PAROLE IN LIBERTÀ INTEGRAZIONE di Nicola Boccianti (psichiatria)

 

 

 

Nicola Boccianti

Parole in libertà integrazione



 

Questa parola, che negli ultimi tempi ricorre spesso in molti campi - da quello biologico a quello sociale - risale al termine latino “integratio” ovvero “rendere intero”, “ripristinare”. L’integrazione tra più componenti presuppone che ognuna di esse, pur rimanendo sempre ben distinta, stabilisca con le altre molteplici connessioni, e che tutte insieme arrivino a formare un’entità coerente. Grazie a questo processo, per esempio, le cellule degli organismi pluricellulari riescono a rispondere in modo unitario agli stimoli esterni e interni senza mai perdere la propria specificità.

Il presente contributo considera l’integrazione dal punto di vista della salute, soprattutto quella mentale, un campo nel quale purtroppo questo termine viene talvolta usato a sproposito.

 

Integrazione in medicina

La medicina occidentale ha sempre considerato la malattia come la conseguenza di un’alterazione biologica. Solo negli anni ‘70 del secolo scorso George Libman Engel, uno psichiatra statunitense che si occupava di psicosomatica, ha introdotto un modello alternativo chiamandolo bio-psico-sociale. Secondo lui tutti i fenomeni umani, da quelli normali a quelli patologici, da quelli somatici a quelli psichici, sono il frutto di una integrazione tra fattori biologici (genetici e biochimici), psicologici (emotivi, cognitivi e comportamentali) e sociali (culturali, familiari e socioeconomici).

Insieme agli enormi passi avanti della medicina, che con il passar del tempo è diventata sempre più specialistica, questo modello ha spinto molti operatori sanitari a coinvolgere nel trattamento dei loro

pazienti anche colleghi con diversa formazione.

 

Integrazione in psichiatria

In Italia, alla fine degli anni ‘70, con la riforma del sistema sanitario nazionale, è cambiato anche l’approccio alla salute mentale e sono state istituite le “équipe multidisciplinari”, dei gruppi di lavoro composti da psichiatra, psicologo, infermiere, assistente sociale e altri professionisti della riabilitazione. Ma, una volta realizzate, queste équipe non hanno dato i risultati sperati. Non è bastato mettere insieme diverse componenti per creare un intervento integrato, mancava un principio organizzatore che riuscisse a coordinarle.

 

Il vecchio modello, in cui lo psichiatra aveva il ruolo predominante, è stato scardinato ma quello che l’ha sostituito non si è rivelato molto più efficace. Nella maggior parte dei casi il coinvolgimento di diverse professionalità ha generato lotte di potere sia a livello clinico che istituzionale, e queste non hanno certo facilitato l’organizzazione dell’intervento. In altre situazioni, che sono andate meglio, tra membri della équipe non ci sono stati scontri, ma gli interventi procedevano sempre su percorsi paralleli, senza incontrarsi mai. In questi casi sarebbe più appropriato parlare di “intervento associato”. Per renderlo integrato è necessario che tutti i partecipanti dialoghino continuamente, sforzandosi di gestire i propri limiti e di trovare delle finalità condivise.

 

Gestire i limiti

Per stabilire un rapporto costruttivo con i propri limiti, oltre a essere più umili e riconoscere di non farcela da soli, dobbiamo avere ben chiaro dove finisce il nostro contributo e dove invece inizia quello dell’altro. A volte questo limite sembrerebbe evidente, pensiamo alla collaborazione tra un chirurgo e un anestesista, due professionisti con funzioni ben distinte che si completano reciprocamente. Perfino in questo caso però può capitare che si crei una sovrapposizione conflittuale, come ad esempio quando il primo sostiene la necessità di un intervento immediato e il secondo invece reputi che le condizioni del paziente non lo consentano. La soluzione di questi problemi richiede una prospettiva nuova e in genere viene affidata al parere di un terzo professionista, esterno e stimato da entrambi. Effettivamente in certi campi il conflitto tra diversi punti di vista rappresenta un’eccezione, ma in altri costituisce la regola. In psichiatria, dove l’equipe è composta da numerose professionalità, questo problema è all’ordine del giorno, pensiamo al paziente grave che viene sottoposto contemporaneamente a più trattamenti: farmacologico, psicologico, riabilitativo e ambientale (sociale e familiare). Ogni professionista potrà anche applicare la propria tecnica nel modo migliore possibile ma spesso questo non basterà a proteggerlo dal cosiddetto fenomeno del “martello di Maslow”. Secondo Maslow, uno psicologo statunitense noto per avere formulato una teoria in cui ha stabilito una gerarchia dei bisogni: “se hai un martello, tutto ti sembrerà un chiodo “. Il possesso di uno strumento espone al pregiudizio cognitivo di utilizzarlo in ogni situazione, senza considerare che potrebbe esisterne un altro più idoneo.

 

 Finalità dell’intervento

Se una struttura deve rispondere con flessibilità a una situazione in continua evoluzione, è indispensabile che tutte le sue parti siano d’accordo su quale di esse debba avere di volta in volta la precedenza.

Nel nostro corpo ogni singolo apparato limita la propria attività subordinandola all’esigenza prevalente. Di fronte a un pericolo esterno, quando è necessario convogliare la maggior parte delle nostre risorse ai muscoli e al cervello, il sistema digerente – stimolato dal sistema nervoso simpatico - si adatta alla nuova situazione e riduce sia la secrezione dei succhi gastrici che la motilità intestinale. Solo dopo che la minaccia sarà cessata, quando nell’organismo prevarrà il bisogno delle funzioni digestive e riparative, il sistema simpatico farà un passo indietro e l’apparato digerente -sollecitato da quello parasimpatico - riprenderà in pieno la sua attività. Il pericolo è diventato per il corpo uno stimolo all’integrazione, in base al quale esso ha riorganizzato le sue diverse funzioni.

Quale fattore potrebbe svolgere questo ruolo nell’organizzazione di un intervento clinico? Nessun modello teorico potrà darci questa risposta, dovremo cercarla nel paziente.

Ascoltandolo attentamente potremo scoprire quali sono i suoi bisogni e in che modo vive i propri sintomi, e poi in base a questi individueremo gli obiettivi e gli strumenti da usare nel nostro intervento. Se uno vive il dolore del lutto come un insopportabile peso che lo paralizza inchiodandolo al passato, sarebbe assurdo trattarlo come un altro che lo considera una risorsa capace di riempire il suo incolmabile vuoto  e fa rivivere dentro di lui la persona perduta. La necessità di capire il ruolo del sintomo riguarda anche le situazioni più gravi, nelle quali è ancora più difficile immedesimarsi, come nel caso delle allucinazioni uditive, quando cioè alla percezione di un suono o di una voce non corrisponde una fonte esterna oggettivamente riscontrabile. Anche in questo caso prima di decidere qual è il nostro obiettivo dobbiamo considerare il ruolo che la voce svolge nella mente del paziente, se per esempio lo tormenta, minacciandolo o spingendolo a compiere azioni distruttive, oppure se lo consola, incoraggiandolo e facendogli compagnia.

Ignorare il punto di vista del paziente porta i curanti ad attribuirgli esigenze che non gli appartengono, e a impostare su queste il loro intervento. Non dovremo stupirci se rifiuterà il trattamento e sbaglieremmo se considerassimo questo comportamento come una “resistenza al trattamento”, si tratterebbe piuttosto di una “legittima difesa”, dell’opposizione a un intervento che non considera i suoi bisogni. E’ possibile che la stessa persona diventi improvvisamente collaborativa quando le si proporrà un altro intervento, più in sintonia con le sue esigenze.

Infine, quando stabiliamo le finalità dell’intervento, oltre ai nostri limiti, dobbiamo considerare anche quelli del paziente. Il raggiungimento di una completa guarigione non è sempre un obiettivo realistico, in questo caso si potrà lavorare per evitare una cronicizzazione e/o un peggioramento; non potendo eliminare la patologia del paziente, bisognerà aiutarlo a integrarla con il resto della sua personalità.

 

Il potere del linguaggio

La presenza di più strumenti terapeutici rappresenta un vantaggio solo se riusciamo ad armonizzarli. Un approccio dinamico, in grado di fare i necessari aggiustamenti di rotta, richiede lo sviluppo di un linguaggio comune. La leggendaria costruzione della Torre di Babele ci insegna che senza di esso la molteplicità genera confusione. Ogni professionista parla l’idioma caratteristico della propria tecnica, ma spesso questo non è sufficiente. Per raggiungere una reale efficacia clinica deve apprendere anche un altro linguaggio, quello capace di fargli comprendere la filosofa di vita del paziente, intendendo con questo termine sia suoi valori e sue le preferenze personali che la sua visione della salute e della cura.

La medicina dei nostri giorni tende alla personalizzazione le cure, e quindi al rispetto delle esigenze individuali, ma spesso la patologia psichiatrica impedisce al paziente di riconoscere i propri bisogni e/o lo porta a esprimerli in modo distorto. In questo caso il rispetto del suo punto di vista diventa il cardine attorno al quale deve ruotare l’intervento, il principio su cui organizzare l’integrazione.

La nostra capacità di ascoltare il paziente però non è cresciuta con la stessa rapidità con cui abbiamo affinato gli strumenti terapeutici di cui disponiamo. Per usare meglio questi mezzi abbiamo bisogno di colmare tale divario. Solo così la diversità smetterà di essere un ostacolo e si trasformerà in una risorsa che permetterà finalmente all’insieme di diventare superiore alla somma delle singole parti che lo compongono.

 NICOLA BOCCIANTI



BIONOTA

Lavora a Roma come psichiatra e psicoterapeuta. Deve la sua formazione analitica a Mario Trevi e quella clinica a Giovanni Carlo Zapparoli. E’ stato per vari anni dirigente psichiatra di I° livello presso la ASL RM/A. Ha pubblicato contributi sulla salute mentale presso diversi editori tra i quali Bollati Boringhieri, DeriveApprodi, Dialogos Edizioni, Letteraventidue Edizioni, Treccani.

 

 

 

 

 

 

 

Commenti

  1. L’articolo di Nicola Boccianti si distingue per chiarezza di esposizione e lucidità di prospettiva teorico-metodologica. La sua proposta di integrazione tra campi prossimali di intervento e studio nel campo delle scienze mediche è necessaria come buona pratica anche nel settore degli studi e ricerche nel campo delle scienze umane.
    Massimo Squillacciotti, antropologo

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