FORTI E TENACI (LE SQUADRE DEL CUORE) ~ DI FRANCO STIVALI - TECLAXXI

 

LE SQUADRE DEL CUORE

 

FRANCO STIVALI

 FORTI E TENACI

 

               Il Mister Tommaso Maestrelli e Giorgio Chinaglia, the King.


Il colore degli occhi. L'altezza o, più in generale, la corporatura. Forse l'indole o magari la forma della bocca. Difficile dire quante cose ci portiamo scritte nel nostro codice genetico, dono involontario quanto inevitabile dei nostri genitori. Una cosa però è certa, tra tutto quello che si eredita va sicuramente annoverata la passione per una data squadra di calcio. Così era scritto, ed era inevitabile, che io nascessi laziale per eredità da parte di padre e di madre e relative famiglie. Nel tifo, insomma, si procede di padre in figlio, così come è stato battezzato l'evento che, il 12 maggio 2014, ha riunito allo Stadio Olimpico decine di migliaia di tifosi biancazzurri per festeggiare il quarantennale del primo scudetto.

Certamente esiste qualche eccezione, una specie di mutazione genetica, per cui un povero genitore si trova un figlio che, inspiegabilmente, tifa per una squadra diversa dalla sua; ma lasciamo stare gli imprevedibili comportamenti, cui ci ha abituati madre natura e torniamo a noi.

Laziale, dicevamo, innanzitutto per parte di padre, il quale, essendo nato in provincia e per giunta a ridosso della Ciociaria, non poteva che essere lazziale. Sì, con due zeta, perché il raddoppio dopo il gol del vantaggio non sempre a Roma è garantito, mentre lo è quello di una consonante a piede libero.

Quindi, da padre «burino», necessariamente figlio laziale. E qui bisogna fare un primo ragionamento sulla «romanità». Poiché, se a una prima superficiale analisi sembrerebbe che venire da fuori le mura possa impoverire il livello di appartenenza all'Urbe, qualora la terra di provenienza in questione fosse il Lazio sarebbe invece vero l'esatto contrario.

I versi dell’Eneide con cui Virgilio descrive le sponde dove Enea sbarcherà per fondare la nuova città in cui potrà finalmente riporre il Palladio che si portava dietro da Troia, raccontano di una terra splendida, l'unica adatta ad accogliere la grandezza di Roma.

 

Iamque rubescebat radiis mare et aethere ab alto
Aurora in roseis fulgebat lutea bigis…

 Già sotto i raggi il mare rosseggiava e dall'alto del cielo

l'Aurora nel roseo carro splendeva dorata,
quando i venti posarono, all’improvviso ogni alito
cadde e sulla calma superficie s’affaticano i remi.
Allora Enea dal mare scorge lontano un grande bosco.
In mezzo a esso corre ameno il Tevere
con salti rapidi e biondo di molto limo
si getta in mare. Vari uccelli avvezzi alle rive
e all'alveo del fiume attorno e sopra volteggiavano
sul bosco e col canto accarezzavano l'aria.

Virgilio – Eneide (Libro VII, 25-31)

 

Una terra che già era stata rifugio per un dio in fuga, Saturno, che avrebbe poi pagato il suo debito di riconoscenza donando a quelle popolazioni una mitica età dell'oro. Per ricordare tutto questo i Romani istituirono una festa, i Saturnali, che affonda la sua origine nella notte dei tempi e che, con il trascorrere dei secoli, finirà per diventare la ricorrenza più importante nella Roma imperiale.

Il Lazio è, dunque, il ventre materno in cui si compie la gestazione della futura città di Roma e legarsi al suo nome significa essere romani già prima ancora che Roma nascesse. Romani due volte, insomma.

La restante parte del mio essere laziale la devo al mio nonno materno, che in realtà, non ho mai conosciuto, se non attraverso racconti e qualche foto rigorosamente in bianco e nero.

Il suo essere presente nella mia vita, pur non essendoci più da tempo, si sostanziava in venti o trenta coppe d'argento che facevano bella mostra di sé nella casa al mare di suo figlio, mio zio. Una casa costruita dopo che lui era già morto e nella quale da bambino ho trascorso tante vacanze estive. Quelle coppe erano state vinte da una squadra di cui mio nonno era presidente e che si chiamava Forti e Tenaci.

Siamo nei primi anni del secondo dopoguerra e nella periferia di Roma, non lontano dalla bombardata San Lorenzo, c'erano ancora ben visibili le macerie di qualche casa crollata e molti polverosi calcinacci stavano anche nei cuori delle persone su cui pesava un futuro incerto, mentre nelle pance c’era ancora tanta fame, spesso nascosta per pudore e quindi più diffusa di quanto non si desse a vedere.

Far giocare dei ragazzi in un regolare campo di calcio, con le magliette e gli scarpini, in una squadra che orbitava intorno alla Lazio, significava fargli vivere un piccolo sogno o, nella peggiore delle ipotesi, regalargli un modo per tenerli lontano dalla strada. Dai racconti nelle sere d’estate e da qualche cimelio ho imparato quell'idea di lazialità fatta di ragazzi del popolo che si uniscono intorno a uno sport, perché (pur non sapendolo, lo capiscono) dalla competizione leale viene una grande lezione di vita che ti renderà forte e ti farà essere tenace e ti aiuterà a non mollare. Mai.

Di quella squadra di cui mio nonno è stato presidente, e largamente finanziatore, non è rimasto nulla. Appena qualche labile traccia in Internet, ma che non consente di risalire così indietro nel tempo. Anche le coppe vinte sono sparite, rubate in uno dei tanti furti, considerati in Italia eventi fatalmente inevitabili e come tali pazientemente sopportati. Così se si parla di trofei rubati, prima che agli immancabili torti arbitrali che ci hanno impedito di vincerli, penso a quelle coppe che non ci sono più.

Neanche la casa delle vacanze è rimasta, né quelle vie, non tutte asfaltate, della periferia di Roma che si è spostata di molti chilometri verso la campagna, portandosi via, chissà dove, quei ragazzi in maglietta e pantaloncini che tiravano calci a un pallone di cuoio, idolo effimero di cui si diviene facilmente devoti.

Tutto è rimasto soltanto nei ricordi sbiaditi di quegli anni perduti in un passato troppo remoto. Sbiaditi come i nostri colori: il bianco e il celeste, scelti per le maglie che gridano meno tra tutte quelle che tingono il verde dei campi di calcio.

L'essere sbiaditi è l'altro elemento caratteristico della nostra romanità che è nascosta nel travertino, pietra mai lucida come un marmo, né compatta come un granito e che, proprio per la sua apparente friabilità, diviene eterna nei monumenti dell'Urbe.

Sbiaditi come quelle tracce di affresco che si affacciano dai muri antichi di qualche chiesa o di una Domus ritrovata. Colori che si perdono tra i mattoni e la mistura dell'intonaco e vi affondano, diventandone la parte più preziosa e immutabile.

Non ci piacciono i colori accesi, né la confusione della massa o il tono troppo alto della voce. Forse perché, fin da bambini, siamo stati abituati a essere in pochi, una sparuta minoranza in un mezzo al circo di migliaia di milioni di tute, maglie, sciarpette e cappellini (quest’ultimo sempre scandito con ciccio-cordova e delsòl).

Tengo sulla scrivania una scritta che recita: Stupid stands alone. Smart hides within the safety of huddled masses. The stupid aren’t afraid to fail. Why? Because they are stupid. Noi laziali, anche volendo, non avremmo potuto nasconderci nella calca delle masse, noi pochi, noi felici, noi mai impauriti dal rischio di fallire. Certamente non era furbo essere laziale e neanche troppo comodo, dovendo vivere in una città in cui tutti i tuoi coetanei si muovevano sempre protetti dal branco. Niente male come scuola di vita, perché anche da una cosa futile, inutile agli occhi di molti, come può essere il tifo per una squadra di calcio, si può imparare molto.

La scritta che tengo sulla mia scrivania termina con le parole proposte nel 2010 dalla Anomaly London Advertising Agency per la campagna pubblicitaria di Diesel in UK: «Smart critiques. Stupid creates» e questo, da solo, vale il costo del biglietto. Per questo, se la lupa (simbolo vivente dell’accogliente Lazio) è stata utile per i dentini da latte della neonata Urbe, per creare il suo impero è servita la solitaria aquila, sotto la cui insegna muovevano le legioni di Roma.

Ecco, tutto questo è ciò di cui è fatto il mio essere laziale.

Non vado molto spesso allo stadio, a volte non riesco neanche a seguire la partita in televisione e non ho mai seguito la mia squadra in trasferta, però questo non vuol dire che io non sia malato di Lazio. E non di una sola, ma di tante Lazio diverse e testardamente sempre uguali. E più sono squadre matte e più ci affezioniamo e, quindi, mai a nessuna Lazio ci siamo affezionati come a quella di Maestrelli, neanche a quella, molto più forte, di Eriksson.

Ad altre numerose «Lazie» e a molti altri campioni ho legato i miei ricordi: coppe, scudetti, delusioni, rivincite e brutte batoste. Però, ancora ricordo esattamente dov'ero seduto quando la radiolina annunciò, gracchiando come sempre, che avevamo vinto il nostro primo scudetto e resta dunque Chinaglia il nostro grido di battaglia, non soltanto perché era forte, ma perché era un po’ gobbo, perché era sempre fischiato, fischiato a prescindere, fischiato solo perché era lì (altro che i vituperati buu di oggi). E poi era un po’ guascone, esagerato a volte, ma più spesso ingenuo e un po’ bambino.

E nessun altro come Maestrelli, perché aveva gli occhi buoni e si comportava da signore, mai sguaiato, mai sopra le righe e poi sembrava sempre che gli stesse per scappare di mano una carezza, come quelle che vengono da un padre e che, a ricordarle, sono più dolorose di uno schiaffo.

Poco ci importa se non abbiamo decine e decine di trofei vinti, se non abbiamo favolosi budget da spendere sul mercato delle figurine e, a volte, ci siamo trovati ad essere un po’ traballanti come società e come classifica.

Poco importa, perché ogni volta che vediamo quei colori sbiaditi in campo a dare lustro alla romanità che rappresentano, il cuore ci batte forte e tratteniamo il fiato, sperando di liberarlo poi in un urlo di gioia.

Poco importa, infine, perché esse daa Lazzio, prima di tutto, ci insegna a essere forti. Forti e tenaci nello sport, come nel tifo, come nella vita.

FRANCO STIVALI


BIONOTA 


Franco Stivali è nato e vissuto a Roma. Ha conseguito la Maturità Classica al Liceo Visconti, la laurea in Ingegneria Chimica e il Dottorato in Ingegneria dei Materiali all’Università La Sapienza di Roma. 
Ha lavorato in importanti aziende del Gruppo Fiat, Eni e Ferrovie dello Stato Italiane, ricoprendo ruoli di crescente responsabilità e occupandosi di pianificazione strategica, di innovazione e di sostenibilità. Per hobby, tra l’altro, disegna vignette di satira politica e di costume.


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