La (s)fortuna del Libro dell’Arte di Cennino Cennini - I parte (Storia dell'arte) di Jacqueline Spaccini

 

La (s)fortuna del Libro dell’Arte di Cennino Cennini  (I parte)

di Jacqueline Spaccini

Vorrei richiamare l'attenzione  e uno sguardo leggero sulla (s)fortuna postuma del Libro dell’Arte di Cennino Cennini (1370-1427). 

Anche perché, della sua fama artistica in vita, poco si sa.

Cennino è toscano, di Colle di Val d’Elsa, un borgo tutto compreso in un crinale in posizione equidistante da Firenze e da Siena che grava per lo più nell’orbita fiorentina, teatro di battaglie tra guelfi e ghibellini a metà del XIII secolo. Attraversata dalla via Francigena, la posizione geografica ne fa in tempi medievali un luogo di passaggio inevitabile e di scambi immaginiamo non solo di tipo mercantile. La località vanta tra i suoi concittadini per primo Arnolfo di Cambio  e poi appunto Cennino Cennini, oltre a vari dottori della Chiesa.

Di Cennino si sa quel che Vasari scrive nella seconda versione delle sue Vite, ché nell’edizione torrentiniana (1555), lo storiografo aretino non lo menziona. Nell’edizione detta della giuntina (1568), invece, lo inserisce all’interno della biografia di Agnolo Gaddi, in qualità di suo allievo, quell’Agnolo figlio di Taddeo, discepolo preferito di Giotto. In realtà, le informazioni biografiche che Vasari ci fornisce son prese – come dice egli stesso – proprio dal primo capitolo di questo libro d’arte, in cui Cennino si presenta al suo narratario.

Vuoi che Agnolo risultasse meno interessante diciotto anni dopo la prima edizione, vuoi che Vasari, venuto a conoscenza del manoscritto solo in un secondo momento, volesse assecondare un impeto di esaustività, sta di fatto che dedica a Cennino non poche righe. Dopo aver detto di chi sia figlio, da dove provenga e in quale bottega abbia operato, Vasari nomina il libro scritto «di sua mano» e per amor dell’arte, in cui sono illustrati «i modi del lavorare a fresco, a tempera, a colla et a gomma, et inoltre come si minia e come in tutti i modi si mette d’oro»[1].

Continuando, Vasari afferma  di saper in quali mani si trovi il manoscritto – che quindi all’epoca non circolava ma era presumibilmente oggetto di collezione -, vale a dire  presso tale «Giuliano orefice sanese»[2]. Egli reputa – anzi, lo dice abbastanza chiaramente – che la stesura di questo testo sia stato un po’ un ripiego o una sorta di compensazione a un mancato talento di pittore [3]. Cita, infine, un affresco – interamente realizzato dal Cennini –  che al tempo del Vasari si trovava ancora  «sotto la loggia dello spedale di Bonifazio Lupi» (l’attuale Ospedale Bonifacio) a Firenze: una Madonna circondata da santi.



Vasari non si attarda a indicare per bene quel che Cennino fa nel suo libro, quanto piuttosto quel che – a suo dire – non fa.

Non lascerò già di dire che non fa menzione, e forse non dovevano essere in uso, d’alcuni colori di cave, come terre rosse scure, il cinabrese e certi verdi in vetro; si sono similmente ritrovate poi, la terra d’ombra, che è di cava, il giallo santo, gli smalti a fresco et in olio et alcuni verdi e gialli in vetro de’ quali mancarono i pittori di quell’età; trattò finalmente de’ musaici, del macinare i colori a olio per far campi rossi, azurri (sic), verdi e d’altre maniere; e de’ mordenti per mettere d’oro, ma non già per figure[4]

A ogni buon conto, non trova utile soffermarsi più di tanto sul manuale, giacché quelle spiegazioni pragmatiche ivi contenute sono ormai obsolete e superate[5]. Oltre a ciò, sempre dall’autobiografia di Cennini, Vasari mutua quell’espressione divenuta celeberrima a proposito del leggendario pastorello: «El quale Giotto rimutò l’arte del dipignere di greco in latino e ridusse al moderno».

Cennino conosceva bene l’ambiente giottesco: era stato dodici anni a bottega da Agnolo, il quale conosceva l’arte del maestro perché suo padre aveva a sua volta lavorato per ben ventiquattro anni con Giotto da Bondone ch’era stato anche il suo padrino di battesimo. Infine, Vasari chiude la digressione su Cennino, tornando al di lui maestro e menzionando il luogo di inumazione di Agnolo Gaddi, vale a dire S. Maria Novella, indicazione in seguito contestata dagli storici dell’arte.

Intanto, vediamo dove e quando il nostro colligiano ha preso ispirazione per il suo trattatello. Per molto tempo si è ritenuto che Cennino avesse vergato le pagine del suo manoscritto a Firenze, nel carcere delle Stinche, ove sarebbe stato rinchiuso per debiti, verso la fine della sua vita avvenuta nel 1427. Pare invece che questo libro sia stato redatto a Padova, negli anni immediatamente precedenti la fine del secolo.  La differenza è notevole, ci passa una trentina d’anni che in materia di tecniche pittoriche è di grande importanza. Siamo nel momento in cui si passa dalla tempera alla pittura a olio, universalmente attribuita al fiammingo Jan van Eyck, all’epoca denominato Giovanni da Bruggia (Bruges). Certo che se lo avesse scritto verso la fine della sua vita, Cennino avrebbe potuto permettersi la generosità di divulgare segreti a lui solo noti, mentre se lo avesse redatto intorno alla trentina, come pare attestino i riferimenti a Padova (inflessioni linguistiche e riferimento , tra l’altro alle donne padovane e al santo patrono di quella città),  sarebbe comprensibile che i segreti – seppure ne aveva – li avesse serbati per sé. 

E qui vengo a parlare della recensione severa del Vasari a proposito di  Cennino. Ma prima, ancora, una piccola riflessione. Intanto, è un testo di fine Trecento che ha il grande merito di essere stato scritto in volgare. Forse per Cennino era impossibile scrivere in latino, lingua che probabilmente non dominava, ma gli insegnamenti utili a maneggiare con dovizia  le tecniche pittoriche sarebbero giunti, grazie al volgare, più capillarmente a tutti i pittori, colti e meno colti. Quanti ebbero però la possibilità di leggerlo? Questo non è dato sapere. Eppure, il suo autore doveva sperare in una larga divulgazione, se nel testo arriva a far intendere al suo ipotetico pittore principiante (nonché lettore) di trovarsi davanti a un maestro della fulgida generazione giottesca: avocando a sé l’esperienza del suo maestro Agnolo (che menziona con fierezza), figlio di Taddeo, figlioccio e discepolo di  Giotto, il maestro dei maestri.    (>>> continua >>>)



[1] Giorgio Vasari, Le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, Firenze1555 e 1568 Versione consultabile online https://liberliber.it/autori/autori-v/giorgio-vasari/le-vite-dei-piu-eccellenti-pittori-scultori-e-architetti/ , cit.

[2] Giuliano di Niccolò Morelli, detto Barba, secondo Gaetano e Carlo Milanesi, curatori del Libro dell’Arte, Firenze, Le Monnier, nell’edizione del 1859 p. 41 e n. 16.

[3] E nel principio di questo suo libro trattò della natura de’ colori così minerali come di cave, secondo che imparò da Agnolo suo maestro, volendo, poiché forse non gli riuscì imparare a perfettamente dipignere, sapere al meno le maniere de’ colori, delle tempere, delle colle e dello ingessare, e da quali colori dovemo guardarci come dannosi nel mescolargli […].

[4] Giorgio Vasari, Le Vite.

[5] Ibidem.

JACQUELINE SPACCINI


 
BIONOTA

Di natura poliedrica, Jacqueline Spaccini è nata in Francia, ma da otto anni è tornata a vivere in Italia. Si occupa di contaminazione tra il linguaggio letterario e artistico; scrive poesia multilingue.
È traduttrice e autrice di saggi e novelle. Scrive pièces, dirige atelier di recitazione; è attrice teatrale.




Commenti

  1. Ottimo, interessantissimo 😊🎊

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  2. Brava, Jacqueline, sempre chiara e puntuale. Argomento interessante!

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  3. Complimenti J. Per l'esaustivo ed interessante articolo.
    Matt.

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    1. Grazie, Matt! Ma aspettiamo la seconda parte, quella conclusiva.

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  4. Questo commento è stato eliminato da un amministratore del blog.

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