FORTI E TENACI (LE SQUADRE DEL CUORE) ~ DI FRANCO STIVALI - TECLAXXI
LE
SQUADRE DEL CUORE
FRANCO STIVALI
Il colore degli occhi. L'altezza o, più in
generale, la corporatura. Forse l'indole o magari la forma della bocca. Difficile
dire quante cose ci portiamo scritte nel nostro codice genetico, dono involontario
quanto inevitabile dei nostri genitori. Una cosa però è certa, tra tutto quello
che si eredita va sicuramente annoverata la passione per una data squadra di
calcio. Così era scritto, ed era inevitabile, che io nascessi laziale per eredità
da parte di padre e di madre e relative famiglie. Nel tifo, insomma, si procede
di padre in figlio, così come è stato battezzato l'evento che, il 12
maggio 2014, ha riunito allo Stadio Olimpico decine di migliaia di tifosi
biancazzurri per festeggiare il quarantennale del primo scudetto.
Certamente esiste qualche eccezione, una
specie di mutazione genetica, per cui un povero genitore si trova un figlio
che, inspiegabilmente, tifa per una squadra diversa dalla sua; ma lasciamo
stare gli imprevedibili comportamenti, cui ci ha abituati madre natura e
torniamo a noi.
Laziale, dicevamo, innanzitutto per parte
di padre, il quale, essendo nato in provincia e per giunta a ridosso della
Ciociaria, non poteva che essere lazziale. Sì, con due zeta, perché il
raddoppio dopo il gol del vantaggio non sempre a Roma è garantito, mentre lo è
quello di una consonante a piede libero.
Quindi, da padre «burino», necessariamente
figlio laziale. E qui bisogna fare un primo ragionamento sulla «romanità». Poiché,
se a una prima superficiale analisi sembrerebbe che venire da fuori le mura
possa impoverire il livello di appartenenza all'Urbe, qualora la terra di
provenienza in questione fosse il Lazio sarebbe invece vero l'esatto contrario.
I versi dell’Eneide con cui Virgilio
descrive le sponde dove Enea sbarcherà per fondare la nuova città in cui potrà
finalmente riporre il Palladio che si portava dietro da Troia, raccontano di
una terra splendida, l'unica adatta ad accogliere la grandezza di Roma.
Virgilio
– Eneide (Libro VII, 25-31)
Una terra che già era stata rifugio per un
dio in fuga, Saturno, che avrebbe poi pagato il suo debito di riconoscenza
donando a quelle popolazioni una mitica età dell'oro. Per ricordare tutto
questo i Romani istituirono una festa, i Saturnali, che affonda la sua origine
nella notte dei tempi e che, con il trascorrere dei secoli, finirà per
diventare la ricorrenza più importante nella Roma imperiale.
Il Lazio è, dunque, il ventre materno in
cui si compie la gestazione della futura città di Roma e legarsi al suo nome
significa essere romani già prima ancora che Roma nascesse. Romani due volte,
insomma.
La restante parte del mio essere laziale
la devo al mio nonno materno, che in realtà, non ho mai conosciuto, se non
attraverso racconti e qualche foto rigorosamente in bianco e nero.
Il suo essere presente nella mia vita, pur
non essendoci più da tempo, si sostanziava in venti o trenta coppe d'argento
che facevano bella mostra di sé nella casa al mare di suo figlio, mio zio. Una
casa costruita dopo che lui era già morto e nella quale da bambino ho trascorso
tante vacanze estive. Quelle coppe erano state vinte da una squadra di cui mio
nonno era presidente e che si chiamava Forti e Tenaci.
Siamo nei primi anni del secondo
dopoguerra e nella periferia di Roma, non lontano dalla bombardata San Lorenzo,
c'erano ancora ben visibili le macerie di qualche casa crollata e molti
polverosi calcinacci stavano anche nei cuori delle persone su cui pesava un
futuro incerto, mentre nelle pance c’era ancora tanta fame, spesso nascosta per
pudore e quindi più diffusa di quanto non si desse a vedere.
Far giocare dei ragazzi in un regolare
campo di calcio, con le magliette e gli scarpini, in una squadra che orbitava
intorno alla Lazio, significava fargli vivere un piccolo sogno o, nella
peggiore delle ipotesi, regalargli un modo per tenerli lontano dalla strada.
Dai racconti nelle sere d’estate e da qualche cimelio ho imparato quell'idea di
lazialità fatta di ragazzi del popolo che si uniscono intorno a uno sport,
perché (pur non sapendolo, lo capiscono) dalla competizione leale viene una
grande lezione di vita che ti renderà forte e ti farà essere tenace e ti
aiuterà a non mollare. Mai.
Di quella squadra di cui mio nonno è stato
presidente, e largamente finanziatore, non è rimasto nulla. Appena qualche
labile traccia in Internet, ma che non consente di risalire così indietro nel
tempo. Anche le coppe vinte sono sparite, rubate in uno dei tanti furti,
considerati in Italia eventi fatalmente inevitabili e come tali pazientemente
sopportati. Così se si parla di trofei rubati, prima che agli immancabili torti
arbitrali che ci hanno impedito di vincerli, penso a quelle coppe che non ci
sono più.
Neanche la casa delle vacanze è rimasta,
né quelle vie, non tutte asfaltate, della periferia di Roma che si è spostata
di molti chilometri verso la campagna, portandosi via, chissà dove, quei
ragazzi in maglietta e pantaloncini che tiravano calci a un pallone di cuoio,
idolo effimero di cui si diviene facilmente devoti.
Tutto è rimasto soltanto nei ricordi
sbiaditi di quegli anni perduti in un passato troppo remoto. Sbiaditi come i
nostri colori: il bianco e il celeste, scelti per le maglie che gridano meno
tra tutte quelle che tingono il verde dei campi di calcio.
L'essere sbiaditi è l'altro elemento
caratteristico della nostra romanità che è nascosta nel travertino, pietra mai
lucida come un marmo, né compatta come un granito e che, proprio per la sua
apparente friabilità, diviene eterna nei monumenti dell'Urbe.
Sbiaditi come quelle tracce di affresco
che si affacciano dai muri antichi di qualche chiesa o di una Domus ritrovata.
Colori che si perdono tra i mattoni e la mistura dell'intonaco e vi affondano,
diventandone la parte più preziosa e immutabile.
Non ci piacciono i colori accesi, né la
confusione della massa o il tono troppo alto della voce. Forse perché, fin da
bambini, siamo stati abituati a essere in pochi, una sparuta minoranza in un
mezzo al circo di migliaia di milioni di tute, maglie, sciarpette e cappellini
(quest’ultimo sempre scandito con ciccio-cordova e delsòl).
Tengo sulla scrivania una scritta che
recita: Stupid stands alone. Smart
hides within the safety of huddled masses. The stupid aren’t afraid to fail. Why?
Because they are stupid. Noi laziali, anche volendo, non avremmo potuto
nasconderci nella calca delle masse, noi pochi, noi felici, noi mai impauriti
dal rischio di fallire. Certamente non era furbo essere laziale e neanche
troppo comodo, dovendo vivere in una città in cui tutti i tuoi coetanei si muovevano
sempre protetti dal branco. Niente male come scuola di vita, perché anche da
una cosa futile, inutile agli occhi di molti, come può essere il tifo per una
squadra di calcio, si può imparare molto.
La scritta che tengo sulla mia scrivania
termina con le parole proposte nel 2010 dalla Anomaly London Advertising Agency
per la campagna pubblicitaria di Diesel in UK: «Smart critiques. Stupid
creates» e questo, da solo, vale il costo del biglietto. Per questo, se la
lupa (simbolo vivente dell’accogliente Lazio) è stata utile per i dentini da
latte della neonata Urbe, per creare il suo impero è servita la solitaria
aquila, sotto la cui insegna muovevano le legioni di Roma.
Ecco, tutto questo è ciò di cui è fatto il
mio essere laziale.
Non vado molto spesso allo stadio, a volte
non riesco neanche a seguire la partita in televisione e non ho mai seguito la
mia squadra in trasferta, però questo non vuol dire che io non sia malato di
Lazio. E non di una sola, ma di tante Lazio diverse e testardamente sempre
uguali. E più sono squadre matte e più ci affezioniamo e, quindi, mai a nessuna
Lazio ci siamo affezionati come a quella di Maestrelli, neanche a quella, molto
più forte, di Eriksson.
Ad altre numerose «Lazie» e a molti altri
campioni ho legato i miei ricordi: coppe, scudetti, delusioni, rivincite e
brutte batoste. Però, ancora ricordo esattamente dov'ero seduto quando la
radiolina annunciò, gracchiando come sempre, che avevamo vinto il nostro primo
scudetto e resta dunque Chinaglia il nostro grido di battaglia, non soltanto
perché era forte, ma perché era un po’ gobbo, perché era sempre fischiato,
fischiato a prescindere, fischiato solo perché era lì (altro che i vituperati
buu di oggi). E poi era un po’ guascone, esagerato a volte, ma più spesso
ingenuo e un po’ bambino.
E nessun altro come Maestrelli, perché
aveva gli occhi buoni e si comportava da signore, mai sguaiato, mai sopra le
righe e poi sembrava sempre che gli stesse per scappare di mano una carezza,
come quelle che vengono da un padre e che, a ricordarle, sono più dolorose di
uno schiaffo.
Poco ci importa se non abbiamo decine e
decine di trofei vinti, se non abbiamo favolosi budget da spendere sul mercato
delle figurine e, a volte, ci siamo trovati ad essere un po’ traballanti come
società e come classifica.
Poco importa, perché ogni volta che
vediamo quei colori sbiaditi in campo a dare lustro alla romanità che
rappresentano, il cuore ci batte forte e tratteniamo il fiato, sperando di
liberarlo poi in un urlo di gioia.
Poco importa, infine, perché esse daa
Lazzio, prima di tutto, ci insegna a essere forti. Forti e tenaci nello sport,
come nel tifo, come nella vita.
FRANCO STIVALI
BIONOTA
Franco Stivali è nato e
vissuto a Roma. Ha conseguito la Maturità Classica al Liceo Visconti, la laurea
in Ingegneria Chimica e il Dottorato in Ingegneria dei Materiali all’Università
La Sapienza di Roma. Ha lavorato in importanti
aziende del Gruppo Fiat, Eni e Ferrovie dello Stato Italiane, ricoprendo ruoli
di crescente responsabilità e occupandosi di pianificazione strategica, di
innovazione e di sostenibilità. Per hobby, tra l’altro,
disegna vignette di satira politica e di costume.
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