Le basi neurologiche della democrazia (NEUROSCIENZE) ~ di Marco Salvetti - TeclaXXI
NEUROCIENZE
Marco Salvetti
Le basi
neurologiche della democrazia
Il bene garantito
dai regimi democratici supera i problemi di relativa inefficienza decisionale di
questi sistemi. Ciò è vero soprattutto nel lungo periodo, dove le democrazie si
dimostrano spesso più resilienti dei regimi autoritari (Daron Acemoglu e James
A. Robinson, Why Nations Fail: the Origins of Power, Prosperity and Poverty;
Guru Madhavan, The truth about maximizing efficiency. «Financial Times»,
5 dicembre 2024).
Tuttavia, crisi recenti
o attuali come il COVID, le guerre e i cambiamenti climatici hanno acuito il
problema dell’inefficienza della democrazia.
Nel COVID,
lasciare liberi i cittadini rispetto alle vaccinazioni ha portato gli USA i cui
residenti rappresentano il 4% della popolazione mondiale, ad avere il 20% di
morti per COVID nel mondo (Bilinski A, Emanuel EJ. COVID-19 and excess all-cause mortality in the US and 18 comparison
countries. JAMA, 2020). Nelle guerre, la ridotta capacità delle
democrazie europee a reagire rapidamente e con un fronte comune e compatto ci
fa ritrovare schiacciati fra dittature e altre democrazie che sembrano avviarsi
verso una deriva autarchica. Nel contrasto ai cambiamenti climatici, la
lentezza decisionale dell’UE, derivante dalla necessità di bilanciare interessi
divergenti — dai Paesi dell’Est legati al carbone, alla Germania e all’Italia
con la loro industria automobilistica, fino al settore agricolo — rallenta
interventi che ieri erano urgenti e, oggi, potrebbero essere tardivi.
È vero, alla fine
la democratica Atene, sconfitta militarmente nella Guerra del Peloponneso, ha
vinto nel lungo periodo: il suo lascito culturale, politico e intellettuale ha
plasmato l’Occidente, mentre Sparta scomparve senza lasciare un’eredità
duratura. Tuttavia, una vittoria culturale poco importerebbe di fronte a un
possibile disastro planetario.
Poiché, in ultima
analisi, le decisioni in democrazia sono il prodotto più rappresentativo delle opinioni
dei singoli, è intuitivo che, migliorando la capacità di giudizio dei singoli
si migliori l’efficienza decisionale della democrazia.
Ma cos’è che
riduce la capacità di giudizio dei singoli e cosa può essere fatto per
migliorarla?
Pragmaticamente,
un giudizio o un’opinione basati sulla realtà sono più efficienti di un
giudizio o un’opinione basati su falsi convincimenti. In neurologia esistono
alcune malattie che esemplificano processi fisiopatologici che portano a falsi
convincimenti. In particolare, in due condizioni, la demenza a corpi di Lewy e
la demenza fronto-temporale, la presenza di falsi convincimenti è un sintomo
piuttosto caratteristico. Ad esempio, nella demenza a corpi di Lewy è frequente
che il paziente si convinca che il partner sia stato rimpiazzato da un
impostore (sindrome di Capgras). Questa condizione può essere ricondotta alla
disfunzione di due aree cerebrali, una deputata al riconoscimento della
familiarità (in questo caso di un volto), l’altra alla verifica dei
convincimenti (Darby et al., Finding the imposter: brain connectivity of
lesions causing delusional misidentifications. Brain, 2017). Al di là di
questa sindrome particolare, nelle persone affette da demenza a corpi di Lewy l’incapacità
di determinare la plausibilità di un convincimento è un sintomo particolarmente
frequente. Similmente, nella demenza fronto-temporale è possibile osservare
situazioni in cui le persone affette si convincono di aver vinto a una qualche
lotteria e cerchino di spendere denaro che non è nella loro disponibilità.
Anche in questo caso il problema risiede in un cattivo funzionamento dei
circuiti cerebrali responsabili della verifica della validità di un’idea.
Questi meccanismi
possono in qualche modo essere rilevanti nel diminuire la capacità decisionale
di persone sane? Un esempio recente (Miller BL.
Science denial and COVID conspiracy theories. Potential
neurological mechanisms and possible responses. JAMA, 2020) lo
abbiamo vissuto con il COVID: per persone con una cultura scientifica
insufficiente, comprendere e verificare un grafico sui dati del COVID-19 può
essere difficile quanto per una persona con demenza a corpi di Lewy
interpretare un volto.
In una condizione
di simile difficoltà, la persona può facilmente preferire altre fonti
d’informazione, più semplici e, quindi, più affini. Emblematiche in questo
senso sono le teorie cospirazioniste che vengono abbracciate non solo perché
normalmente più amplificate nel web ma anche perché molto più semplici e
dirette. Come tali, risultano immediatamente gratificanti, analogamente a quanto
è gratificante per una persona con demenza fronto-temporale credere di aver
vinto alla lotteria. Per questo vengono preferite rispetto alla fatica
necessaria a comprendere, verificare e confrontare i diversi aspetti di un
problema.
Alcuni aspetti
“strutturali” della comunicazione all’interno dei social media
contribuiscono ad aggravare la situazione: la cattiva informazione è spesso
scioccante, provocatoria, estremista, polarizzante, diffamatoria. Anche per
questo è più gratificante – come gratificante è il “premio” in like o followers
che spesso riceve. Tutto ciò ha la capacità di attivare la dopamina, il
neurotrasmettitore che è maggiormente legato alla gratificazione. La
conseguenza della attivazione dopaminergica è che questa informazione diventa
preferibile. Quindi, alla poca abitudine dei lobi frontali alla “fatica” della
verifica si aggiunge una ovvia non volontà a sottoporre a riscontro un’idea che
in qualche modo è piacevole (van der Linden & Cohen. The neuroscience of
misinformation: a research agenda. Neuron 2025).
È possibile
contrastare questi processi, che avvengono nelle aree colpite dalla demenza
fronto-temporale e dalla demenza a corpi di Lewy, attraverso l’allenamento?
Sì, se
l’allenamento inizia dalle scuole elementari e viene mantenuto e perfezionato
nel corso della carriera scolastica. Se tutto ciò non viene sviluppato, si
riduce la capacità di lavoro delle nostre aree cerebrali fronto-temporali e,
quindi, la nostra capacità di essere efficienti nel prendere decisioni
corrette. È per questo che sviluppare al meglio la salute di questi circuiti
cerebrali è una delle migliori risorse per la salute della democrazia.
Ciò è ancor più
vero in un periodo in cui la retorica antiscientifica sembra guadagnare
popolarità, peraltro in un contesto in cui la comunicazione pubblica è dominata
da dinamiche emotive e irrazionali. Le neuroscienze cognitive hanno mostrato, a
partire dal lavoro di Daniel Kahneman e Amos Tversky, quanto l’essere umano sia
soggetto a bias cognitivi: tendiamo a sottovalutare i rischi futuri
rispetto a benefici immediati (present bias), a conformarci alle
opinioni della maggioranza (bandwagon effect), o a reagire
emotivamente più che razionalmente (availability heuristic). Questi
meccanismi, efficacemente descritti anche da Cass Sunstein e Richard Thaler
nella teoria del nudge, spiegano perché temi complessi come la
sostenibilità ambientale o le politiche sanitarie spesso fatichino a trovare
consenso.
In altre parole,
non è solo la macchina democratica a essere lenta e, in parte, inadeguata. Lo è
anche la nostra mente: studi di risonanza magnetica funzionale, già diversi
anni fa hanno dimostrato che, per quanto riguarda le decisioni politiche, la
nostra mente attiva non solo aree deputate al ragionamento astratto, ma anche
aree limbiche ed emotive come l’amigdala e il giro cingolato (Greene et al., Science
2001). Ed è quasi superfluo notare come, in considerazione della rivoluzione
cognitiva dei large language model, la futura istruzione dovrà
privilegiare proprio la capacità di verifica (delle informazioni che dai
large language model provengono) piuttosto che la memorizzazione di
nozioni. In altri termini, la qualità del pensiero critico sarà il migliore
alleato della democrazia.
I benefici che la
società può trarre dall’attenzione a questi temi influenzano l’efficienza
decisionale anche attraverso altri meccanismi. Un punto chiave riguarda la
riduzione dell’aggressività nel cercare di imporre le proprie idee.
È interessante a
questo proposito notare come il dibattito scientifico sia decisamente meno
aggressivo dei dibattiti che hanno luogo in altri ambiti della società. Ciò è
evidente fin dall’uso quasi stereotipato dell’espressione “i dati suggeriscono”
nei lavori scientifici. I ricercatori sono per la stragrande maggioranza molto
prudenti nel dare un giudizio sul lavoro svolto per confermare una loro teoria.
Sanno che, nonostante esperimenti e verifiche rigorose, è sempre delicato
sostenere che si è giunti a una dimostrazione. Da qui l’uso prevalente del
verbo “suggerire”. La dimostrazione verrà, ad esempio, quando altri scienziati
saranno in grado di riprodurre in modo indipendente l’osservazione fatta. Ed è
per questo che l’aggressività è pressoché assente: inutile cercare di imporre
idee prima che queste siano verificate. La Scienza è forse l’unica attività
umana che si autocorregge. Inutile forzarla.
Una democrazia
ideale, nella quale tutti i cittadini fossero “allenati” all’uso dei circuiti
cerebrali frontali come possono esserlo i ricercatori, sarebbe non solo più
efficiente ma anche meno aggressiva al suo interno.
Del resto, anche
nell’ignoranza dei meccanismi neurologici alla base di una corretta
interpretazione della realtà, il concetto di paideia era, fin dell’età
di Pericle, il fondamento della democrazia ateniese perché trasformava
l’educazione in uno strumento politico.
He is the Director of the
Neurology and Stroke Unit at Sant’Andrea University Hospital.
His research group focuses on the investigation of gene-environment interactions in the etiology of multiple sclerosis and on proof-of-concept, repurposing clinical trials in multiple sclerosis and in rare neurological diseases.
He was awarded the Rita Levi-Montalcini prize for research on multiple sclerosis in 1999. He is member of the Board of Directors of the Italian Multiple Sclerosis Society, member of the Scientific Steering Committee of the International Progressive Multiple Sclerosis Alliance and Academic Chair of the Industry Forum of the International Progressive Multiple Sclerosis Alliance. He is also member of the Steering Committee of the Accademia Medica di Roma.
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Marco Salvetti è Professore
di Neurologia presso l’Università Sapienza di Roma, dove dirige il Dipartimento
di Neuroscienze, Salute Mentale e Organi di Senso e il Programma di
Specializzazione in Neurologia della Sapienza. È Direttore dell’Unità di Neurologia
e Stroke Unit presso il Policlinico Universitario Sant’Andrea.
Il suo gruppo di ricerca si
concentra sull’indagine delle interazioni gene-ambiente nell’eziologia della
sclerosi multipla e su studi clinici proof-of-concept e di riposizionamento di
farmaci nella sclerosi multipla e nelle malattie neurologiche rare.
Nel 1999 ha ricevuto il
premio Rita Levi-Montalcini per la ricerca sulla sclerosi multipla. È membro
del Consiglio di amministrazione della Società Italiana di Sclerosi Multipla,
membro del Comitato Scientifico Direttivo dell’International Progressive
Multiple Sclerosis Alliance e “Academic Chair” dell’Industry Forum
dell’International Progressive Multiple Sclerosis Alliance. È anche membro del
Comitato Direttivo dell’Accademia Medica di Roma.


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