Il dottore, appicciafuoco e l'Italia preindustriale. Altopiano della Sila, anni Settanta (NARRATIVA) ~ di Luigi Ananìa - TeclaXXI
NARRATIVA
IL DOTTORE, APPICCIAFUOCO E L'ITALIA PREINDUSTRIALE
(Altopiano della Sila, anni Settanta)di Luigi Ananìa
Io
ero un ragazzo e guardavo sempre il dottore e Appicciafuoco, ambedue nati negli
anni Venti del Novecento. Li guardavo che parlavano l’uno di fronte all’altro
all’ombra dei pini o in un campo appena falciato nel periodo della fienagione.
Il fieno giaceva a file nel campo e loro erano lì che rigiravano le mani e gli
sguardi mentre discutevano se raccoglierlo subito, se lasciarlo ancora qualche
giorno a terra, se rivoltarlo e aspettare ancora una notte e qualche ora. La ragione di quel parlare appassionato era
un colore, il verde-azzurro che il fieno raggiunge soltanto a un certo tenore
di umidità e che è l’indice di qualità e di alta capacità nutritiva; parlavano
per ore di quel colore, di come ottenerlo interagendo con il sole e di come
organizzare la raccolta prima che quel verde azzurro svanisse perdendo bellezza
e capacità nutritive. Ogni estate, come in un gioco interminabile di sfida e di
rispetto, discutevano del tempo e del colore con gli stessi gesti e con le
stesse espressioni e io pensavo che quella scena si sarebbe ripetuta
all’infinito e non credevo a chi mi diceva che prima o poi le cose finiscono.
Quando l’estate seguente li rivedevo uno di fronte all’altro tra me e me
dicevo: “Vedete, non finisce niente,
succede la stessa cosa anche quest’estate e la prossima sarà lo stesso”.
Ricordo
una volta che parlavano in una valle percorsa da un’autostrada appena
costruita; l’autostrada si dipartiva in ascesa come se andasse nel cielo e
sembrava che anche le idee di Appicciafuoco e del dottore andassero via nel
cielo e ritornassero l’anno seguente in un andirivieni di pensieri e di tempo.
Appicciafuoco si poggiava sulle due gambe compatte e su un forcone che si
conficcava sul terreno come una terza lunga appendice; sul suo capo, grande e
abbronzato c’era un cappello di paglia che durante la discussione con il
dottore si aggiustava, ponendolo quando avanti quando un po’ indietro. Mentre
parlava a volte prendeva dalla tasca una scatola di ottone che utilizzava per
portare il tabacco e le cartine; con il pollice e con l’indice tirava fuori il
tabacco, rigirava una cartina, si inumidiva le labbra, bagnava l’orlo della
cartina e avvoltolava una sigaretta. Il fare le sigarette, i movimenti del cappello
e le labbra che atteggiava a smorfie di incredulità e di scherzo erano i segni che
davano maggior senso ai suoi pensieri. Davanti a lui il dottore spiegava le
ragioni e gli accorgimenti necessari per ottenere il colore perfetto del fieno
e tra le dita, che si contorcevano, pareva che carpisse e modellasse il senso
del tutto. I suoi ragionamenti si soffermavano sull’andamento stagionale e sui
tempi e i modi della raccolta, ma osservando il suo sguardo socchiuso sul filo dell’orizzonte
sembrava che una parte di sé cercasse una relazione costante e interminabile
con la vita. Guardandolo immaginavo di ritrovare nel suo modo di essere lo
stesso mio rifiuto della fine di ogni cosa e una domanda continua d’infinito.
L’infinito lo cercava ovunque, nella moglie, nei figli, nella bellezza, nella
cura dei suoi boschi e in alcuni quadri in cui si perdeva e perdeva il senso
del tempo. Quando camminava nei suoi boschi sembrava che seguisse tra la terra
e il cielo i sentieri della sua mente. A tratti marchiava gli alberi da
tagliare con un colore rosso: i più vecchi che toglievano luce ai più giovani,
i più stentati che sarebbero morti tra poco, i più esposti alle intemperie e
intanto guardava quelli che decideva di lasciare. Ai figli spiegava che così facendo
assecondava la selezione naturale e manteneva la famiglia e i boschi per
sempre. Una volta si rattristò quando il figlio piccolo vide tremare un vecchio
pino che stava per essere abbattuto e lo accusò di essere un assassino di
alberi vecchi. Il giorno seguente, dopo una notte insonne, indicò al figlio una
montagna brulla dove un confinante aveva tagliato un bosco intero affianco a un
bosco che lui e Appicciafuoco avevano diradato anni addietro e che ora cresceva
in un’armonia di spazio e di luce; poi lo portò sulla sommità di una montagna e
gli mostrò l’infinito che baluginava fra le cime di tre splendidi abeti.
Nei
giorni d’estate tra l’alba e il tramonto parlava spesso con Appicciafuoco della
moglie, dei figli, degli alberi e del fieno e insieme ridevano e piangevano;
l’amicizia tra loro era una continua altalena di vicinanza e lontananza, tra
un’intimità di origine infantile, quando giocavano insieme sulla ghiaia, e una
distanza che si ricreava per il risorgere improvviso del rapporto tra padrone e
servitore. Questa distanza breve ed evanescente si ricreava quando fra di loro
si doveva riaffermare la rispettiva collocazione nel mondo ed era ben
rappresentata dalle diverse acconciature delle loro teste: il dottore aveva sin
da bambino la testa sistemata a modo con la brillantina e i capelli
all’indietro, mentre Appicciafuoco mostrava i capelli radi di uno splendido
colore grigio frammisto di pigmenti e polvere che appariva inconciliabile con
la brillantina del dottore. Il capo lucente di brillantina Atkinsons era
l’emblema di una nuova soglia di pulizia, di decoro e di ipotetica igiene tra
il dottore e i suoi recenti antenati che indossavano anch’essi cappelli simili
a quello di Appicciafuoco. Quando poi la distanza si riduceva e tornava l’intimità
parlavano anche di politica cercando insieme una confusa idea di progresso del Meridione
e della propria terra dove a ogni domanda si rispondeva con un’altra
domanda. Io che sentivo tutte quelle
domande e quelle risposte in forma di domanda crescevo con un’idea di lingua
che non serviva a spiegare il mondo, ma che da esso si trasferiva in un
universo in cui parole, significati e immagini diventavano intercambiabili; infatti,
le domande-risposte rimandavano spesso ad altri contesti che niente avevano a
che fare con le domande originarie e generavano una confusione di suoni che si
mischiavano alle immagini delle televisioni gracchianti di allora. Quel marasma
generale s’insinuava come un sogno in quell’impressione di vita senza fine che
sentivo guardando le montagne e il fumo che riempiva la bocca di Appicciafuoco
come una caverna. Quando distoglievo lo sguardo da loro due, osservavo tutto
quello che era ascendente e vedevo boschi curati come giardini, boschi selvaggi
e case con pilastri di cemento che si innalzavano da un primo piano incompleto
a fianco di altri primi piani incompleti; soltanto i piani terra erano finiti, mentre
quelli superiori erano inizi di abitazioni per i figli e rimanevano per anni
degli spazi abitati dal futuro e dal nulla. A volte anche i piani terra erano
disabitati e incompiuti e l’intera struttura era uno scheletro attorno al quale
il bestiame pascolava indifferente.
Adesso,
ogni volta che torno in quei luoghi, mi domando se quegli strani edifici
attraversati dal vento sono gli stessi di prima o se sono costruzioni nuove per
altri figli e altri nipoti. Da quando il dottore e Appicciafuoco si fermavano e
parlavano per ore e ore, il paesaggio non è cambiato molto; la geografia è
quasi la stessa ed è facile per me ritrovare i punti in cui indugiavano creando
quel cerchio immaginario di sguardi, pensieri ed espressioni, da cui
scaturivano idee sul colore perfetto del fieno e ipotesi sull’avvenire dei
figli e del mondo.
LUIGI ANANÌA
Presso le edizioni DeriveApprodi ha curato l'antologia di
racconti sul vino "Confesso che ho bevuto” (insieme a Silverio Novelli,
2004) e ha pubblicato "Avant' ieri, storie di emigrazione tra la Sila,
Torino e Buenos Aires" (2009), "Pixel, la realtà oltre lo
schermo dei media” (di nuovo insieme a Silverio Novelli 2012), "Storie di
volti e parole” (2016) e “Bestiario umano” (2021), ambedue in collaborazione
con Nicola Boccianti. Ha scritto racconti per “Il semplice",
"Maltese narrazioni" e "Nuovi argomenti”. “Condominio aereo” è
uscito nel giugno 2025 per la casa editrice Castelvecchi.
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