La commemorazione delle Fosse Ardeatine al liceo Visconti nella Roma degli anni Settanta (narrativa) ~ di Alessandro Iovinelli - TeclaXXI
Alessandro Iovinelli
La commemorazione delle Fosse Ardeatine
al liceo Visconti nella Roma degli anni Settanta
ingresso del liceo Visconti ©jacqueline spaccini
L'eccidio delle Fosse Ardeatine, dove per rappresaglia all’attentato a via Rasella le SS comandate dal colonnello Kappler massacrarono 335 italiani, tra civili e militari, avvenne a Roma il 24 marzo 1944. Per questo, l'anno scorso ne abbiamo celebrato l'ottantesimo anniversario. Invece quello di quest'anno sarà la ottantunesima ricorrenza – quest’ultima, quando si esamina il calendario degli eventi storici, ci appare come una data molto più ordinaria e molto meno simbolica. Eppure con l'approssimarsi di questo 24 marzo 2025 ho avuto la sensazione di entrare in un campo gravitazionale al centro del quale c’era qualcosa di importante, che attraeva la mia memoria, reiterandomi con la forza centripeta di un maelstrom un numero in particolare: 50, 50, 50 – un po’ come al cittadino Kane in Quarto Potere di Orson Welles (1941) capita di ripetersi una parola misteriosa negli ultimi istanti di vita: Rosebud… Rosebud...Rosebud… Ma il mio 50 che significato poteva avere? Poi mi è venuta la classica illuminazione: il prossimo 24 marzo si compiranno 50 anni dall’evento più drammatico (almeno potenzialmente) dei miei anni di liceo al Visconti. E di questo episodio del quale fui testimone e (mio malgrado) tra i protagonisti, voglio fare oggi il racconto storico, sia pure in forma autobiografica.
Ma procediamo con ordine.
Eravamo nel marzo 1975. Noi del movimento studentesco avevamo pensato di organizzare una commemorazione dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Era un evento storico che sentivamo ci riguardasse direttamente, anche perché tra i 335 martiri delle Fosse Ardeatine c’era stato pure un viscontino, Romualdo Chiesa (un ventenne ex alunno del liceo classico Ennio Quirino Visconti, arrestato a causa di una soffiata e incarcerato nella famigerata prigione di via Tasso, dove subì anche torture). Il suo nome è evocato su una lapide che ogni studente vede salendo l’imponente scalone di sinistra, quando arriva al ballatoio che conduce nell’Aula Magna e al primo piano del Collegio Romano. Accanto al suo nome viene menzionata un’altra figura luminosa della storia del Visconti: Raffaele Persichetti (lui era un giovane docente e cadde a Porta San Paolo, combattendo nella disperata difesa di Roma l’8 settembre 1943).
Ma Chiesa e Persichetti non costituiscono casi isolati. Tutta la storia del Visconti attesta una lunga tradizione antifascista. Nelle sue aule sono passati uomini e donne che hanno guidato la Resistenza romana. Basti citare Giorgio Amendola, Franco Rodano, Marisa Cinciari Rodano, Carlo Lizzani, Paolo Bufalini, Carla Capponi e tutti gli altri membri dei GAP (cioè i Gruppi di Azione Partigiana) che non a caso si formarono in quelle aule.
Al giorno d’oggi, non dico che i presidi e gli organi collegiali plaudirebbero a un’iniziativa del genere, ma sorprendendosi che la generazione Z, in genere dipinta come perennemente connessa a Internet sullo smartphone e assorta nell’ascolto di musica dagli auricolari, coltivasse ancora un po’ di memoria storica, di sicuro la autorizzerebbero di buon grado.
Negli anni Settanta, le cose non andavano così e ogni proposta proveniente dal mondo giovanile era valutata con sospetto e come potenziale minaccia all’ordine costituito. Faccio solo un esempio: il cineforum. Oggi parrà incredibile, ma anch’esso ce lo avevano inizialmente proibito e noi lo realizzammo ugualmente soltanto grazie a un cavillo giuridico (i decreti delegati ci consentivano un’assemblea mensile pomeridiana? Bene, nessuno avrebbe potuto impedirci di mettere all’ordine del giorno un film).
Insomma, noi ragazzi degli anni Settanta abbiamo commesso molti errori (ancorché di alcuni di essi io non mi senta assolutamente corresponsabile), ma nelle ricostruzioni storiche che se sono fatte a posteriori, si dimentica troppo spesso con chi avevamo a che fare: una società chiusa, bigotta, retrograda, della quale imputavamo (a torto) la responsabilità alla Democrazia Cristiana (che invece nel secondo dopoguerra era stata la geniale invenzione politica dei cattolici di De Gasperi per addomesticare e mettere da parte quel che Umberto Eco ha chiamato il fascismo eterno degli italiani – ogni riferimento alle vicende politiche presenti NON è casuale).
L’assemblea non era stata autorizzata, col pretesto che ne avevamo già tenuta una nel mese in corso. Noi decidemmo di svolgerla ugualmente. Avevamo perfino invitato Umberto Terracini, vale a dire l’ex presidente della Costituente eletta nel 1946, nonché esponente leggendario del PCI, del quale era stato tra i fondatori (in particolare, noi figiciotti restavamo colpiti dal fatto che avesse conosciuto Gramsci e addirittura polemizzato personalmente con Lenin a una seduta dell’Internazionale). All’ultimo momento non era però potuto venire. Per fortuna, mi viene da osservare alla luce di quello che sarebbe successo dopo e che sto per raccontare.
Ma vi prego di aspettare un momento ancora. Lasciatemi spiegare subito il senso dell’episodio, laddove io feci la figura dell’ingenuo e dello sprovveduto. Eppure, lo avrei dovuto capire subito, se avessi interpretato nel modo giusto l’insolito comportamento del solitamente intrattabile e aggressivo leader dei gruppettari – se mi è consentito servirmi ancora dell’etichetta romanesca con la quale unificavamo la galassia composta dai gruppi extra parlamentari di estrema sinistra (Potere operaio, Avanguardia operaia, Lotta continua, Servire il popolo, ecc.).
Lui si chiamava Felice – barba caprina, chioma irsuta, non molto alto, ma soprattutto molto magro quasi come me, uno spirito dialettico, forse un po’ troppo bastian contrario. Inaspettatamente si disse d’accordo sul nome di chi volevamo invitare, sull’ordine dei lavori e, anzi, lasciò l’intervento di apertura a noi, cioè a me, in quanto leader dei giovani comunisti. E ti credo! –, mi verrebbe da commentare oggi, visto quello che sarebbe successo.
Avevano infatti preparato una trappola. Solo uno sciocco non l’avrebbe capito. Poche settimane avanti si erano svolte le prime elezioni degli organi collegiali, che i gruppi dell’estrema sinistra, riunitisi nel Collettivo Politico Unitario, avevano cercato di boicottare con l’astensionismo, uscendone però con le ossa rotte, giacché gli studenti avevano votato in massa (al Visconti erano stati più del 70%, la stragrande maggioranza dei quali per la nostra lista, quella del Comitato Unitario, promossa dai giovani della FGCI ma aperta a tutti gli studenti che si riconoscessero nella Costituzione antifascista). Allora Felice e i suoi compari avevano pensato a un piano per dimostrare che nulla era cambiato, se non in peggio. Nella trappola ci finimmo tutti. Io per primo, come ho già detto. Poi il preside di allora. E infine, naturalmente, le forze dell’ordine, che furono sul punto di esibirsi al peggio delle loro performance di quegli anni Settanta.
L’assemblea non si tenne nell’Aula Magna, che per l’occasione era stata chiusa a chiave, bensì in una grande aula del piano terra, proprio quella in cui avevo passato il quinto ginnasio. Per primo ero salito io in piedi sulla cattedra e stavo arringando gli altri studenti che affollavano la grande aula, tra i quali scorgevo alcuni dei miei compagni seduti in prima fila, mentre (cosa più unica che rara) i numerosi militanti del CPU) se ne stavano quasi appartati, occupando i banchi in fondo all’aula.
Ancora oggi potrei descrivermi senza alcuna difficoltà, essendo vestito quel giorno come sempre: col Loden verde aperto davanti, il pullover scuro a girocollo, i pantaloni di velluto a coste larghe, le polacchine Clarks. Avevo tanti capelli castani, quantunque non fossero lunghi, almeno per l’epoca, la barba incolta di uno o due mesi, il vocione tonante, di cui mi avvalevo per farmi sentire senza per forza dovermi servire del megafono. Non avevo ancora finito l’introduzione che la porta si spalancò e irruppe la nostra vicepreside, che appariva stizzita e collerica più che mai. Mi ingiunse di tornare in classe, se non volevo essere espulso dal consiglio d’istituto (dove ero stato appena eletto). La seguivano alcuni questurini in borghese, dall’inconfondibile cappotto di cammello, i quali con l’altrettanto immancabile accento meridionale mi intimarono di sciogliere quell’adunata sediziosa, se non volevo essere tratto in arresto per aver commesso una serie di reati, dei quali intesi e capii soltanto l’ultimo, perché era formulato con una locuzione che mi ha fatto sempre ridere: oltraggio a pubblico ufficiale. Risposi per le rime alla temibile vicepreside, terrore degli studenti tabagisti e degli innamorati che si scambiavano effusioni troppo amorose, replicandole che sarei stato ben lieto di essere cacciato da un organo collegiale che avesse voluto vietare un’assemblea convocata per rievocare la strage delle Fosse Ardeatine. Dopo di che chiarii al funzionario della Pubblica Sicurezza che non avremmo opposto alcuna resistenza, ancorché la nostra non fosse da considerarsi una manifestazione violenta, ma soltanto la commemorazione pubblica del massacro di 335 italiani, compiutosi il 24 marzo 1944. Subito dopo, nell’atto di uscire dall’aula, gli chiesi nello stesso tono pacato, del quale mi stupisco ancora oggi, di allontanare il reparto di agenti dei reparti mobili, che sostavano davanti all’ingesso in tenuta antisommossa con tanto di caschi, scudi e manganelli. Tutto si svolse senza incidenti, i celerini rimasero abbastanza calmi (fatta salva qualche espressione poco cortese nei nostri confronti) e a una distanza che permise a me e altri volenterosi di improvvisare un cordone in modo che i manifestanti – privi di un Felice che li aizzasse – defluissero senza incidenti e in buon ordine, tutti tranne uno che nel frattempo era salito al primo piano e aveva preso a scaraventare di sotto le fioriere e i vasi di gerani posti sulla marmorea balaustrata dell’antica loggia soprastante (non bisogna dimenticare che il liceo Visconti ha sede nel Collegio Romano, un monumentale complesso architettonico risalente alla seconda metà del XVI secolo per la scuola dei gesuiti). E pensare che era pure un compagno della FGCI, dalla lunga chioma e dalla barba da anacoreta, già pronto per impersonare il ruolo del protagonista nel coevo Gesù di Nazareth di Zeffirelli, un tipo in genere quieto e trasognato, che amava la cultura indiana, il profumo Patchouli e il concerto di Woodstock. Fortunatamente la crisi isterica gli ottenebrò la mira, nessuno si fece male e gli unici a lamentarsi dell’insano gesto furono Emilia, la storica bidella del Visconti, cui toccò poi l'ingrato compito di ripulire il cortile dalla terra e dai cocci, nonché il sottoscritto, al quale il nostro Gesù aveva rubato la scena. Nessuno infatti – tranne il cronista de “L’Unità” che ne dette conto nel suo articolo l’indomani insieme con la cronaca della nostra mobilitazione successiva: manifesti, volantinaggio, sit-in a Piazza del Collegio Romano – parve accorgersi del mio ruolo di negoziatore in quel delicato frangente. Tutte le attenzioni e tutte le premure – a cominciare da quelle delle empatiche compagne – furono per lo sventurato che, ancora il mattino dopo, scrollava il capo affranto, manco avesse assistito al massacro degli yankee contro i pellerossa a Wounded Knee rappresentato in un film western di successo di quegli anni, Soldato blu (1970), e ripeteva come un disco: «Bastardi! Bastardi!».
ALESSANDRO IOVINELLI
È poeta, narratore, critico e regista teatrale.
Ha pubblicato libri di poesia, racconti, saggistica, nonché tre romanzi.
Con la tua solita eleganza e ironia e il loden,che hai conservato per tanto tempo(mi ricordo),ribadisci il concetto di giustizia libertà di pensiero e rispetto per quello altrui.E ci doni uno spaccato potente e personalissimo e di una grande dolcezza. Che viaggia da sempre con un 'integrità morale che hai saputo trasmettere .Senza rinunciare all'ebbrezza della vita,al suo stupore ,ai suoi colori ,alla curiosità.Ma quanto Amore....E quanta pace sperata,agognata.Grazie.F.L.
RispondiEliminaBello, Sandro. E sarebbe stato bello, negli anni, continuare a polemizzare tra noi!
RispondiEliminaNon posso, non sarebbe giusto né utile, contestare i tuoi ricordi, però quando scrivi: "gli studenti avevano votato in massa (al Visconti erano stati più del 70%, la stragrande maggioranza dei quali per la nostra lista, quella del Comitato Unitario, promossa dai giovani della FGCI ..." mi sento costretto a ricordarti che voi prendeste 194 voti e noi (Alternativa Laica) 177. Insomma, non parlerei di stragrande maggioranza!
Un abbraccio. Il tuo "nemico" di sempre.
Caro Franco, ti ringrazio di avere apprezzato il mio testo, ma devo correggere i tuoi ricordi. I dati da te riportati sono corretti, ma si riferiscono alla tornata elettorale successiva, cioè quella del dicembre 1975, quando c'era stata la scissione nel Comitato Unitario con la formazione di una lista autonoma chiamata Iniziativa Democratica.
RispondiEliminaAl contrario, nel febbraio precedente il rapporto tra Comitato Unitario e Alternativa Laica era stato un po' più di 240 voti a 180 voti (più o meno).
E, visto che hai evocato su TeclaXXI l'origine della tua fede di aquilotto con un bel pezzo, permettimi di concludere con una battuta calcistica: la memoria di noialtri lupacchiotti non falla, perché ancora ci ricordiamo del gol di Turone.
Grazie Alessandro. Il tuo articolo è interessante e scritto, come sempre, benissimo. Leggerti è un piacere.
RispondiEliminaAntonella Bonanni