Paul Valéry e la parola poetica - La sorgente delle lacrime (PENSIERO FILOSOFICO) ~ di Roberto Zanata - TeclaXXI
PENSIERO FILOSOFICO
Roberto Zanata
Paul Valéry e la parola poetica -
La sorgente delle lacrime
La composizione in versi, è noto, non fu al centro degli interessi
principali né della scrittura di Valéry. Tuttavia, fino a poche settimane prima
della morte, egli non fece altro che dedicarsi alla poesia. Segno che è nel suo
misurarsi con essa che va individuato il suo tentativo di un oltrepassamento
dell’Io. Platone, nello Jone,
sostiene come il carattere essenziale della parola poetica consista nell’essere
“un’invenzione delle Muse” (534d)[1], e
di sfuggire pertanto a colui che la proferisce. Lo stesso Amore di cui parlano
i poeti provenzali deve essere inteso non sul piano del vissuto, ma come un
tentativo di abitare il luogo stesso dell’epifania del linguaggio come
fondamentale esperimento poetico. La poesia, in questo senso, avrebbe dunque da
sempre fatto quella che Agamben definisce l’alienazione come condizione normale
dell’atto di parola, in quanto “essa è un discorso in cui Io non parla, ma riceve da altrove la sua parola”[2].
È nota la forte ascendenza che la poesia di Mallarmé esercitò su Valéry.
Mallarmé, per Valéry, rappresenta colui che più di ogni altro ha compreso il
linguaggio, “come se lo avesse inventato egli stesso”[3].
Questo scrittore così oscuro, scrive Valéry, “ha capito così a fondo quello
strumento di comprensione e coordinazione che è il linguaggio, da sostituire al
desiderio e al progetto sempre particolari e ingenui degli attori, l’ambizione
straordinaria di concepire e dominare l’intero sistema dell’espressione
verbale”[4].
Nessuno, secondo Valéry, si è così arrischiato, prima di lui, a rappresentare
il mistero di ogni cosa attraverso il mistero del linguaggio, “diventando il
virtuoso di questa regola di purezza, un essere che si applica a mettere in
gioco, infallibilmente, la parte più rara di sé”[5]. In
altre parole, Mallarmé voleva che a parlare in una poesia fosse il linguaggio
stesso.
A questo punto, l’interrogativo che pone la ricerca riguarda la differenza
tra l’operazione poetica di Valéry rispetto a quella di Mallarmé. Una prima
risposta si trova in un frammento dei Quaderni
di Valéry. Per Valéry nella poesia a parlare è “l’Essere vivente e pensante
(contrasto questo) - che spinge la coscienza di sé alla cattura della propria
sensibilità […] sulla corda della
voce. Insomma, il Linguaggio scaturito dalla voce, piuttosto che la voce dal
Linguaggio”[6]. E
in Varietà, specifica meglio come
intendere questo elemento della voce che
sembrerebbe scavalcare l’Io senza rimuoverlo: “Non dico di aver ragione -
scrive Valéry - dico semplicemente che io guardo in me stesso ciò che succede
quando cerco di sostituire le formule verbali con valori e significazioni non e
immagini native, certi prodotti elementari dei miei bisogni e delle mie
esperienze personali. La mia vita si affaccia con stupore su di sé … Il
pensiero che emano dall’esistenza evita di adoperare, con se stesso, sia quelle
parole che gli sembrano adatte solo all’uso esterno, sia altre, di cui non
scorge il fondo, e che possono solo ingannarlo circa il loro potere e valore
reali. Ora, a questi stati che ho avuto modo di osservare in me, ho ascritto, mi
pare giustamente, la denominazione di Poetici:
alcuni di essi, infatti, si sono da ultimi conclusi in poesie”[7].
In un breve scritto del 1988, introduzione al libro di Valéry Monsieur Teste[8],
Agamben individua una testimonianza, drammatica e allo stesso tempo limpida, di
quanto sopra riportato nella poesia dal titolo La Pizia, “questa figura per eccellenza della parola ispirata e del
corpo invasato”, che non vuole che altro parli in suo luogo se non una voce che
scaturisca dal corpo proprio, né voce dell’Io né voce del linguaggio: “Ahimè!
Agli spiriti socchiusa, | Ho perduto il mio mistero! … | Un’intelligenza
adultera | Esercita un corpo che ha compreso! … | Chi parla, nel mio
stesso punto? …”[9].
Eppure, constata Agamben, dopo aver frugato nella propria carne e nel
proprio sangue, quando infine essa parla non è facile, per Valéry, dire “in che
cosa questa “voce di nessuno” che udiamo si distingua dalla voce del
linguaggio”[10].
C’è, tuttavia, un luogo, individuato da Agamben, che compone probabilmente
l’esperienza più recondita di Valéry, dove sembra che l’Io riesca realmente nel
compito tutt’altro che semplice di oltrepassare se stesso per poi pervenire,
oltre il linguaggio, in quella sostanza ombrosa che noi siamo senza saperlo.
Esso è definito da Valéry, nel Dialogo
dell’albero, come “sorgente delle lacrime” e come “ineffabile”: “Oui... Et c’est là,
au sein même des ténèbres dans lesquelles se fondent et se confondent ce qui
est de notre espèce, et ce qui est de notre matière vivante, et ce qui est de
nos souvenirs, et de nos forces et faiblesses cachées, et enfin ce qui est le
sentiment informe de n’avoir pas toujours été et de devoir cesser d’être, que
se trouve ce que j’ai nommé la source des
larmes : L’INEFFABLE. Car, nos larmes, à mon avis,
sont l’expression de notre impuissance à exprimer,
c’est-à- dire à nous défaire par la parole de l’oppression de ce que nous
sommes…”[11].
Sciogliendosi
in pianto, risalendo lungo la corda della voce, il soggetto del linguaggio
sembra, così, per Valéry, riuscire nel compito di declinare a sé manifestando,
in ultimo, ciò che sta oltre la voce e oltre i bordi muti della parola. Le
lacrime, però, in quanto riflessione della condizione interiore e delle sue
stridenti aritmie, nota Agamben, sono anche già minacciate dal pericolo
dell’ammutolimento che si configura quando, smarrita ogni accessibilità, la
parola rischia di naufragare nel gorgo dell’indicibile: “I limiti della voce
sono velati dal pianto”[12].
Al di là della parola, resta ancora qualcosa di inafferrabile, una zona
oscura di silenzio, da cui l’Io non riuscirebbe ad aprirsi un varco oltre se
stesso. Solo morendo, scrive Agamben, l’Io potrebbe forse riuscire in questa
impresa, ma questo è proprio ciò che l’Io, per Valéry, non può fare, “perché la
coscienza - questa purissima finzione teatrale - non può morire, ma solo
ripetersi all’infinito”[13].
E la fine di Monsieur Teste sembra propriamente confermare l’intuizione
agambeniana: “Lo sguardo straniato sulle cose, lo sguardo d’un uomo che non riconosce, che è fuori dal mondo,
occhio-frontiera tra l’essere e il non essere, appartiene al pensatore. È anche lo sguardo
dell’agonizzante […]. Tra poco, forse, prima di finirla, io avrò questo istante
importante - e forse io sarò tutto in un colpo d’occhio terribile. - Non è
possibile. I sillogismi alterati dell’agonia, il dolore che sfiora mille immagini
felici, la paura unita ai bei momenti passati. Che tentazione, tuttavia, la
morte”[14].
Per
Teste, eterno osservatore, sempre sul punto di estinguersi, la morte resta solo
e sempre una tentazione. Ma ciò che sta al di là di questa tentazione nessuna voce può dirlo e la scommessa di Valéry
resta dunque senza risposta.
[1] Platone, Jone, Milano, Rusconi, 1998, p.117.
[2] G. Agamben, Categorie italiane, Venezia, Marsilio,
1996, p.96.
[3] P. Valéry, Varietà, Milano, SE, 1990, p. 52.
[4] Ibid. p. 227.
[5] Ibid. p. 222.
[6] P. Valéry, Quaderni, Milano, Adelphi, 1990.
[7] P. Valéry, cit., p.
281.
[8] L’io, l’occhio, la voce, in P. Valéry, Monsieur Teste, Milano. SE, 1988, pp. 101-114.
[9] P. Valéry, La Pizia, in Opere Poetiche, Parma, Guanda, 1989, p. 167.
[10] L’io, l’occhio, la voce, in P. Valéry, Monsieur Teste, cit., pp 101-114.
[11] P. Valéry, Dialogue de l’Arbre, Rennes, La Part
Commune, 2017.
[12]L’io, l’occhio, la voce, in P. Valéry, Monsieur Teste, cit., pp 101-114.
[13] L’io, l’occhio, la voce, in P. Valéry, Monsieur Teste, cit., pp 101-114.
[14] P. Valéry, Monsieur Teste, cit., p. 97.
ROBERTO ZANATA
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