La (s)fortuna del Libro dell’Arte di Cennino Cennini - II parte (Storia dell'arte) di Jacqueline Spaccini
Vasari dice che si tratta di un ricettario che ha fatto il suo tempo, che le tecniche di Cennino da lui divulgate son cosa ormai nota, ma non rende merito al fatto che tali non fossero forse, all’epoca di Cennino. Non solo, il fatto che l’autore citi anche le tecniche «dismesse», rende agli occhi dei moderni, ancor più storicamente interessante il suo libro. Quanto al valore di «ricettario», lo stesso Vasari – in modo non molto dissimile – riserva a una parte del suo resoconto biografico un ruolo simile. La sua «Introduzione» alle Vite, infatti, assomiglia a un prontuario informativo di trentacinque capitoli dedicato all’architettura, alla scultura e alla pittura.
E poi altro dato importante: pochissimi sono – a nostra
conoscenza – gli autori di libri simili scritti prima di Cennino: c’è Eraclio[1],
probabilmente il nome fittizio di un monaco, autore di tre libri sulle arti e
sui colori degli antichi romani, il De coloribus et artibus romanorum (700-800
d.C.), nonché il monaco Teofilo con il De
diversis artibus risalente al XIII
secolo, tutti e due ovviamente in latino. Ma ricordiamo che in materia di
pittura e di tecniche, gli artisti del Medioevo e i successivi tengono bene a
mente anche l’autorità di Marco Pollone Vitruvio[2],
appena riscoperto, e di Plinio il Vecchio con la sua Naturalis Historia.
La tecnica che qui più interessa è quella della pittura a olio come la intendiamo ancor oggi, attribuita all'arte fiamminga del XV secolo.
Secondo i curatori (Tambroni e Milanesi) del Libro dell’Arte ricostituito e stampato, i precetti di Cennino non divulgherebbero (solo) tecniche obsolete, come sottolinea Vasari, ma disquisirebbero proprio di quella pratica ascritta a Jan van Eyck in Fiandra, colà carpita e poi diffusa in terra italica da Antonello da Messina dapprima e in seguito dai pittori veneti. Se Vasari avesse letto attentamente il libro di Cennino, si sarebbe accorto che la rivoluzione della pittura a olio non era estranea nemmeno a lui. Anche Cennino parla di pittura a olio [3], affermano i curatori delle edizioni stampate del Libro dell’Arte.
photo by Ihor Zeiger
Il libro di Cennino dovrà attendere quasi quattrocento anni per esser stampato. Il manoscritto originale non è in nostro possesso. Abbiamo delle copie manoscritte (qualcuno ne cita tre, lo studioso Giovanni Mazzaferro ne cita quattro [4]: due sono conservate nella Biblioteca Laurenziana e Riccardiana a Firenze, una nella Biblioteca Vaticana. Ci sarebbe anche una copia (sempre manoscritta) settecentesca [5].
Il punto è questo: secondo l’accademico
di S. Luca, Giuseppe Tambroni, artefice della prima pubblicazione per i tipi Salviucci e
dunque anche il responsabile della successiva divulgazione e traduzione in
varie lingue del trattato sulla pittura, quello di Cennini è da considerare un atto di
grande generosità da parte dell’artista per gli artisti a venire.
Aggiungiamo noi: e per gli studiosi che ancora oggi, seguendo
le indicazioni di Cennino, possono sapere quali fossero le tecniche precedenti
a quelle che vengono ascritte a Van Eyck ma soprattutto provarsi - riuscendovi
- a riprodurre i modi del dipingere di fine Trecento e dei tempi ad esso
precedenti. Questo perché Cennino non mente, non bara, nelle sue «ricette» delle
varie preparazioni.
L’opera - «risistemata» - nella sua
prima pubblicazione romana conta 189 capitoli, alcuni molto brevi altri più
divulgativi, seguiti da un estesissimo glossario detto tavola che
riporta il significato delle parole d’arte. Questo testo è importante anche per
la fissazione scritta delle parole tecniche come per es. àncona con pure le
spiegazioni dell’origine etimologica della parola e del suo precedente uso.
Altrettanto interessante è il seguito europeo che il Libro dell’Arte avrà a partire dalla fine del XIX secolo.
Si inizia con una traduzione francese del
1858. Se ne occupa Victor Mottez, che di mestiere non fa il traduttore, bensì
il pittore. È un allievo di Ingres e traduce dalla versione Tambroni, non
potendo ancora avere modo di leggere l’edizione Le Monnier (1859). La
successiva traduzione sarà in realtà un completamento della prima, un
cesello traduttivo dal momento che ad occuparsene sarà, dopo la morte di
Victor Mottez, suo figlio Henri.
La cosa più interessante di questa pubblicazione avvenuta nel 1888 sotto il titolo Le livre de l’art ou Traité de la peinture è in realtà la presenza, quasi a mo’ di prefazione, di una lettera scritta a tal proposito da Auguste Renoir [6]. È a partire da questa traduzione francese che Möller tradusse in svedese con il titolo Boken om målarkonsten Il libro dell'arte (della pittura) (1947) cui aggiunse anche una prefazione e commenti di grande spessore. Nel 1986 e nel 2000 ripubblicato in svedese con aggiornamento del figlio.
In verità, vi sono
anche traduzioni inglesi e tedesche del libro di Cennini (che lo svedese
ignora).
La
domanda che mi sono posta è la seguente: com’è possibile che un testo
divulgativo sulle tecniche pittoriche dell’epoca e precedenti, per di più
scritto in volgare, sia rimasto pressoché ignorato per quasi quattro secoli?
Aver scritto un testo di tipo pragmatico, «come fare per», a tutti utile, soprattutto ai principianti, dovrebbe denotare un atteggiamento generoso e altruistico da parte di Cennino.
E allora perché non renderlo noto?
Perché non divulgarlo?
Perché una volta il contenuto divenuto di pubblico dominio non stamparlo?
Ammesso e non concesso che la sua condizione di manoscritto lo rendesse ignoto ai più, ma non agli «addetti ai lavori» (tant'è che nel 1568 Vasari lo cita nelle sue Vite – per quanto con condiscendenza), sta di fatto che sarà l’interesse filologico di Tambroni a resuscitarlo dandolo alle stampe.
Tambroni
avanza che il disinteresse sia dovuto al fatto che Vasari lo liquidasse dicendo
che tutto quanto scritto nel testo del Cennini fosse ormai noto, ma poi rileva
che a metà Settecento il bibliotecario laurenziano Angelo Maria Bandini così
come Giovanni Gaetano Bottari (altro bibliotecario e custode alla Vaticana) sottolineavano l’importanza di
editare l’opera.
Secondo Tambroni anche un pittore alle prime armi potrebbe
imparare a dipingere seguendo il testo di Cennino (scrisse Cennino il
trattato pratico più compiuto che mai da nessuno si facesse, p. 20).
Certo, Cennino non fu l’unico a scrivere trattati pratici di pittura: dopo di lui, nel XVI secolo, vi fu un altro pittore, Giovan Battista Armenini di Faenza (1530-1609) nel De’ veri precetti della pittura. Si tratta di 3 libri dedicati al duca di Mantova, Guglielmo Gonzaga, e stampato a Ravenna per Francesco Tebaldini ed. nel 1587. Armenini è convinto d’essere il primo a scrivere di pittura per quel che è delle tecniche.
Dopo di lui, nel 1642, seguirà un trattato
sulla pittura di tale Francesco Bisagni, messinese, cavaliere di Malta.
Secondo Julius Schlosser, nel 1587, Giambattista Armenini afferma di aver scritto il primo trattato di pittura pragmatica, dimenticando Cennini.
Questo Armenini è faentino: la sua città di origine si pone a mezza strada tra le regioni del nord lombardo-venete e quelle centrali tosco-emiliane. Come il Vasari, di cui si considera un epigono, viaggia per l’Italia annotando tutto. È consapevole che alcuni capolavori italiani si trovino ormai all’estero (Londra, Francia, Dresda) e decide di scrivere un trattato di pittura come nessun altro ha mai fatto prima. Ma ammesso e non concesso che non conoscesse il testo di Cennini, di certo conosceva quelli di Leonardo, di Piero della Francesca e di Leon Battista Alberti. Probabilmente Armenini vuol dire un trattato di pittura come non se ne sono scritti prima di allora. E però il titolo fa molto pensare a un trattato come quello di Cennini perché recita: De’ veri precetti della pittura. Ora o si intende un testo «filosofico» su come debba essere la vera pittura, una pittura che può essere insegnata e per ciò stesso appresa, come un mestiere, senza parvenza di creatività e quindi di arte, oppure si intende come un testo di spiegazioni pratiche. Il che lo ravvicinerebbe al Cennini, nel quale però v’è assenza di ogni estetica della pittura o quantomeno di didattica dell’estetica della pittura.
L’innovazione dell’Armerini,
sta – semmai – nelle informazioni che il suo trattato dà sulla maniera di dipingere che ha tale o talaltro
pittore (il Tintoretto, p. es.)[7]; poi per
il resto è come il testo di Cennini: una serie di consigli pragmatici sul bel
dipingere. E comunque a tutt'oggi il libro del collegiano resta una fonte imprenscindibile per conoscere le tecniche e i procedimenti pittorici del XIV secolo.
Renoir ammirava Cennini per quell'assenza del machinisme che il pittore francese riscontra nella sua epoca che giudica mediocre:
Toute la peinture, depuis celle de Pompeï, faite par les Grecs, jusqu'à celle de Corot, en passant par Poussin, semble être sortie de la même palette. Cette manière de peindre, tous l'apprenaient jadis chez leur maître; leur génie, s'ils en avaient, faisait le reste. L'apprentissage d'un peintre ne différait pas, d'ailleurs, au temps de Cennino, de celui d'autres gens de métier. Dans l'atelier du maître il ne dessinait pas seulement, il apprenait à fabriquer les pinceaux, à broyer les couleurs, à préparer les panneaux et les toiles. Peu à peu il était initié aux difficultés du métier, à ce redoutable emploi de couleurs qu'une expérience prolongée de génération en génération peut seule faire acquérir [8].
[1] Forse non si tratta di un solo autore né di un unico testo; lo si considera - oggi, ma non ai tempi di Cennino - un'opera a più mani. Capitoli in versi e in prosa, frammenti ritrovati in luoghi diversi, sono gli indici di tale considerazione. Quel che interessa Cennino è però quel che lo accomuna al suo, di compendio: la rivendicazione del valore manuale e artigianale del mestiere di pittori.
[2] La cui unica copia del De Architectura (redatto verosimilmente intorno al 15 a.C.) fu portata da Alcuino alla corte di Carlo Magno.
[3] Lo stesso Felice Lemonnier, nell'edizione del 1859 del Libro dell'Arte, scrive che già il prof. Antonio Baldinucci nel suo testo del 1811 parla di Cennino e del segreto dell’olio.
[4] Codice Mediceo Laurenziano P. 78.23 (sigla ML); Codice Riccardiano 2190 (sigla R); Codice Vaticano Ottoboniano 2974 (sigla VO); Codice Palatino 818 della Biblioteca Nazionale di Firenze (sigla BNF).
Cfr. http://letteraturaartistica.blogspot.com/2013/12/giovanni-mazzaferro-cennino-cennini-e.html?q=cennini&view=classic
[5] https://letteraturaartistica.blogspot.com/2013/12/giovanni-mazzaferro-cennino-cennini-e.html «L’autore della copia appone un’ulteriore data (1737) che è l’anno a cui si fa risalire appunto il suo lavoro ed una sigla (P.A.W.) che porta a ritenere che non si trattasse di italiano. Altra copia del Codice Mediceo Laurenziano è il Codice 818 della Biblioteca Nazionale di Firenze. È databile grosso modo a fine Settecento». Giovanni Mazzaferro, «Cennino Cennini e il Libro dell'Arte», Bologna, 18/12/2013.
[6] Pierre-Auguste Renoir, Pensées de Renoir sur l'Art. La préface può essere letta qui:
https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k65721484/f19.item.r=Cennino%20Cennini%20lettre%20Renoir
[7] Cfr. Julius Schlosser Magnino, La
letteratura artistica (1924), Firenze, La Nuova Italia, 1964, p. 383 e sgg.
[8] Pierre-Auguste Renoir, Pensées de Renoir sur l'Art (cit.)
riportare alla luce un testo importante e darne il suo giusto valore. bell'articolo
RispondiEliminaComplimenti J., hai ridato vita ad un autore sconosciuto ai non addetti e...penso anche agli addetti ai lavori. I riferimenti e la struttura dell'articolo lo rendono un pezzo pregevole e profondo.
RispondiElimina"Un vecchio rematore"
Grazie