
MELODRAMMA
Gabriella Minarini
L’opera lirica dalle origini a Wagner
Parte Seconda
‘Pensieri vagabondi’ guidano in leggero passo al Gran
Teatro …
In Italia il teatro musicale romantico
nasce con Rossini, Pacini Donizetti e Bellini. Nelle loro opere il ‘bel canto’
viene asservito al pathos, il finale
lieto cede il posto con sempre maggior frequenza a quello tragico, la raffinata
scrittura strumentale e armonica al largo uso di melodie di gusto più popolare.
Mutano infine i soggetti ed i personaggi: la storia medievale e moderna è ora
la fonte principale di ispirazione; la vecchia opera seria aristocratica cede
il posto anche al dramma dell’individuo. Il confine tra opera buffa e opera
seria appare ormai superato: Donizetti tende ad inserire il pathos e l’elegiaco anche nell' opera
buffa e, parimenti, l’opera seria mostra personaggi di toccante umanità:
vittime innocenti, scene di delirio, eroi rinunciatari che poi, Verdi
raccoglierà a piene mani da questo teatro popolare idee, modi, e gli darà nuovo
vigore. Almeno fino alla metà del secolo l’opera italiana viene incontro alle
esigenze del popolo che affolla i teatri offrendo vicende romanzesche ricche di
colpi di scena, basate sul conflitto bene-male, sull’ innocenza perseguitata e
riconosciuta, sulla morte liberatrice.
Diversa la scena parallela dei teatri
tedeschi. Contrari al razionalismo settecentesco e al bel canto italiano, i
compositori si volgono alle fonti nazionali e al Singspiel. Il Fidelio di
Beethoven ne è impregnato, ma è soprattutto con il tedesco Carl Maria Von Weber
(Il Franco cacciatore, 1821; Oberon 1826) che il romanticismo domina
incontrastato, con temi fantastici e leggendari. Su queste esperienze, ma anche
con l’apporto del grand opéra francese, si basa la riforma wagneriana. Wagner
mirò a creare un dramma unitario mediante l’adozione del Leitmotiv, una frase musicale ripetuta in vari momenti associata ad
un carattere, un evento o uno stato d’animo, e con l’abolizione totale delle
forme chiuse e la differenziazione tra recitativo e aria. Wagner fu librettista
di sé stesso, rispetto ad altri compositori che solo occasionalmente
scrivevano, non soddisfatti dei loro librettisti, il testo delle arie che
avevano particolarmente a cuore. Nelle sue opere, l’orchestra ‘pensata’ da
Wagner è parte integrante della storia.
Ma torniamo in Italia, all’epoca in cui la
voce gioca un ruolo predominante, ovvero l’Ottocento. La tradizione
belcantistica trova un esempio fondamentale e di successo nel Barbiere di Siviglia (1816) che, vivo
ancora l’autore, celebrò la cinquecentesima replica e a cui si può far risalire
la stabilizzazione di un repertorio in Italia.
Oltre al Barbiere le prime opere di ‘repertorio’, quelle mai scomparse dalle
scene, sono La sonnambula e la Norma di
Bellini (1813), L’elisir d’amore (1832) e la Lucia
di Lammermoor (1835) di Donizetti.
‘Fare repertorio’ ha voluto dire affermare
i Teatri non solo come edificio, ma come contenente (Cruciani), e per avere un
ottimo ‘contenuto’ doveva diventare anche una valida organizzazione
economico-sociale-lavorativa per molte persone (compositori, musicisti,
impresari, cantanti, appaltatori, ballerini, costumisti, ecc. ecc.). Un mondo
tutto teso alla soddisfazione di un pubblico sempre più eterogeneo, sempre più
difficile da accontentare ma generoso nel rendere la felicità avuta da uno
spettacolo di qualità.
Il Teatro, dove si va per guardare ed
essere guardati (Cruciani), per tessere sodalizi, amare, giocare (in numerosi
teatri erano attive sale da gioco) è una macchina economica che può,
all’occasione, stritolare o portare alle stelle. Ne fece le spese anche
Giuseppe Verdi, dopo l’insuccesso della sua seconda opera (Un giorno di Regno 1840).
A Verdi, sicuramente il più importante compositore italiano del diciannovesimo
secolo dobbiamo, oltre alla produzione di ventisette opere, il riconoscimento
dei diritti d’autore per i musicisti e il tentativo di farlo riconoscere anche
ai librettisti.
Le opere a quell' epoca circolavano
molto, a dispetto della censura, e in tempi piuttosto rapidi. Dopo l’opera in
‘prima assoluta’, data generalmente in teatri di prima categoria come la Scala,
la Fenice, la Pergola, il San Carlo, le opere erano ‘appaltate’ da teatri
cosiddetti minori - spesso di competenza degli stessi impresari dei teatri
maggiori - che così risparmiavano, se non nelle scenografie, almeno nei costumi
e sul materiale musicale. Spesso anche i cantanti erano dall’impresario legati
per contratto, a un numero di recite in teatri minori.
Un esempio di quanto rapidamente
circolassero le opere di successo ci è dato dalla lettera di Felice Varesi,
primo interprete di Rigoletto alla Fenice, scritta da Ascoli Piceno dove si
trovava a cantare lo stesso ruolo solo un anno e mezzo dopo la ‘grande prima’ a
Venezia (marzo 1851), in cui si meraviglia di «un cantuccio d’Italia i cui
abitanti vollero pure procurarsi il piacere di gioire delle melodie del Rigoletto»; la messa in scena
‘dell’opera nuova’ era sentita e ricercata come un dovere sociale. Quando
Giuseppe Verdi si affaccia in questo panorama il dovere sociale si fa anche
dovere morale.
L’ascesa di questo artista si è voluta
vedere inizialmente fortemente legata al Risorgimento, agli aneliti per l’unità
d’Italia. La bellezza del suo melodramma era, ed è, nella immediata
comprensibilità della drammaturgia degli affetti. In un territorio dove gli
analfabeti erano una percentuale altissima l’opera, con un messaggio chiaro e
forte come quello dei lavori di Verdi, riesce là dove tanti scritti non
avrebbero potuto agire. Il grido di “VIVA VERDI” (viva Vittorio Emanuele Re
d’Italia) accompagnerà la lotta per l’unità d’Italia. Ma Verdi non è stato solo
questo; nella sua lunga carriera ci ha dato capolavori con nodi drammatici e
musicali capaci di sciogliere cuori di ghiaccio. Il Maestro sceglieva
accuratamente i soggetti per le sue opere. Vediamo come lottò per portare sulla
scena una delle creature più deformi di aspetto ma ‘sublime' nell’amore per
«l’unico suo bene in terra»: il gobbo Rigoletto. La genesi di questa opera è
interessante: la censura aveva ripetutamente respinto il libretto nonostante le
sue variazioni, e il nulla osta arrivò solo il 26 gennaio a soli
quarantaquattro giorni dalla ‘prima’. Sappiamo che il 5 febbraio Verdi spedì al
librettista Francesco Maria Piave le parti cantate di due terzi dell’opera, e
le prove iniziarono il 19 febbraio. Questo ci dice come Verdi avesse lavorato
incessantemente, lasciando in prima linea a battagliare, da solo, con la
censura e la Nobile presidenza del Gran Teatro veneziano, il povero Piave. Per
questo allestimento grande novità fu la soluzione che lo scenografo Giuseppe
Bertoja trovò per la casa di Rigoletto: un praticabile che, oltre a mostrare
Gilda che in piena luce canta l’amore per il ‘suo Gualtiero’, consentiva
simultaneamente ai cortigiani di arrivare, vederne la bellezza e tramare il suo
rapimento. La soluzione scenografica diventa una risoluzione drammaturgica, che
nel terzo atto assurge al ‘geniale’: la casa di Sparafucile ha la struttura del
praticabile della casa di Rigoletto e i quattro personaggi si trovano collocati
a coppie all’esterno (Gilda e Rigoletto) e all’interno (il Duca e Maddalena).
Ognuno esprime per conto proprio, ma contemporaneamente agli altri, i propri
sentimenti nel celeberrimo concertato «Bella figlia dell’amore», sommergendo il
pubblico. Nessuno, fino ad allora, aveva fatto cantare quattro personaggi
apparentemente insieme ma sostanzialmente separati come in questa scena.
Victor Hugo, autore del Le Roi s’amuse dal quale Rigoletto
era tratto, apprezzò molto il quartetto dicendo che ‘in prosa’ è impossibile
far parlare quattro personaggi contemporaneamente e renderne chiari i
sentimenti. Interessante - e caustico - è il commento di George Bernard Shaw a
proposito delle rimostranze, denuncia e conseguente processo intentato da Hugo
contro Verdi proprio per il Rigoletto, il
cui successo aveva offuscato la sua opera teatrale. Shaw scrive: «il principale
merito di Victor Hugo come drammaturgo fu di aver fornito libretti a Verdi», (Ernani e Rigoletto).
Le opere di Verdi viaggiano ancora per la
maggiore quando all’orizzonte si presenta Giacomo Puccini. Per un ventennio,
ambedue vivi, si contenderanno le più grandi piazze italiane, europee e
mondiali. Il bussetano nell’invecchiare trova registri e colori sempre più
‘moderni’, chiudendo con un Falstaff
di ‘grana’ assolutamente sorprendente, sia per il periodo che per Verdi stesso.
Falstaff è un’opera fresca, gioiosa,
risultato di un felice connubio, tra Verdi e Arrigo Boito, per chiudere in modo
sublime una lunga carriera.
Questo è il mondo nel quale siamo
cresciuti per cultura e per esperienza; una miriade di personaggi in viaggio,
con speranze, delusioni, trionfi ma, ogni sera, con la stessa voglia e lo
stesso desiderio: ‘morire come un’artista e rinascere come un uomo’. Trovo che
sia una grande sfortuna per la musica - «che proprio a quest’arte siano
necessari una quantità di aiuti materiali, soltanto perché l’opera possa
esistere» - perché vorrei morire e rinascere ogni sera!
Siamo arrivati, entriamo in Teatro e
‘accediamo silenziosi’ nel palco n. 23 …
le luci si abbassano, l’orchestra attende l’arrivo di Gilda per
sostenerla nel suo …. esimo:
«Caro
nome che il mio cor, festi primo palpitar …»!
Bibliografia
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GABRIELLA MINARINI
BIONOTA
Gabriella Minarini ha fondato e diretto l’Atelier della Voce di Firenze per cantanti e musicisti.
Laureatasi a Firenze con Stefano Mazzoni con una tesi su L’allestimento di “Attila” a La Fenice – Venezia 17 marzo 1846 – ha portato avanti la sua ricerca sul teatro di Verdi e su quello di Pacini (con varie pubblicazioni).
Attualmente è impegnata in una ricerca sul Carteggio di Giovanni Pacini con il Teatro la Fenice di Venezia.
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