LA BATTAGLIA DI DARA di Romain Iovinelli (storia) - TeclaXXI

La battaglia di Dara

di Romain Iovinelli 






L'Impero dei Parti ed i suoi regni nella sua massima espansione, 60 a.C. circa 
(atlante di Samuel Butler)

Greci contro Persiani, Romani contro Parti, Bizantini contro Sasanidi, Occidente contro Oriente. Sin dagli albori del mondo antico, le popolazioni situate a ovest e quelle situate a est dell’antica Bisanzio sono state in guerra tra di loro. Quasi fosse un destino, le sorti di entrambe sono intrecciate, come se dovessero morire l’una per mano dell’altra.

A più riprese, una compagine sembrava sul punto di prevalere sull’altra: i territori passavano, di volta in volta, sotto il dominio del vincitore di turno, imperi e dinastie venivano spazzati via. Eppure, ogni volta, dalle ceneri dei vinti, spuntava una nuova dinastia, un nuovo impero, un nuovo nemico pronto a rinnovare la rivalità di sempre. Teatro di questo eterno conflitto fu, spesso, il Medio Oriente: l’eterna terra promessa contesa fino all’ultimo colpo di spada.

Ci furono periodi in cui né l’Occidente, né l’Oriente poté considerarsi superiore, in campo militare ed economico, al rivale. In quelle rarissime circostanze, si creava una situazione di perfetta parità. Mentre nell’Antica Grecia era chiaro chi fosse l’outsider e chi fosse il favorito, in epoca romana, e più tardi in quella bizantina, spesso e volentieri i due schieramenti si equivalevano.

Quando le popolazioni barbariche stanziate oltre le frontiere del Reno e del Danubio andarono in epoca tardoantica a rappresentare una concreta minaccia, e poi effettiva (seppur parziale) causa della caduta dell’Impero Romano (pars occidentalis), la vera “concorrenza”, se così può definirsi, fu sempre vista al di là del Tigri e dell’Eufrate. L’impero Partico (o regno dei Parti) fu una vera e propria spina nel fianco prima della Repubblica e poi dell’Impero Romano. La cocente sconfitta subita dalle legioni del triumviro Crasso nei pressi di Carre nel 53 a.C. non venne mai dimenticata. Questa ferita non si rimarginò e pose dei seri limiti ai sogni di conquista dei successivi imperatori, i quali si divisero in due categorie: quelli pronti a evitare a tutti costi scontri bellici e a favorire trattative di pace con i Parti (per es. Augusto e Adriano) e quelli desiderosi di rivalsa e assetati di conquiste (Traiano su tutti).




La storia spesso giudica in maniera fin troppo severa coloro che hanno deciso di procedere con cautela. Tuttavia, per conquistare il regno dei Parti, occorrevano ingenti quantità di denaro e un gran numero di legioni. Molto spesso, come nel caso di Caracalla, furono condotte a oriente delle campagne disastrose che costarono caro ai Romani. Per fattori esterni (rivolta in Giudea e improvvisa sua malattia), persino l’Optimus Princeps, Traiano, non fu in grado di completare la sua conquista, nonostante nel 117 d.C. fosse stato in grado di conquistare Ctesifonte, la capitale partica, e di aggiungere una nuova regione: la Mesopotamia.

Se è vero che, per mancata pianificazione o per ironia della sorte, i Romani non riuscirono mai a sconfiggere definitivamente i Parti, né a prendere il controllo di tutto il territorio persiano, è altrettanto vero che, col tempo, i Parti divennero uno stato cliente dell’Impero. La chiave di questo successo va ricercata nella strategia di appoggiare, anche finanziariamente, alcune dinastie reali rispetto ad altre, dato che i Parti si impegnarono a versare a lungo tributi annuali a Roma.

Insomma, Romani e Parti riuscirono a curare i propri interessi: i primi, tenendo sotto controllo un nemico che poteva sempre minacciare di spingersi verso ovest, cioè verso l’Asia minore; i secondi ricevendo l’appoggio di Roma contro eventuali rivali al trono. Questo patto sottinteso ebbe l’effetto sperato: per lunghi periodi di tempo, le frontiere a oriente furono messe al sicuro. Inoltre, ciò fornì l’opportunità ai Romani di concentrarsi sugli incessanti problemi che si presentavano oltre il limes settentrionale.

Tutto sembrava procedere per il meglio finché, il 28 aprile del 224 d.C., la battaglia di Hormozgdan vide calare il sole sul regno dei Parti a profitto del nuovo, temibile, impero sasanide.

I Sasanidi si dimostrarono ostili ai Romani fin da subito. Essi avevano grandi progetti in mente: la (ri)conquista dell’intera Anatolia. L’avvento di questa nuova popolazione fu un problema che Roma non riuscì mai ad arginare del tutto, tanto che il fulcro nevralgico dell’impero dal IV secolo in poi si sposterà a Oriente, vedendo gli imperatori successivi più impegnati a salvaguardare le regioni orientali rispetto a quelle occidentali.

Oltre a essere drammatico per la celebre anarchia militare, il III secolo d.C. fu un vero e proprio trauma: diversi imperatori morirono poco dopo la loro intronizzazione o caddero ostaggio dei Persiani (come nel caso di Valeriano) nel tentativo di bloccare l’offensiva del loro esercito. L’avanzata dei Sasanidi fu inesorabile. La perdita più sofferta fu, senz’altro, quella dell’ultimo imperatore filosofo, Flavio Giuliano, che dedicò gran parte della sua vita al ripristino dei culti pagani e innumerevoli campagne militari (l’ultima delle quali proprio contro i Sasanidi). Roma fu obbligata a firmare un trattato di pace che di fatto consegnò fette di territori importanti in Assiria e Armenia, e l’imponente città-fortezza di Nisibis (attuale Turchia).



Mentre nel V sec d.C. per i Romani d’occidente i molteplici sacchi di Roma, conditi dalle innumerevoli invasioni barbariche, posero fine al loro dominio a Occidente, per i Romani d’oriente il fronte oltre il Tigri e l’Eufrate fu relativamente calmo, se si esclude qualche “scaramuccia” con i Sasanidi. Ciò permise agli “orientali” di sopravvivere, permettendo all’Impero di far fronte alle varie e pericolosissime incursioni barbariche, degli Unni su tutti. Va detto, inoltre, che questa calma relativa garantì loro ottime risorse belliche ed economiche quando si ripresentarono gli annosi conflitti con le dinastie persiane. Dopo più di 60 anni di pace, nel 502 d.C., lo Shar (il Re, lo Scià) Cabade I decise di riprendere le ostilità.

L’imperatore romano dell’epoca, Anastasio, tentò inutilmente di fermare l’avanzata delle truppe di Cabade. Ma se gli Unni costituivano un problema per l’esercito romano di Costantinopoli, lo furono anche per quello persiano. L’attacco ai Persiani di una delle loro tribù (gli Unni bianchi), consentì ai Romani di riorganizzarsi e di giungere ad una nuova pace: i Persiani avrebbero cessato la loro avanzata in territorio romano in cambio ottenevano una città romana al confine dei loro territori: Teodosiopoli (attuale Erzurum, Turchia).

Le successive guerre tra Romani e Persiani che si sono svolte nella prima metà del VI secolo, ci vengono raccontate da Procopio di Cesarea. Nel suo De Bello Persico (I e II), oltre a narrarci le ragioni che hanno originato questi incessanti conflitti e i loro esiti, Procopio ci racconta nei dettagli la storia dei protagonisti di tali scontri. La guerra con Cabade aveva reso chiaro ai Romani che, dopo la perdita di Nisibis (nel 363 d.C.) e di Teodosiopoli (nel 506 d.C.), serviva loro una nuova roccaforte dove poter pianificare le successive manovre difensive e offensive. Per ordine di Anastasio, nei pressi di Nisibis, fu fondata Anastasiopoli, poi conosciuta con il nome di Dara.

La nuova roccaforte romana sarà scenario di molteplici scontri tra Romani e Persiani, proprio per via del suo valore strategico. Dopo aver perduto una serie di avamposti e roccaforti, Dara rappresentava l’ultimo baluardo romano contro l’avanzata degli eserciti sasanidi: se infatti fosse caduta in mano nemica, i Persiani avrebbero potuto penetrare con molta più facilità nel cuore pulsante della Cappadocia.

I malumori con i Persiani sarebbero andati via via crescendo, fino a una nuova guerra all’inizio del regno dell’imperatore Giustiniano. La situazione era critica: Cabade aveva deciso di invadere la piccola regione situata a nord della Mesopotamia, la Lazica (confinante con l’Armenia), non appena il sovrano di questa regione neutrale aveva manifestato l’interesse di convertirsi al cristianesimo, perdendo in questo modo la neutralità. Ovviamente, vista la prossimità con i suoi territori, a Cabade non piacque affatto questa decisione che poteva alterare a suo sfavore l’equilibrio geo-politico del Medio Oriente. Giustiniano tentò di risolvere la faccenda dapprima attraverso l’uso della diplomazia, ma quando questa non sortì l’effetto sperato si decise ad applicare il pugno di ferro.

In quel periodo, un giovane ufficiale di belle speranze chiamato Belisario si fece largo tra le fila dell’esercito romano, acquisendo l’esperienza necessaria per far fronte alle successive battaglie contro i Persiani, nonché alle future campagne belliche, in nome dell’imperatore. Prima ancora di questi eventi, si era comunque distinto come guardia del corpo dello zio di Giustiniano, l’imperatore Giustino. Ciò detto, il suo esordio non fu dei più brillanti: l’esercito romano fu sconfitto (ma non con perdite pesanti) nei pressi di Nisibis. Belisario non pagò direttamente in prima persona le conseguenze di queste sconfitte, tanto che venne addirittura promosso di rango conquistandosi il titolo di dux mesopotamiae.

Finalmente, ottenuta questa  prestigiosa carica nel luglio del 530 d.C., Belisario ebbe modo di mostrare tutte le sue qualità di condottiero.




Stando a Procopio, che seguì Belisario in tutte le sue campagne militari, e che pertanto può essere considerato una sorta di “reporter” dell’antichità, in quell’estate il giovane generale romano diede ampia prova delle sue capacità tattiche. Da una parte c’erano i Persiani, che avevano radunato un esercito di ben 40.000 soldati, capeggiato da ben tre generali (Peroxes, Pityaxes e Baresmanes); dall’altra Belisario, che aveva a disposizione non più di 25.000 uomini: una gran differenza di mezzi. Più tardi, nella sua lunga e illustre carriera militare, accadrà ancora a Belisario di trovarsi nella condizione di assediare o difendere insediamenti con numeri inferiori rispetto al suo nemico. In questi casi, come suol dirsi, mater artium necessitas.  Rendendosi conto che i Romani non avevano a disposizione risorse a sufficienza per difendere la piazzaforte di Dara, il generale romano decise di affrontare i Persiani in campo aperto. Questa mossa, verrà raramente ripetuta nel corso di altre sue campagne, giacché Belisario preferiva la guerra di posizione, nella quale si rivelò essere un autentico maestro. Fatto sta che la battaglia di Dara fu una delle sue poche vittorie campali.

Ma passiamo a illustrare quali furono le mosse vincenti che adoperò Belisario: fece scavare una grande trincea, la cui linea centrale era in posizione arretrata. Il grosso dell’esercito si collocò dietro a questa linea centrale, in modo da potersi nascondere e attaccare all’improvviso il nemico. Inoltre, davanti alla linea centrale pose parte della sua cavalleria che era prevalentemente composta da Unni, abilissimi cavalieri. I Persiani furono presi alla sprovvista, visto che la loro grande forza, la cavalleria catafratta, veniva letteralmente annullata per via della trincea. Nei giorni successivi, si creò una situazione di stallo. Belisario inviò un ambasciatore per trattare con i Persiani, ma questi ultimi non ne vollero sapere. Anzi, il capo supremo dei generali, Peroxes, fece pervenire a Belisario il messaggio di «preparargli bagno e cena», visto che secondo lui l’indomani i Persiani avrebbero preso Dara. Forti delle recenti vittorie campali, i Persiani sottovalutarono il genio di Belisario e il suo modo di far fronte alle avversità. Il terzo giorno avvenne la sfida decisiva. Avendo capito che i Romani non si sarebbero mai mossi dalle loro posizioni, i Persiani pensarono di “stanarli” con una pioggia di frecce. Fortunatamente per Belisario, il vento fu sfavorevole ai Persiani e la maggior parte delle loro frecce non centrò il bersaglio. Fu allora che, spazientito, Peroxes diede ordine alla sua cavalleria di attaccare l’ala sinistra romana. Fu un grave errore. Belisario diede subito il segnale agli Unni di attaccare la cavalleria persiana sul fianco, mentre un secondo contingente di cavalieri romani prese l’esercito nemico alle spalle. Il comandante in questione, Pityaxes, fu costretto a battere in ritirata. Preso dal panico, Peroxes giocò il tutto per tutto: comandò a Baresmanes di attaccare la cavalleria romana, usando il suo asso nella manica: gli immortali (la guardia scelta).

La contromossa di Belisario fu quella di attaccare su due fianchi, utilizzando tutte le sue forze, sia la cavalleria che i fanti nascosti nelle trincee, così da poter spezzare l’esercito nemico in due. Questa mossa si rivelò vincente, infatti, quando Baresmanes cadde, i Persiani si dettero alla fuga. Belisario decise di non gettarsi all’inseguimento del nemico. Il motivo? Mai entrare in territorio nemico senza avere un’adeguata copertura alle spalle. Belisario fu fedele a questo principio durante tutta la sua vita.

La battaglia di Dara si era conclusa, e, nonostante i presagi alla vigilia sembrassero nefasti, la vittoria dei Romani fu netta. Finalmente, a distanza di più di un secolo, i Romani tornavano a vincere contro i Persiani.

E quindi? Giustiniano riuscì ad annettere la Persia al suo dominio? Non esattamente. Per quanto la battaglia di Dara avesse dato i suoi frutti, per quanto fosse una vera e propria iniezione di fiducia per il morale delle truppe romane, molti degli sforzi vennero vanificati quando, nemmeno un anno dopo, durante la Pasqua, scrive Procopio, soldati e generali romani spinsero un Belisario contrariato ad affrontare nuovamente i Persiani. Questa volta ne uscirono sconfitti. Tuttavia, le perdite in vite umane furono moderate da entrambe le parti. Fu così che Giustiniano e il successore di Cabade, suo figlio Cosroe I, firmarono una “pace eterna” (che durò quasi otto anni). Gli accordi prevedevano che i Romani versassero un tributo annuale ai Persiani, vedendosi restituire, in cambio, alcune delle fortezze perdute.

Alla luce di questi eventi, l’imperatore seppe di aver trovato l’uomo giusto per i suoi sogni di gloria: riconquistare i territori precedentemente appartenuti all’Impero Romano d’Occidente. Per quanto riguarda il conflitto con i Persiani, non sarebbe emerso un vero e proprio vincitore fino all’insediamento dell’imperatore Eraclio e alle sue offensive decisive contro l’eterno, odiato, rivale.


Saranno, le sue, vittorie con un sapore di fiele; un nuovo e ben più pericoloso nemico si profilerà all’orizzonte: l’invasione araba e l’avvento dei califfati che avrebbero per sempre cambiato il corso della storia.


di Romain Iovinelli




BIONOTA

Nato a Roma, ha vissuto in Croazia, Francia, Inghilterra e Marocco. Si è diplomato al liceo americano di St.-Cloud e si è laureato come assistente alla regia presso il CLCF a Parigi. 

È laureato altresì  in lingue e letterature moderne in Italia, con una tesi in angloamericana su Ulysses S. Grant.  

A parte i suoi interessi storici, è trilingue e maratoneta. Ha creato il Marco Aurelio Project. 



Fonti:

LUTTWAK, Edward N., La grande strategia dell’Impero Bizantino (2009), Milano, Rizzoli BUR, 2017

MAGNANI, Alberto, Flavio Belisario Il generale di Giustiniano, Città di Castello (PG), Graphe.it Edizioni, 2017

PROCOPIO DI CESAREA, Le Guerre persiana, vandalica, gotica (550 d.C.)Milano, Edizioni Res Gestae, 2017

Commenti

  1. Complimenti per la tua profonda analisi storica. Possiamo capire anche i motivi di tanti comportamenti attuali da parte di quei popoli e del loro dna.
    Un rematore

    RispondiElimina

Posta un commento

È gradita la firma in calce al commento. Grazie.