CONDOMINIO AEREO di Luigi Ananìa (narrativa)

 

 

Condominio aereo

di Luigi Ananìa

 


Mi chiamo Francesca Biagiotti, sono un’ottantenne ben piazzata sposata con Roman, un coetaneo esile e sempre sul punto di cadere; insieme a lui convivo con una vasta popolazione di anziani e di infermieri al decimo piano di trentasette stanze, sorretto da quattro colonne su un altro palazzo; sotto di noi c’è l’aria e gli altri nove piani abitati da persone normali di tutte le età. Il nostro piano si chiama Condominio aereo e quando qualche infermiere pigia un tasto il soffitto si apre e il vento passa di sopra e di sotto come in un mondo di aria. Qualche volta fra noi e gli altri nove piani si forma un banco di nebbia e sembra di essere sospesi nel nulla. Io vivo in buone condizioni di salute, sostengo mio marito Roman ripetendogli spesso che con quei quattro capelli appiccicati sulla testa sembra un pulcino affogato tirato fuori dall’acqua. Gli altri inquilini, qualcuno vecchissimo e qualcun altro tra i cinquanta e sessanta anni con il cervello consunto anzitempo, sono per la gran la parte affetti da patologie della mente; ognuno può uscire una volta al giorno accompagnato da un infermiere o da un condomino più sano. C’è un ascensore che scorre all’esterno e quando si scende lungo il condominio sottostante si vedono gli abitanti che vagano nei loro appartamenti e salutano con un cenno della mano. L’edificio è diviso in due mondi a sé stanti, un condominio di presunti sani e più su le nostre stanze in cui i ricordi, le parole e le immagini si ingrandiscono e poi svaniscono. Di sera il soffitto della sala centrale si apre ed io, Roman e gli altri anziani guardiamo le nuvole passare. Al centro della sala c’è Aldo, un anziano una volta ai vertici del potere politico, che ogni sera inscena situazioni diverse, immedesimandosi in sé stesso e in personaggi famosi del suo tempo; quando arriva qualcuno capisce il senso di un suo discorso ed esprime un parere; lui dice che ha girato il mondo ed urla: «Ma questo, che vuole?», e poi sussurra a chi gli è accanto che al di là delle parole c’è sempre un secondo fine nascosto dalle parole stesse. Ogni sera, un piccolo straniero sessantenne, ex domatore di cavalli che tutti chiamano Sandro, si accosta ad Aldo e cerca di entrare nei suoi percorsi logici da cui poi fuoriesce addentrandosi nei meandri della propria mente, dove c’è sempre lo stesso dilemma: «Perché i miei cavalli non mi hanno abbandonato e mia moglie mi ha lasciato da un giorno all’altro?»; una volta detta ad alta voce, questa domanda si moltiplica e si sfalda confondendosi con i discorsi degli altri anziani. Quando viene colto dal pensiero della moglie che l’ha lasciato Sandro perde la comprensione delle cose e vaga tra la folla di anziani traspirando e sbuffando come un cavallo.

Io e Roman ci fermiamo ad ascoltare i discorsi di tutti; c’è un brusio generale inframezzato da domande insensate ma in un angolo della sala c’è un divano celeste che è sempre un luogo di pace. Su quel divano da mezzogiorno al tramonto siedono i centenari Gualtiero ed Ettore e davanti a loro barcollano i due figli settantenni e le due mogli, Ester moglie ridente di Ettore ed Antonietta, moglie novantenne di Gualtiero che gira da una parte all’altra del divano con una borsa gonfia di maglioni per il marito e per il figlio. Gli ospiti che passano intorno al divano sono disorientati dai giri di Antonietta e dalle risate deflagranti di Ester, ma quando vedono la serenità che traspare dagli sguardi di Gualtiero e di Ettore si meravigliano. I due centenari adagiati sul divano celeste si carezzano le barbe bianche e pongono domande ai figli; il tema che ricorre più spesso è perché loro due hanno pensato al benessere della famiglia e i figli hanno pensato ad altro, non si sa a cosa, forse alla gloria o a volere creare un’immagine unica di sé stessi; Gualtiero domanda al figlio Antonio scandendo ogni parola davanti al suo padiglione auricolare: «Cosa ti ha spinto a volere essere sempre guardato, non ti bastava essere un nobile agricoltore, un uomo che metteva in atto la scienza della terra?». «Volevo essere io, non volevo fare parte di una categoria, la categoria degli agricoltori che come in ogni categoria si riconoscono per avere lo stesso linguaggio, gli stessi gesti e lo stesso abbigliamento, volevo essere io unico e irrepetibile definito dal mio nome e cognome». «Mah, come siete bizzarri! dice Ettore guardando Antonio e suo figlio Andrea a noi bastava il nostro lavoro e qualche distrazione, a voi no; anche a te Andrea non bastava essere un professore d’ingegneria, come mai?»; Andrea appoggiato ad un bastone intarsiato, confuso dalla sua malattia mentale parla come un attore da un palco: «Non mi bastava progettare un ponte, quando mi mettevo in cattedra c’era un mini me stesso che prendeva forma dalla mia schiena, mi girava intorno e una volta messosi davanti mi guardava e mi diceva: guarda cosa hai fatto, guarda cosa puoi fare? Se continui così la tua vita diventa uno spettacolo conosciuto in tutta la comunità umana!». «Tutta la comunità umana!!!», ripete ad alta voce e due gabbiani spaventati gridano nel riquadro di cielo al di sopra del condominio. In quel momento s’intravede il capo calvo di Sandro che ha sentito le domande e le risposte e riporta un pensiero arabo che è un asso portante del suo saper vivere: «Bisogna saper mangiare dalla spalla, chi non comincia dalla spalla non è un buon mangiatore di carne»; poi voltandosi verso Antonietta e a Ester dice che le domande fatte dai mariti ai figli non lo riguardano perché la sua vita è mossa da ragioni di necessità e i discorsi che ha sentito provengono da una comunità in cui il senso della necessità non esiste.

Io e mio marito Roman non interveniamo mai nelle discussioni, non abbiamo niente da dire, ascoltiamo e quando qualcuno perde coscienza lo aiutiamo. Spesso vediamo Sandro vacillante con lo sguardo in aria e allora lo portiamo fuori a fare una passeggiata; proprio adesso ha gli occhi persi nel vuoto e ripete il suo detto arabo, poi il nome di sua moglie Marika e i nomi di tutti i suoi cavalli «Lepido, Bramante, Tosca, Matilde, Aquilante, Zenone, Rolando, Rinaldo…» e via via che li ricorda sembra liquefarsi, diventa translucido e cade; allora io e Roman lo prendiamo e lo portiamo all’ascensore a noi riservato, quello che con una corsa porta dal condominio aereo alla strada; scendiamo con lui e intanto vediamo quel che accade nell’edificio sottostante, quello dei condomini con la testa a posto. Al terzo piano c’è un uomo che entra in salotto con un vassoio di paste, poi scendendo al secondo piano vediamo un ragazzo in canottiera con una donna che gli mette le mani addosso, in un’altra stanza un bambino grasso che si getta da un armadio su un divano planando come se fosse un aereo. Quando arriviamo ai piani bassi vediamo una donna che si spoglia davanti a un uomo in completo scuro. È una bella donna, con la chioma fluente e gli occhi che sorridono; si sente una musica e lei ballando fa vedere il seno, i fianchi, la schiena, il nero fra le gambe. Sandro riconosce il sorriso, gli occhi neri, il seno generoso e via via che l’ascensore scende guarda la moglie e urla «Marika, Marika!» e poi una trafila di grida rauche, così rauche che sembra soffocare; allora io e Roman lo portiamo sul viale di platani intorno al palazzo e lui si quieta, dice qualche insulto, poi tace e respira alzando le braccia avanti e indietro.

Il giorno seguente Sandro è quello di sempre, gira fra la folla dicendo la sua opinione su ogni discorso che sente; il suo sguardo perso sembra il preludio di una crisi ma è soltanto un suo modo di formulare una frase giusta per un anziano che ha appena visto con la coda dell’occhio; comunque io e Roman lo conosciamo bene e vediamo che di tanto in tanto rotea gli occhi sul pavimento come quando ha un piano da mettere in atto. Lo guardiamo, gli andiamo appresso e una mattina lo seguiamo nell’ascensore su cui è entrato correndo; lo prendiamo tra di noi e quando gli chiediamo cosa ha in mente ci risponde che vuole entrare nell’appartamento della moglie; tra le dita ha un filo di ferro e in tasca una lama con cui dice di saper aprire la serratura di qualsiasi appartamento; adesso vuole essere accompagnato e io e Roman andiamo con lui perché abbiamo paura che lo colga una crisi. Una volta arrivati a piano terra ci troviamo davanti due ascensori bianchi, il nostro e quello del condominio di Marika; entriamo nel secondo ascensore, Sandro pigia un tasto e ci troviamo davanti una porta di metallo con il nome di Marika scritto in rosa. Sandro apre la porta con la lama ed entriamo. Marika non c’è, noi seguiamo Sandro che guarda tutto, dice di non avere mai visto una stanza della moglie così splendente e si avvicina a una grande scatola di profilattici su un comodino; ne prende uno, lo porta in alto, danza, canta e girando su sé stesso ci chiede dove siamo. Quando gli ricordo che siamo a casa di Marika entra in cucina, si avvicina a una vecchia bombola, prende il tubo del gas e lo buca con il filo di ferro; poi apre il rubinetto della bombola, accende il suo accendino vicino al tubo e dal buco esce una striscia di fuoco, poi un fascio rosso che dall’appartamento di Marika arriva al nostro piano. In pochi minuti la bombola diventa un lanciafiamme e noi scappiamo insieme a Sandro che corre e salta come un soldato pazzo che ha vinto una guerra. Io perdo di vista Roman, sento urla, sirene, e cascate d’acqua che cambiano il fuoco in nuvole di fumo. A un certo punto mi ritrovo agganciata con il vestito a due alti pilastri d’acciaio con il viso sospeso nel vuoto; la mia gonna di lana si va via via sfilando e nel momento in cui l’ultimo filo si rompe vedo una scala rossa con tre giovani pompieri che mi prendono per i fianchi e mi depositano su un ammasso di ceneri; mi volto in cerca di Roman e riconosco le persone che si sono salvate, alcuni integre, altre frantumate e sperse. Qualche metro più in là, immerso in una pozza, c’è Roman; ha i vestiti laceri, è più curvo del solito e mi guarda con il suo sguardo di un uomo in punto di morte ma mai morente. Una volta spente le fiamme rimane una sola parete, tutto il resto non c’è più; al nostro piano vi sono resti di pavimento da cui si sporgono delle donne e degli uomini inceneriti; in alto sul divano celeste i due centenari Gualtiero ed Ettore osservano le rovine del mondo in cui hanno vissuto da più di trent’anni.

 LUIGI ANANÌA


BIONOTA 

Luigi Ananìa si laurea in scienze agrarie presso l'università di Firenze nel 1986. Da allora scrive racconti e fa vino rosso a Montalcino presso l'azienda La Torre. Con la casa editrice Pequod ha pubblicato Il signor Ma (2000) e Cos'è questa nuvola (2011). Presso le edizioni DeriveApprodi ha curato l'antologia di racconti sul vino Confesso che ho bevuto (insieme a Silverio Novelli, 2004) e ha pubblicato Avant'ieri, storie di emigrazione tra la Sila, Torino e Buenos Aires (2009), Pixel, la realtà oltre lo schermo dei media (di nuovo insieme a Silverio Novelli 2012), Storie di volti e parole (2016) e  Bestiario umano (2021), ambedue in collaborazione con Nicola Boccianti.  Ha scritto racconti per  Il sempliceMaltese narrazioni e Nuovi argomenti.



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