NORMAN MAILER E DIANE ARBUS (NARRATIVA) ~ DI EDUARDO REBULLA - TECLAXXI

NARRATIVA

Eduardo Rebulla

Norman Mailer e Diane Arbus


Nel 1963, quando Norman Mailer vide pubblicato sul New York Times il ritratto fotografico che gli aveva fatto Diane Arbus, disse: «Dare una macchina fotografica a Diane è come mettere una granata in mano a un bambino». E dire che Mailer, nonostante l’abbigliamento borghese, nonostante il vestito il panciotto la cravatta i polsini, proponeva se stesso come un fiero antagonista della società americana, totalitaria e repressiva. Straordinario bevitore di whisky, sperimentatore di LSD, fumatore di marijuana, famoso per avere sfidato sul ring un campione di pugilato e per avere accoltellato nel ’60 la sua seconda moglie (Adele Morales) ferendola gravemente, lo scrittore non era certo uno che coltivava la sua immagine pubblica. E tuttavia qualcosa nella foto della Arbus dovette infastidirlo. Cosa?  Forse il fatto che quel quarantenne famoso e sfrontato fosse rappresentato in una posa poco ortodossa? Oppure per un certo atteggiamento da guappo che l’espressione del viso e il modo in cui stringe la sigaretta fra indice e pollice tendono a esaltare? Oppure ancora per la palese contraddizione che quest’immagine propone?

 

Certo, pochi scrittori sono così vicini al personaggio di Charles Citrine, creato da Saul Bellow (Il dono di Humboldt), come Norman Mailer: stranezza, genio, incongruità, sbruffoneria, violenza. E infelicità. Chi lo sa che non sia proprio il disvelamento di quest’ultimo strato, questo dell’infelicità, coperto con i tanti altri strati della sua poliedrica personalità, ad aver dato fastidio a Mailer. La Arbus cercava con le sue foto «le cose che nessuno vedrebbe se io non le fotografassi». Può darsi che Mailer, guardando il suo ritratto abbia scrutato per la prima volta dentro se stesso e abbia visto esplodergli davanti (come una granata) la verità di un uomo che cerca qualcosa che dovrà sfuggirgli sempre. E che abbia anche capito di che pasta era fatta la Arbus e che l’infelicità di lei era molto più avanti della sua, molto più affilata e già pronta ad esplodere davvero.

 

Diane Arbus muore suicida a 48 anni, ingerendo una forte dose di barbiturici e tagliandosi le vene dei polsi nella vasca da bagno. Tutto pensato per non correre il rischio di fallire. Una morte che non è stata istantanea, come chi sceglie di gettarsi nel vuoto, ma inesorabile, lenta, sfibrante – e dolorosa, anche se attenuata dai barbiturici. Una morte che neppure ha a che vedere col transito sonno-morte, perché quello indotto dai farmaci non è sonno ma stupore e incoscienza. Espressione ulteriore di quella vulnerabilità aggressiva che le era stata così spesso rimproverata – perché la Arbus tardava sempre a compiere lo scatto ed esasperava i soggetti che sceglieva. Come in Child with a Toy Hand Grenade in Central Park. Il bambino con la granata giocattolo in una mano e una pietra stretta nell’altra che (anche lui stremato dall’attesa?) contrae le mani e fa una smorfia simile a uno spasmo.

    Diane Arbus nel 1967 autoritratto. La foto è prelevata dal sito https://artslife.com 

E da qui, da questa immagine, che proviene la frase di Mailer: «Dare una macchina fotografica a Diane è come mettere una granata in mano a un bambino». Lui invece è morto all’età di 84 anni, in ospedale. Mai pause o indugi – mai attese. Al contrario, l’horror vacui e la consequenziale passione per il pieno, per l’abbondanza, per l’eccesso. Per la tribuna. E per gli aggettivi facili, scontati, che usava senza riserve nella sua scrittura.

EDOARDO REBULLA 



BIONOTA 


Nato a Palermo nel 1950, Eduardo Rebulla ha sempre vissuto nella sua città. Di professione medico, ha coltivato la scrittura nel tempo rubato. Ha pubblicato sette romanzi, sei con l’editore Sellerio (Carte Celesti, Linea di terra, Segni di fuoco, Sogni d’acqua, Stati di sospensione, La misura delle cose) e uno con Baldini;Castoldi 


 

  



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