Un museo al mattatoio: gli operai di Zola al Louvre (CONTAMINAZIONI ARTISTICHE) ~ di JACQUELINE SPACCINI - TeclaXXI
CONTAMINAZIONI ARTISTICHE
UN
MUSEO AL MATTATOIO:
gli operai di Zola al Louvre
di
Jacqueline Spaccini
Hubert Robert, Projet d’aménagement de la Grande Galerie du Louvre Pendant de Vue imaginaire de la Grande Galerie du Louvre en ruines, 1796 ©Louvre open access
L’Assommoir
è indubbiamente il più noto dei venti romanzi del ciclo Rougon-Macquart ideato
da Émile Zola. Il titolo, invero, ha posto sempre qualche difficoltà al
traduttore di turno: assommer vuol dire assestare un colpo deciso (una bòtta,
per restare nel registro di lingua scelto dall’autore) con un randello, mazza o
martello sulla parte più vulnerabile, la testa in genere, di un animale (ma
perché no, anche di un essere umano), con lo scopo di tramortirlo, prima di
sgozzarlo e sventrarlo, uccidendolo quindi definitivamente. Era una pratica
comune nei mattatoi[1],
allorquando venivano introdotti – ancor vivi e agitatissimi – gli animali da
macellare, fossero essi suini, bovini oppure ovini. Quindi tradurre tale parola
con scannatoio o ammazzatoio (qualcuno ha proposto anche assommuàr[2]), appare da subito un
tentativo che, pur avvicinandosi – l’uno per pratica successiva, l’altro per
risultato finale – al significato francese, non lo restituisce pienamente.
E dunque, si diceva: l’Assommoir. Esso è il nome metaforico (se non addirittura allegorico) della bettola del Père Colombe. Siamo nel Ventennio di Napoleone III, quello del Second Empire. All’epoca, i locali – bar od osterie che fossero - con mescita e vendita di alcolici, avevano per insegna qualcosa tipo Chez[3] Céleste, Chez Louis. Nulla di pretenzioso, ma nel romanzo, al più pragmatico[4] Chez le Père Colombe, Zola preferisce L’Assommoir, in quanto i suoi frequentatori entrano sobri e ne escono tramortiti («accoppati») dall’alcool.

Giacché la traduzione
italiana del titolo del romanzo di Émile Zola non è (né può essere)
perfettamente corrispondente, qui, si è preferito il termine «mattatoio»,
scegliendo non già la tecnica di «abbattimento», bensì il luogo della sua
esecuzione.
Siamo dunque attorno al
1850, poco prima del colpo di stato di Louis-Napoléon Bonaparte presidente
della Seconda Repubblica francese, il quale grazie a un referendum – truccato – diverrà
imperatore della Francia per i successivi vent’anni.
Decidono di sposarsi. La data
scelta cade in una bella giornata di sole: si farà un matrimonio civile e poi
anche quello religioso con una piccola messa a pagamento, accompagnati da
alcuni inquilini del loro condominio[9]. Per il pranzo, nulla di
meglio che un pic-nic a cento soldi per persona Chez Auguste, al
Moulin-d’Argent, una botteguccia con il vino a buon prezzo, tavoli e panche nel
retrobottega in un cortile aperto, al riparo di tre acacie.
Ma un acquazzone
spariglia ogni programma e nell’attesa che il cielo schiarisca almeno un poco,
ognuno propone di fare qualcosa: chi vorrebbe intrattenersi giocando a carte,
chi mangerebbe volentieri una focaccia alla cipolla, chi ancora fare una passeggiata al cimitero di Père Lachaise. Poi, uno dei quattro
testimoni di nozze, M. Madinier, che ha un laboratorio di legatoria al terzo
piano, osserva: «Beh, potremmo andare al museo!»[10].
E qui si entra nel cuore
di questo studio: la combriccola che cosa e come vedrà le opere d’arte? O per
meglio dire: quale sguardo farà loro posare, quali riflessioni farà scaturire
il marionettista Zola?
Quali opere da illustrare
e commentare sceglierà il romanziere?
Il museo in questione è
il Louvre. Il corteo nuziale entra dal lato dell’arte assira e la prima cosa
che avverte è la sua grande frescura, di certo ottima per una cave à vin, una cantina, come si deve. Passando
per la sala egizia e levando gli occhi verso l’alto, incontrano «bestie
mostruose, metà gatte e metà donne, con volti cadaverici, nasi striminziti e
labbra gonfie. Trovarono tutto molto brutto»[11].
Superano velocemente l’arte fenicia: Monsieur Madinier li trascina altrove, questa gran quantità di pietra, infatti, non vale nulla. Tutti convengono che oggi è lavorata assai meglio… Giunti al primo
piano, in un silenzio reverenziale, accedono ai dipinti della Galerie
française.
Lì vengono attirati dal grande quadro della Zattera della Medusa (1818-1819), opera di Théodore Géricault, dipinta subito dopo il naufragio della fregata francese. Madinier, che frequenta assiduamente gli artisti, spiega allora agli astanti il soggetto della tela; tutti rimangono profondamente toccati: un quadro davvero efficace, sorprendente[12], sentenzierà in chiosa Boche, il portinaio della rue Goutte-d'or.
Giunti al Salon Carré, il
corteo si trova dinanzi alle Nozze di Cana del Veronese che Gervaise non
riesce a riconoscere, come tale. Né mai potrebbe. Qui la satira sociale di Zola prende il
sopravvento: a chi verrebbe fatto di pensare davanti a tanta magnificenza, a un
banchetto allestito con prodigalità e varietà di cibo, a cotanti lussureggianti abiti,
riflesso di una moda veneziana di metà Cinquecento …. che ci si trovi nell’umile Galilea e che il dipinto rappresenti il primo miracolo di Gesù, la
tramutazione di acqua in vino[13]?
In fondo alla sala, stanno intanto i Gaudron (lei cardatrice di materassi, lui non si sa), ammutoliti dinanzi a un quadro: «il marito a bocca aperta, la moglie con le mani sul ventre, restavano turbati, inteneriti e conquistati davanti alla Vergine del Murillo»[14].
È questo un quadro di cui sicuramente non capiscono la tecnica né l’arte, ma che sanno riconoscere non in quanto timorati di Dio, bensì per l’aspetto familiare: la levatrice, infatti, si appresta a lavare la neonata, futura madre del Cristo, aspettando che l’acqua posta sul caminetto acceso sia abbastanza calda, mentre nella penombra, di lontano, si vede una vecchia madre stanca, S. Anna, che deve ancora riprendersi dal difficile parto. Il quadro è dunque una sorta replica della vita di Mme Gaudron, perennemente incinta, con un ventre gonfissimo che lei mette in evidenza a ogni occasione[15]. La coppia ha già nove figli, biondi e bruni; mal curati per la verità: nel romanzo il narratore sottolinea il ribrezzo manifesto di Gervaise davanti alla biancheria di questa famiglia, sudicia oltre l’inverosimile. Riconoscere nel dipinto – nella figura di S. Anna – la propria maternità, innalza in verità la stessa Mme Gaudron dall'umile condizione in cui si trova: le madri, persino le sante, partoriscono nel dolore estenuante del dare la vita, ma questa stessa fatica le rende degne di ammirazione. Va da sé che questa non è una consapevolezza acquisita razionalmente, qui siamo nella sfera dell'istintualità.
Non avrà minor riguardo, Zola, per l’insipienza di Madinier e di Mme Lorilleux, sorella di Coupeau. Così come il fratello della stessa aveva riscontrato una certa somiglianza tra la Monna Lisa di Leonardo e una sua lontana zia, così davanti a un quadro di Tiziano[16], la donna vorrebbe sapere tutto della «concubina di Tiziano, la cui capigliatura trova […] essere simile alla sua». Allora Madinier replica dicendo che la donna rappresentata è in realtà la concubina di Enrico IV[17]. Ovviamente, La Belle Ferronnière (quadro, peraltro, di Leonardo) era stata sì l’amante di un re, ma di Francesco I, vissuto all’incirca un secolo prima.
A parte il riferimento
malizioso di Mme Lorilleux all’immagine di una donna nuda, l’autore vuole
sottolineare una volta di più l’impossibilità di una classe sociale – non
ancora perfettamente consapevole di essere tale – di poter accedere alla
cultura, un mondo lontanissimo ed estraneo dalle loro realtà quotidiane. Boche
e Bibi-la-Grillade, poi, provano una subitanea eccitazione, rimirando le cosce
nude di Antiope[18]. In realtà, Zola
evidenzia altresì il disinteresse dell’istituto museale nel voler rendere edotti i
visitatori («Gervaise domandò il soggetto delle Nozze di Cana; era cosa
stupida non indicare i soggetti sulle cornici»[19]). Chi sa, sa. E tanto
peggio per chi non sa.
Il corteo
nuziale trova finalmente un quadro di cui comprendono ogni parte, ogni
movimento, ogni intenzione. Si tratta della Kermesse (1635-1638) di
Rubens, dipinto cui sono attribuiti altri due titoli: La festa del villaggio
o Nozze paesane.
In realtà, nulla lascia
intendere che si tratti di un matrimonio: sembrerebbe semmai una sagra, una festa
paesana, come il termine di origine fiamminga lascerebbe intendere, rinviando ora a Pieter Bruegel il Giovane ora ad Adriaen Brouwer. Allo spettatore si dà in pasto una specie di baccanale, di danze sfrenate miste ad avances pesanti,
mentre da un lato le donne allattano a seno nudo i loro infanti, dall’altro alcuni festanti - ormai troppo ubriachi per stare in piedi - dormono saporitamente con il
capo poggiato sulla tavola. E i cani fanno festa, mentre un maialino sporge, indeciso,
il grugno fuori dal suo casotto.
Ora son tutti contenti: «Vedete!
ripeteva Boche, questo sì che vale il denaro speso. Eccone uno che vomita. E
quello innaffia i pisciacani[20]. E quell’altro, oh
quell’altro!... Bene, son precisi, qui! — Andiamocene, disse il signor
Madinier, contentissimo della sua vittoria. Non c’è altro da vedere da questo
lato»[21]. Ora possono andar via.
Ognuno è figlio del suo tempo ed è condizionato dall’ambiente in cui nasce e vive, questa è la tesi di Émile Zola. Migliore fortuna non avrà il figlio di Gervaise, Claude Lantier, divenuto un pittore ricalcato sulla figura dell’amico Paul Cezanne.
Non c’è infatti nessuna possibilità di liberazione per il naturalista che voleva mostrare (e dimostrare) l’inesorabile descente aux enfers di chi s’era provato a uscire dalla propria condizione biologica e sociale. Chi volesse vedere l'evoluzione nella società degli operai, la loro consapevolezza, la coscienza di classe, si veda l'alienazione prima in Tempi moderni (1936) di e con Charlie Chaplin e poi La classe operaia va in paradiso, di Elio Petri, anno domini 1971.
[1] Oggi la pratica non è meno atroce,
solo meno cruenta: gli animali per il macello alimentare vengono introdotti nella
zona di stordimento, immobilizzati e resi incoscienti e insensibili con
scariche elettriche sulla sola testa o su tutto il corpo, provocando uno
stato di immediata incoscienza in cui le bestie da macellare debbono rimanere fino al completo
dissanguamento e sventramento, cui segue la morte.
[2] Cfr. Policarpo Petrocchi e Louis Standaert
nel 1880, con l’autorizzazione dell’autore.
[3] «Da» seguìto generalmente da nome di battesimo, quasi fosse un appellativo di parentela, in
francese ha il senso rassicurante di trovarsi presso qualcuno di famiglia, di
cui potersi fidare, qualcuno che ti accoglie con cordialità e attenzione e ti
fa mangiare come se fossi a casa tua. Qui, l’ironia di Zola è sferzante: il
gestore del locale è un quarantenne nerboruto, non ha nulla di paterno, né di
una pacifica colomba: finge una cordialità che scompare immediatamente all’ora
di chiusura, quando sbatte fuori senza troppi complimenti gli avventori
inebetiti dall’alcool, ancora incollati ai tavoli.
[4] In realtà, il narratore riferisce
che si distingue ancora quella originaria: l’unica dicitura che campeggia è distillation
[L’enseigne portait, en longues lettres bleues, le seul mot : Distillation,
d’un bout à l’autre.]
[5] Paese fittizio per il quale Zola si è ispirato a quello della sua infanzia e adolescenza dove ha vissuto per quindici anni, Aix-en-Provence. Nella Fortune des Rougon (1871-1873), il lettore fa la conoscenza per la prima volta della giovanissima Gervaise Macquart, lavandaia di professione. Nata con una malformazione ossea alla coscia destra, determinata da un calcio del padre al ventre gravido della madre, Gervaise zoppica vistosamente. In compenso, ha un volto bellissimo. Ha per amante Auguste Lantier, operaio conciatore; a 14 anni mette al mondo il primo figlio, Claude (L'Œuvre, 1886), vive ancora con i genitori, beve su istigazione della madre ed è percossa dal padre che le sottrae anche i suoi pochi guadagni. In coppia con Lantier metterà al mondo anche Jacques - di questo figlio il lettore apprenderà l’esistenza diegetica molto più tardi - (La Bête humaine, 1890) ed Étienne (Germinal, 1885). Da Coupeau avrà Anna (Nana, 1880).
[6] Ouvrier zingueur: operaio
zincatore: i tetti di Parigi sono di zinco e di ardesia.
[7] Sciroppo di ribes nero. In seguito
alla morte del padre, operaio sui tetti come lui, morto per esser caduto
ubriaco da un tetto sul quale stava lavorando, Coupeau decide che non berrà mai
alcolici.
[8] Nella preparazione della grappa, viene
aggiunto il frutto dal quale si ricava: in genere una pera, una prugna o una susina.
La Mirabelle è un tipico esempio.
[9] Gli invitati alle nozze sono tredici:
la madre, maman Coupeau, e due sorelle dello sposo, Mme Lorilleux e Mme Lerat, alcuni inquilini della rue de la Goutte-d’or, come il
portinaio Boche, M. Madinier, la coppia dei Gaudron, Mme Fauconnier, Mlle
Remanjou e infine dei colleghi nonché compari di bevute di Coupeau come Bibi-la-Grillade
e Mes-Bottes.
[10] [— Mon Dieu ! dit-il, on pourrait aller au musée…].
[11] [(…), bêtes monstrueuses, moitié chattes et moitié femmes, avec des
figures de mortes, le nez aminci, les lèvres gonflées. Ils trouvaient tout ça
très vilain].
[12] [Quand on se remit à marcher, Boche résuma le sentiment
général : c’était tapé].
[13] Vangelo secondo Giovanni: 2,1-11.
[14] Sebastian Murillo, La Natività della Vergine, 1661 [Et, tout au bout, le ménage Gaudron, l’homme la bouche ouverte, la femme les mains sur son ventre, restaient béants, attendris et stupides, en face de la Vierge de Murillo].
[15] [La femme, énorme, étalant son ventre de femme enceinte, dont sa
jupe, d’un violet cru, élargissait encore la rondeur].
[16] Si tratta della Venere del
Pardo (1551 ca.), una tela del Vecellio che nel romanzo viene invece definita Giove
e Antiope. Il Pardo è un palazzo reale spagnolo che prende nome da El
Pardo, la zona nord di Madrid.
[17] [Comme elle s’intéressait à la maîtresse du Titien, dont elle
trouvait la chevelure jaune pareille à la sienne, il la lui donna pour la belle
Ferronnière, une maîtresse d’Henri IV].
[18] [Boche et
Bibi-la-Grillade ricanaient, en se montrant du coin de l’œil les femmes
nues ; les cuisses de l’Antiope surtout leur causèrent un saisissement].
[19] [Gervaise
demanda le sujet des Noces de Cana ; c’était bête de ne pas écrire
les sujets sur les cadres].
[20] Si tratta dei fiori del tarassaco (dente di leone).
[21] [– Voyez donc ! répétait Boche, ça vaut l’argent. En voilà un qui
dégobille. Et celui-là, il arrose les pissenlits. Et celui-là, oh ! celui-là...
Ah bien ! ils sont propres, ici ! – Allons-nous-en, dit M. Madinier, ravi de
son succès. Il n’y a plus rien à voir de ce côté].
JACQUELINE SPACCINI
Impressionata, anche crudelmente.La storia si ripete sempre .L'ingenuità viene scambiata per stupidità. Ma quanto è stupida la cattiveria,la furbizia.E l'intontimento con cui cercano di deviarci. Siamo umani.Tutti uguali.E diversissimi...Viva il vino viva le mamme.Tutte.Con crinoline o bestioline ad accudire.Grazie J.Fede.
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