Da Shakespeare sul Titanic – A proposito di Romeo e Giulietta (NARRATIVA/SAGGISTICA) ~ di Giuseppe Manfridi - TeclaXXI

 

NARRATIVA

SAGGISTICA

 

Giuseppe Manfridi

 

Da Shakespeare sul Titanic

A proposito di Romeo e Giulietta

 

Giulietta al balcone, bozzetto di Carlo Ferrario per Romeo e Giulietta (1865) ©Archivio Storico Ricordi N. Inv. ICON009602 open access

Al balcone. I due ragazzini, a ben vedere, hanno poco da dirsi. Naturale! Non si conoscono per nulla, e perciò si arrovellano attorno al nulla, affascinati come sono dalla novità da cui si sentono invasi, e insistono nel loro affannoso dar fiato a parole splendidamente sopra le righe modulatrici di respiri con cui quasi fisicamente si carezzano i volti a vicenda.


Quel che con più trepidazione hanno da comunicarsi è sveltito e addirittura sollecitato dalla messa a rischio dei richiami insistenti della Balia, che scandiscono i tempi dell’incontro giungendo dall’interno della casa, fuori scena. Un cronometro! È questo a vitalizzare il loro dialogo; tutto quel che farebbero, sennò, sarebbe di restarsene muti, occhi negli occhi, a godersi la dilazione spasmodica della forza ormonale che li attrae l’uno verso l’altra. Non hanno davvero niente da dirsi, ma questo ‘niente’ se lo impongono con parole che consentono loro di perseverare testardi nel non separarsi.

 

C’è qualcosa di impudente in Giulietta di cui altri potrebbero accorgersi, ma che la sua verecondia tiene nascosta sia a lei che a Romeo. Sono gli ossimori della psiche che determinano il carattere.

 

Circa il monologo di Romeo che vede Giulietta sospirante al balcone, scrive Masolino D’Amico: “Certo non si può chiamare descrizione di ambiente questa serie di elucubrazioni di concettismo amoroso. Però si noti come la luna si mantenga al centro dell’imagery adoperata da Romeo. (…). La notte incantata, bagnata dalla luna, profumata dall’estate, accompagnata dal canto degli uccelli, non è dunque mai descritta direttamente”. E qui la letteratura nostrana, che oltre Dante e Petrarca molto ha trasmesso agli elisabettiani, può intromettersi con qualche suo modello d’eccellenza sinfonicamente prossimo a un tanto iconico notturno, proponendosi non ad eco, ma a coro. Con questo sonetto del Boiardo, ad esempio, d’un secolo antecedente Romeo e Giulietta (che sia notte o giorno non vien detto, ma che importa? Shakespeare sa donare coi suoi versi le giuste ombre anche a dei versi altrui, che siano a venire o già avvenuti):

Ligiadro veroncello, ove è colei

che de sua luce aluminar te sole?

Ben vedo che il tuo danno a te non dole,

ma quanto meco lamentar te dei!

Ché sanza sua vagheza nulla sei,

deserti e' fiori e seche le viole:

al veder nostro il giorno non ha sole,

la notte non ha stelle senza lei.

Pur me rimembra che io te vedi adorno,

tra' bianchi marmi e il colorito fiore,

de una fiorita e candida persona.

A' toi balconi alor si stava Amore,

che or te soletto e misero abandona,

perché a quella gentil dimora intorno.


L’impossibilità dei due di mostrarsi sulle prime indifferenti l’uno all’altra per meglio irretirsi è chiara; ci provassero, ne verrebbe una piccola recita, un civettuolo e sdolcinato passo a due, ma nessun trucco. Volessero ostentare un vicendevole disinteresse lo farebbero al massimo per divertirsi, non certo per avocare l’altro a sé.
R. & G. si propongono reciprocamente tout d’un coup, e con spirito di assoluta bontà. Nessun gioco a nascondere è messo in atto, né per insidiare, né per sottrarsi ad arte: non c’è tempo. Come non ce n’è per J. & R. a bordo del Titanic. O subito tutto, o niente per sempre (non per nulla il brindisi con cui Rose adotta il motto di Jack nel corso della cena dove lui si trova a giocare il ruolo dell’intruso recita: “A ogni singolo giorno!”, e nessun singolo giorno è più sé stesso di quello in cui si è).

In Romeo e Giulietta non c’è nulla dell’amore per sentito dire, nessuna realtà vicaria; il teatro dell’invidia non vi ha luogo.

Cosa se ne sarebbero fatti R. & G. di un po’ di vita in più?

Nietzsche, in una nota poi soppressa in bozze che avrebbe dovuto chiudere la sua prefazione ad Al di là del bene e del male, scrive con rammarico di Pascal che “forse non gli mancò altro se non la salute e un decennio di vita in più”. Pascal in quel decennio avrebbe portato a compimento opere, ne avrebbe progettate altre, integrato capitoli, forse di molto, forse di poco, o forse affatto, ma avrebbe comunque vissuto la logica prosecuzione della propria vita. E i nostri due giovani suicidi? Che uso avrebbero mai fatto di un futuro messo loro a disposizione in una realtà parallela a quella dove invece si uccidono? Una vita da intendersi come ovvio sviluppo del piano concepito da frate Lorenzo per salvarli, dunque fuggendo a Mantova per poi andare chissà dove. Come avrebbero messo a frutto la loro accresciuta giovinezza? Sicuramente abbagliati dalla folgorazione dell’avventura. Questo almeno per un po’ all’inizio, ma in un progressivo degrado della spinta vitale poi. Senza risorse, senza supporti, e del tutto disabituati al disagio. Due hippy ante litteram. Come si sarebbero guadagnati da vivere? questo improvviso cambio di marcia del loro trand quotidiano quanto li avrebbe resi diversi l’uno dall’altra, e quanto diversi e distanti sarebbero potuti divenire i loro nuovi sogni?




Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso: “l’amore aveva fatto di lui un rifiuto sociale, ciò di cui egli si compiaceva”. R. & G. sarebbero stati entrambi destinati a divenire due rifiuti sociali (in questo senso le famiglie hanno già decretato una condanna a morte lasciata in sospeso, come quella emessa dal principe nei confronti del ragazzo). E lo stesso sarebbe toccato a J. & R. sbarcando a New York da emigranti di terza classe. Orgogliosi del proprio degrado.

 


Moglie e marito si dicono ‘consorti’ poiché spartiscono la stessa sorte. R. & G. non lo fanno: nel breve corso di tempo che li contempla insieme, ognuno dei due vive il suo percorso individuale. Uno scappa, l’altra sta. Lei deve contrastare un editto paterno di cui il ragazzo non sa nulla, come lei non sa del servo incaricato dal suo sposo di sorvegliarla. Ciò che è motivo d’apprensione per l’uno non lo è per l’altra. Sono entrambi soli anche nel ritenersi uniti. Immaginare d’esserlo è il loro modo per desiderarlo senza dirsi che non lo sono. La vera frustrazione della storia è nelle loro due morti così separate, solitarie e diverse. Abissalmente distanti l’una dall’altra.

Per contrasto, nel canzoniere domestico di Donne batte il vero tempo condiviso nel reiterarsi dei cicli naturali: “il suo primo, il suo ultimo, / il suo perpetuo giorno”, il “perpetuo giorno” è la misura inconfutabile della vera longevità amorosa, da Donne codificata in un carme che al penultimo verso con nobile tenerezza auspica le nozze di diamante con la sua Anne: “si ami nobilmente, e si viva e si aggiunga / anno ad anno, finché si possa scrivere / tre volte venti. È l’anno, questo, / secondo del nostro regno”. “Regno” è il modo per dire ‘matrimonio’. Regno domestico. Più d’una casa. I due ragazzi, per ambire al loro ‘regno’, avrebbero iniziato con lo sbarazzarsi anche d’un tetto. E almeno quel vero principio d’un possibile amore a venire sarebbe stato bello. Ma…

… assai spiritosamente Baldini scrive: “se la sorte avesse concesso a Romeo e Giulietta (…) di sposarsi e mettere su famiglia, non ci sarebbe stato da aspettarsi niente di buono tant’erano inesperti. La loro stessa natura schizzinosa e intellettualistica avrebbe fatto presagire screzi, incompatibilità di carattere e persino quella che, oggidì, certi tribunali per i divorzi chiamano ‘crudeltà mentale’”. A meno di non vivere da raminghi, affidandosi alla carità altrui. Due bocconi pronti per avvocati divorzisti, insomma.

C’è un momento, fugacissimo ma c’è, in cui uno dei due profana l’altro. È quando Giulietta insulta il proprio sposo non tanto per il fatto di averle ucciso il cugino (la sofferenza della ragazza sembra tutta inventata dai genitori), quanto perché col suo omicidio Romeo avrebbe fatto trasparire un aspetto di sé inopinato e falso, e questo a prescindere.

Vale la pena notare come circa l’accaduto non vi saranno chiarificazioni ulteriori, tuttavia Romeo, se non perdonato, è ben presto silenziosamente fatto oggetto di amnistia da parte di lei, che non menzionerà mai più la cosa. Lo stesso farà Rose riguardo all’accusa di furto toccata a Jack. Nessuna prova giungerà a discarico del ragazzo, che resterà gravato dall’ombra del sospetto, ma senza che per lei valga più la pena di tornarci sopra.

 

Auden: “Romeo e Giulietta confondono romance e amore”, traslando: sono letterari se vivi, naturali se letterari. Sentimento che spesso sgorga insopprimibile dall’invidia.

 

W. H. Clement, The Development of Shakespeare’s Imagery: “Romeo e Giulietta non divagano per una sola battuta, essi non esprimono che la propria identità e il proprio amore reciproco, ma le loro parole rivelano la bellezza della natura, sfondo di quella notte meravigliosa. D’altro canto, questa fusione delle immagini della natura con la natura stessa è perfetta e completa soltanto perché Romeo e Giulietta hanno essi stessi un rapporto personale con i poteri della notte”. Frasi che mi suggestionano con l’idea che la coppia incarni, senza la necessità di un cambiamento fisico visibile come quello di Dafne che si fa alloro, una perfetta metamorfosi ovidiana. Raggiungendosi diventano altro, tanto basta. Ma non siamo noi stessi questo? Non siamo noi stessi un continuo avvicendarsi in noi, e tra noi, di metamorfosi ovidiane? Internamente, non siamo cieli ingombri di nuvole che si sformano e si riformano senza requie?

Il paesaggio, da loro stessi prorompendo, li risucchia e se ne appropria.

La più grande invenzione di Shakespeare, secondo la lettura di Bloom, è l’io interiore che non solo cambia di continuo ma si accresce di continuo. R. & G. vivono appunto un eccesso di crescita repentina, esplosiva. Interminata (date già un’occhiata all’ultima/non ultima riga di questo libro).

R. & G. (ma anche J. & R.) si sanno plotinianamente ‘anfibi’ (così Plotino definisce le anime, che vivono in parte la vita di lassù e in parte la vita di quaggiù). Non inclini alla filosofia, ma semmai a essere misurati col metro della filosofia, i due stanno nel basso e stanno nell’alto, prede di una trance che non è mai estatica, mai trascendentale, né, a mio giudizio, mai passionale, traducendosi, bensì, in una pura forma di sorprendente diversità.

R. & G. (ma anche, in parte, J. & R.), all’interno di un consorzio dove qualsiasi vincolo di qualsiasi tipo (matrimoniale, aziendale o di amicizia) è compartecipe di un solo e ben arginato nucleo sociale, istituiscono la vera coppia, che, tollerata in astratto con epidermica simpatia, è di fatto improponibile, ingestibile e inassimilabile, in quanto frutto di un irregolare movimento a due mal sopportato dalla memoria storica della collettività.

Ho scritto decenni fa: “la passione, scoprirai, è niente”. Se la vuoi c’è, se non la vuoi no. La passione, se licenziata all’interno dell’essere con sufficienza, può inverare l’apparente paradosso di Pascal, fra i più fulminanti dei suoi Pensieri: “Chi vuole fare l’angelo, fa la bestia”.

Accettare o meno la passione è atto che avviene per indole, ma pur sempre nell’area della coscienza. I movimenti della passione non sfuggono alla ragione, anche se è la stessa ragione, scaltramente, a farsi presumere assente nel furore che produce. Dicevo ‘per indole’. Se i due protagonisti del nostro dramma siano dei passionali o meno - se lo sia solo uno o se lo siano entrambi - non ci è dato saperlo. Nella storia di cui partecipiamo appaiono semmai come dei trascinati. La passione susseguente all’attrazione pretende uno sforzo muscolare della psiche, un impeto volontario, e nel testo non mi pare che si faccia mai allusione a nulla del genere.

La vera passione è quando cessa d’essere surrealista.

Romeo, prima del congedo nella scena del balcone: “Vuoi lasciarmi insoddisfatto così?”, Giulietta: “E quale soddisfazione potresti avere stasera?”. Nel pronunciarsi di questa replica sono già entrambi nudi.

 


Questo testo è un estratto ripreso da Giuseppe Manfridi, Shakespeare su Titanic, Edizioni Efesto, 2025, 2 voll. 1110 pp, I edizione a tiratura limitata con copie numerate, firmate e illustrate con 64 tavole a colori, 80 euro, che può essere ordinata sul sito:

https://www.libreriaefesto.com/home/1170-shakespeare-sul-titanic.html

 

GIUSEPPE MANFRIDI




BIONOTA Giuseppe Manfridi, (Roma nel 1956) è drammaturgo, romanziere e sceneggiatore. Dalla metà degli anni Ottanta il suo teatro è costantemente rappresentato in Italia e all’estero. Giacomo, il prepotente, nel novembre del ’98, ha debuttato al “Théâtre des Champs-Elysées” di Parigi, mentre Zozòs, nel 2000, è stato allestito al “Gate Theatre” di Londra, con la regia di Peter Hall, e ripreso al “Barbican” nel 2003. La partitellaGiacomo, il prepotente e L’osso d’oca sono state trasmesse da RAI DUE. Tra le sue sceneggiature, Ultrà (regia di Ricky Tognazzi, Orso d’argento al Festival di Berlino nel 1991). Nel 2006 l’editore Gremese ha pubblicato il romanzo Cronache dal paesaggio e più di recente La cuspide di ghiaccio. Entrambi i romanzi sono entrati nella selezione finale del Premio Strega. Nel 2016 La Lepre Editore ha pubblicato Anatomia della gaffe.

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