Testimonianze di resurrezioni - III. Tiresia e sua figlia Manto I parte (NARRATIVA) ~ di Ksenija Skliar - TeclaXXI

 

NARRATIVA


                                Testimonianze di resurrezioni

III. TIRESIA E SUA FIGLIA MANTO

I PARTE

di Ksenija Skliar



III. Tiresia e sua figlia Manto (I parte)

Tiresia, come si sa, rifiutò di ammazzare la seconda coppia di serpenti. Preferì restare donna. E vinse. Probabilmente divenne ragazza-madre (erano i primi anni Settanta, o gli ultimi Sessanta). Non so di cosa visse, che lavoro fece, con chi visse, non so se la sua fu una vita felice.

Non poteva essere infelice, Tiresia, dopo aver dipanato matasse di lana bruna di quelle lunghe serate d’inverno del Nord, senza profferire una parola. Credo non abbia ammazzato nemmeno la prima coppia di vipere. È nata femmina, Tiresia. Suo gemello maschio nacque morto. A lui sarebbe toccato il fatidico nome, Tarasio, “ribelle”, “chi disturba”, l’onomastico a fine febbraio secondo il calendario giuliano. La vipera, sola, senza il compagno, la venne a salutare una mattina di maggio: s’avvicinò innocua ai piedi della quindicenne che calzava rainboots di gomma, verdi. Fu in un paese dei vecchi credenti al Nordest, con salici neri sopra un limpido lago con il fondale di sabbia bianchissima, appena increspata, le case di legno quasi a palafitta. Devo avvertire che non tutto che dice, o che dicono di lei, corrisponde ai fatti: evito l’uso della parola verità per scongiurare la comparsa di menzogna. Gli ultimi due anni della scuola li trascorse in uno stato di torpore allarmante: come fece a passare gli esami di maturità e superare gli esami d’ingresso a biblioteconomia?

Qualcuno dice che stava bene così, a fare l'amministratrice di una casa dello studente (Studentenheim, ottimo termine, pieno di malinconica rassegnazione dell'umile Heimat; non bisogna giustificarsi mai, nemmeno davanti a Dio, poiché Dio ti giustifica meglio, se stai zitto).

 Coltivava piante grasse, disegnava discretamente, lavorava a maglia. La vipera di maggio si faceva vedere ogni tanto al cimitero dove Tiresia viene il giorno degli antenati, il secondo martedì dopo la Pasqua ortodossa, per recitare «L’Angelo proclamò alla Piena di Grazia». Nessuno dei suoi vecchi riposa lì: Tiresia serba in segreto una costellazione di sepolcri dei suoi antenati, sparsi per l’ecumene in continua disgregazione. Eroi, traditori, bigami, alcolizzati, isteriche. Le basta il concavo universo plasmato dall’esigua tribù dei suoi avi.

 

Sua figlia Manto portava un nome lituano che esce in -mantė (“pensiero”, “mente”), il suo nome di battesimo poteva essere qualsiasi, tanto si pronuncia solo nell'attimo che precede l'Eucarestia, doveva esser un nome breve, come Anna, Olga, Eva, sicuramente non sontuoso, non Sofia. Manto, donna senza età - occhi color mare invernale, capelli color mercurio, lunghissimi, intrecciati - ora si fa chiamare con un nome diverso ancora, vive a Siena, reduce di un'assurda relazione con un uomo di grande talento e di palese disturbo schizoide: un biondo leone araldico o un principe tolstojano.

La relazione consisteva in una serie di ravvicinamenti notturni. Di giorno i due calcavano due terre diverse, nella stessa città. Entrambi rimasero per anni pregni di interi oceani di non detto. Vedi, Manto, hai ragione, come gravidanza in spagnolo è imbarazzante, così lo è questo tuo stato di stare per dire. Mille volte hai ripetuto il rosario profano di «non merita parole, pensieri né azioni», perché ho peccato, per mia grandissima colpa. E ancora: «ho già spiccato il volo, non mi puoi raggiungere», «per te non esisto più», «la luce diurna ha scacciato le tenebre della tua casa – sepolcro etrusco», «gli dèi dei pagani sono demoni». E ancora: «dalle fauci dei leoni e dalle corna dei rinoceronti mi hai salvato». E ancora: «Madre Invincibile, vienimi in soccorso». E mille volte hai spezzato il filo del tuo rosario, un komboloi di cordicella bianca, e lo hai riannodato: ora è sudicio e deforme. Lo hai lavato più volte con sapone antibatterico. È rimasto unto per sempre, come sono unte le corde che servono da corrimano in alcune vecchie case con scale ripidissime. Hai sempre qualcosa da dire, ti consiglio di provare a metterlo per iscritto: con le tue parole, come qualsiasi essere umano, saprai liberare dalle catene la verità prigioniera, e con lei mille prigionieri del passato: eroi, traditori, bigami, isteriche.

Tiresia amava il silenzio più di ogni suono, eccetto i suoni del bosco, delle acque, della ferrovia invisibile, del vento (come nei canti popolari russi, il vento è libero, vive di volontà). Aveva un pianoforte ma non suonava. Nemmeno Manto suonava. Il pianoforte reggeva una imbarazzante tivvù coreana e alcuni libri. Lo strumento era totalmente alieno in quella casa, ma non si poteva darlo via: non serviva a nessuno. Se ci fosse qualche famiglia rom con tanti figlioli, uno dei quali sicuramente ha con l'orecchio perfetto e tanta voglia di liberare i cavalli scalpitanti del suo selvaggio talento! Ma i rom se n'erano andati. Quando andavamo a scuola i bimbi rom sparivano dalla classe dopo poche settimane. Avrebbe regalato il pianoforte ai piccoli shiva danzanti, ecco. O alla parrocchia dei nikoniani (i vecchi credenti ne facevano sicuramente a meno alle prove del coro).

La lingua parlata da Tiresia - e da Manto, con un'ostentazione giovanile, per questo encomiabile - tra le mura di legno di quella casa, non suonava né nostalgica né artificiale. Parlavano come fossero due vecchie dalle gote rosse, nate e cresciute nel Distretto dei Laghi, contadine osservatrici. La lingua diafana scorreva tra le mura della loro casa, sublime come vestigia delle forme obsolete che madre e figlia recuperavano con amore dalle chiacchiere delle nonne velate, per nulla chiacchierone.

Non sapevo da dove veniva Tiresia, al contempo ero certa che fossero arrivati qui tutti e tre, il babbo fuggiasco compreso, con la figlia già battezzata, o forse qualche anno dopo. Questo si chiama plasmarsi la terra sotto i piedi.

Una volta a Siena una turista greca si rivolse a Manto nella lingua natìa. Era un inverno stranamente caldo, quasi ateniese, il buio serale sapeva di polvere estiva. Manto trasalì e sparò brusca: «Che cosa vuole? Lei, che cosa vuole?» La greca, stringendo un pacchetto di carta con la scritta Forno Sclavi come se volesse parare un colpo, bisbigliò qualcosa. Manto, se fosse stata più giovane, si sarebbe messa a correre... capiva il greco senza averlo mai studiato. Calcante credeva Tiresia un impostore. Impostore? Meglio di assassino di bambine innocenti. Tiresia, Calcante o Anfiarao? A chi voleva rivolger parola la donna che aveva comprato due ciaccini alle verdure?

Tiresia si era sposata con quel tizio perché bisognava pure gettare qualcosa di commestibile nelle fauci del sistema. Correvano i Settanta. Il sistema, oramai decrepito, esigeva sacrifici, o almeno gesti rituali ad esso paragonabili. Si poteva anche divorziare, in una maniera asettica, senza chissà che motivo. Non s’aspettava nulla di buono, Tiresia. Non aspettava Nemmeno l'incontro con Manto. Tanto, per procurarsi un figlio, sposarsi, in diebus illis, non era indispensabile, in quanto al sistema rugginoso. Apposta si era messa con il tizio perfettamente sano di mente, di buon materiale (capelli folti, alto, occhi grandi, orecchie piccole, naso dritto, parlo come se stessi descrivendo un cavallo). Hanno vissuto quindici anni di simbiosi rispettosa. Lui la tradiva con la massima riservatezza, con una donna più anziana, dai capelli di un bel giallo con le radici scure, perché tutte le donne all’infuori di Tiresia sono degne d'amore. Importante non essere Tiresia, ricordatelo.

Bisogna saper addormentarsi come si deve: palpebre mai serrate, viso placido come un lago. Non stringere i denti, no pugni stretti, no collo rigido quale manico d'un martello. Tutta questa perfezione si raggiunge solo a patto di non avere nessuna immagine sotto le palpebre.

Ciò che custodisco sotto le palpebre mi costa sangue, mi mutila del mio oggi e del mio domani. Vedo e rivedo il Distretto dei Laghi, colori neutri, indefinibili, piombo e mercurio, ardesia e fumo, vetro trasparente e acqua limpida, sabbia e salice. Abitavamo noi quattro in un caseggiato tutto praticità e rigore, nella parte nuova del paese, che dava le spalle ai laghi. I miei e noi due, io e il mio gemello. Qualsiasi spreco era impensabile: spazio, tempo, parole, luce e cibo non eccedevano la misura perfetta stabilita dalla vita stessa. Amore, affetto, fiducia sono onnipresenti e non necessitano contenitori o etichette. Sono inesauribili. Non hanno forma, hanno odore lacustre, fresco, verde. Quando compimmo dodici anni il Gemello decise di andare a vivere dalla nonna Vera, in una casa identica alla nostra, di fronte, per prendersi cura di lei e del suo gatto, e per avere una stanza grande tutta per sé. Pochi anni dopo si sarebbe innamorato di Manto, figlia di Tiresia. Non potevo scampare da questo dardo della verità essendo sua gemella. Non potevo evitare la collisione con quel mondo lì.

Credo di aver intravisto Tiresia, qui in città, al terminal dei traghetti, dopo tanti anni. La città sta ineluttabilmente perdendo ogni senso, non ne resta che un mucchio di supermercati affollati di splendida gente nordica, e tanti alberi sparsi qua e là. Tiresia anche qui è completamente fuori contesto. I suoi grandi occhi neri sono carichi di tensione: una decina d'anni fa sembrava ancora meno ingranato nell'umanità, come fosse nudo sotto la pioggia fredda. Qui parlo di un Tiresia maschio. Ma non era nato morto? Non saprei dire. Sono sicura che anch’egli esiste.

La prima volta lo incontrai ad Atene, d’inverno, quando il cielo e il mare sono fatti dalla stessa sublime stoffa di un grigio più nobile che abbia mai visto. Egli era probabilmente un folle in Cristo*, un uomo alto e possente, barbuto, dalla chioma folta castano scuro, dormiva in una minuscola cappella che vedevo dal balcone della mia camera. Navigava libero dalle zavorre, non portava dietro sacchi né buste di plastica come sono soliti fare i vagabondi di altri dèi. Indossava un completo marrone e portava nella mano destra un crocifisso di legno colorato. Salimmo sul tram – quello che da Voula (ieri opulenza – oggi decadenza) porta alla Syntagma. Il folle, spero, in Cristo, scese, prima di me, alla mia fermata, e prima di scendere mi indicò la strada con il crocefisso. Potrei provare a indovinare a che pericoli sono scampata sotto quella benedizione. Atene pullula di dèi dei popoli, che sono demoni.

Gente sana di mente ama il mare, diceva la figlia di Tiresia, deve amarlo. Preferisco il fiume. I fondali marini sono pieni di morte. E i fiumi, chiedevo, non trascinano mica morti annegati? Verso il mare, rispondeva Manto. Ecco, verso il mare, dicevo io. Quando guardo il fiume, scorro anch'io, o navigo, come una barca, diceva Manto. Verso il mare, dicevo io. No, ogni fiume si butta nell'Oceano, anch'esso un fiume. I mari sono per i mortali, i fiumi per tutti gli altri. Si era trasferita a Firenze per far la cameriera in una residenza d'epoca amata da quel tipo particolare di americani che evocano i bei film degli anni Cinquanta: alti, floridi, perfettamente WASP. Manto, solenne come un butler, nella sua divisa era perfetta, benché poco donna. La finestrina della minuscola camera di servizio dava sul fiume: di giorno verde giada, di notte grigio mercurio. (continua)

*folli in Cristo sono una categoria dei Santi dell'Oriente Cristiano che - vivendo da vagabondi - rinunciano ai comfort e alle convenzioni sociali denunciando, con presunta follia, la follia del mondo. [NdA]

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KSENIJA SKLIAR  

BIONOTA Sono Xenia, nata nel 1979. Preferisco la grafia meno ridondante del mio nome, quella con la X. La mia vita è fatta di continui scambi e cambiamenti, complice il percorso di studi in linguistica e filologia, che assicurano la serenità dei cronotopi interiori che custodisco: gli ultimi, velocissimi, anni dell’URSS, i faticosi anni Novanta nella giovane e verde Prussia Orientale, e il secolo XXI, pervaso dal Trecento, a Siena. Allo stesso modo, scambi e cambiamenti, refusi e risemantizzazioni rendevano sempre vivi e vegeti bestiari, vite dei santi, romanzi cavallereschi e altre storie, sempre vere, del Medioevo.




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