Aby Warburg e il ‘Déjeuner sur l’herbe’ di Édouard Manet DI VALENTINA DI ROCCO (storia dell'arte)
STORIA DELL'ARTE
Aby Warburg e il ‘Déjeuner sur l’herbe’ di Édouard Manet
DI VALENTINA DI ROCCO
Il
saggio sul Déjeuner sur l’herbe di Manet. La funzione di modello delle
divinità pagane elementari in rapporto alla evoluzione del moderno sentimento
della natura[i]
è indiscutibilmente tra i più importanti testi elaborati dallo storico
dell’arte amburghese Aby Warburg (1866-1929).
Apparso
per la prima volta in italiano nel 1984, sul numero monografico che la rivista «aut
aut» dedicò alla figura e al pensiero dello studioso, questo breve frammento
non ha goduto di grande considerazione nell’ambito italiano degli studi. Dopo
anni di sostanziale indifferenza, il testo warburghiano è ricomparso in una
nuova versione e traduzione nel 2007, grazie alla pubblicazione a cura di
Maurizio Ghelardi dell’opera completa di Warburg.
Con
questo intervento, non esaustivo della complessità e dell’ampiezza
dell’argomentazione warburghiana, si intende richiamare l’attenzione su una
delle più significative ricerche di Warburg sulla ‘Sopravvivenza dell’Antico’ (Nachleben
der Antike), affrontandone gli aspetti più rilevanti.
Aby Warburg (1900 ca.)
Si tratta di un abbozzo risalente al marzo 1929. Il testo manoscritto è di mano di Gertrud Bing, assistente di Warburg dal 1922, ma esiste una seconda versione dattiloscritta, probabilmente realizzata da Bing ed Ernst Gombrich, che assieme alla Introduzione al noto Atlante di immagini ‘Mnemosyne’ e alla conferenza in onore dell’amico filologo Franz Boll fu pubblicata nel volume Geburtstagsatlas für Max M. Warburg preparato per festeggiare il settantesimo compleanno del fratello Max il 5 giugno 1937. Questa versione consiste di 22 fogli e solo in parte è identica alla prima stesura manoscritta. Ad essa sono aggiunti due fogli dattiloscritti, Zur Frage der Beziehung zwischen dem Déjeuner sur l’herbe und dem Bilde des Claude in Zola’s Roman l’Oeuvre, che non sono di mano di Warburg.
Alcuni
importanti accenni a questa ricerca si trovano nei cosiddetti Frammenti tra
Manet e Mnemosyne[ii]
– un insieme di undici fogli non numerati che raccoglie alcune riflessioni su
Manet e sull’Atlante più compiutamente sviluppate nel saggio – e nella tavola
55 del Bilderatlas: Il Giudizio di Paride: ascesa e ricaduta degli
dèi, della quale il testo doveva rappresentare l’accompagnamento scritto.
Elaborato
negli ultimi mesi di vita dell’autore, durante il suo ultimo, fondamentale,
viaggio in Italia (1928-1929), questo incompiuto saggio contiene il più conciso
sommario della teoria warburghiana sull’ «Inversione energetica» (Energetische
Inversion) delle Pathosformeln[iii]
e rappresenta uno dei pochi componenti scritti del testo mai concluso con
il quale Warburg intendeva corredare il suo Atlante. Con questo studio, Warburg
ha tentato di spiegare il senso della ‘sopravvivenza’ della memoria attraverso
la sua materializzazione nell'arte, portando ad un nuovo grado di complessità
la sua teoria sulla trasmissione degli ‘engrammi’ classici e la loro
riutilizzazione attraverso i secoli. Partendo dall’osservazione di un gruppo di
sarcofagi raffiguranti il mito del Giudizio di Paride, lo studioso ha
tentato di ricostruire il processo di diffusione e trasformazione del motivo
mitologico, dall’età antica fino alla sua riattivazione nell’arte contemporanea,
analizzando al contempo le ragioni storico culturali alla base della
trasformazione del suo significato dal sacro al profano.
Nella Biografia intellettuale[iv] di Aby Warburg, Gombrich ha suggerito che fu un ritrovamento casuale ad opera dell’amico Gustav Pauli, storico dell'arte tedesco e direttore di museo a Brema e ad Amburgo, ad innescare la complessa indagine warburghiana sul quadro impressionista.
Nel
suo Rafael und Manet (1908), Pauli aveva rilanciato e argomentato
un’intuizione di Ernest Chesneau, all’epoca passata sotto silenzio (L'art et
les artistes modernes en France et en Angleterre 1864), secondo la quale Manet
si era ispirato, per la composizione del suo Déjeuner, al gruppo di
divinità fluviali inciso da Marcantonio Raimondi in una nota xilografia
raffigurante il Giudizio di Paride. A sua volta, Raimondi si era basato
su un disegno – oggi perduto – di Raffaello, il quale lo aveva elaborato a
partire da un antico sarcofago murato nella facciata di Villa Medici (Accademia
francese). Così, durante la sua permanenza romana (novembre 1929 - aprile
1929), il centro dell’attenzione di Warburg si focalizzò su una serie di
sarcofagi raffiguranti il Giudizio di Paride, quel tipo di monumenti,
cioè, che egli considerava i principali veicoli grazie ai quali è stato
materialmente preservato in epoca moderna il mondo degli dèi pagani.
Oltre
al prototipo di Villa Medici, nel saggio vengono citati e discussi altri due
rilievi antichi: il sarcofago murato nel Casino del Bel Respiro di Villa Doria
Pamphili, e il frammento di sarcofago proveniente da Villa Ludovisi,
attualmente conservato presso il Museo Nazionale Romano.
In
questo modo, Warburg intendeva ricostruire una storia una ben più complessa di
quella riportata alla luce da Pauli, che fosse in grado di spiegare le
molteplici vicende, migrazioni, e variazioni dei fenomeni artistici in base ai
cambiamenti storico-culturali.
Nel
raccogliere questa sfida, lo studioso ritrovò il suo giovanile entusiasmo e si
lanciò in un’altra di quelle ricerche sulla trasmissione delle antiche Pathosformeln
che tanto lo incuriosiva e che offriva ora la promessa di una teorizzazione
trans-storica dell’espressione visiva e simbolica ancora più ampia. Erano passati
più di trent’anni da quando aveva affrontato per la prima volta l’enigma della Venere
di Botticelli[v]
(1893) e sebbene, all’apparenza, le sue considerazioni nei lunghi anni di
ricerca si fossero sempre aggirate attorno al problema della rinascita e della
sopravvivenza dell’Antichità, «egli si era spinto, nella sua interpretazione,
assai lontano». In un certo senso, Warburg avvertiva il bisogno di abbandonare
gli esempi che così a lungo avevano dominato il suo lavoro per aprirsi a nuove
concezioni, e i nove mesi trascorsi in Italia tra 1928-29 furono dedicati
soprattutto a questo sforzo. Durante quell’ultimo soggiorno nella sua terra di
adozione, infatti, il contatto diretto con le vestigia dell’Antichità romana
non soltanto gli permise di maturare le riflessioni che avevano caratterizzato
il suo precedente percorso intellettuale, fornendo nuove risposte ai vecchi
interrogativi sul Nachleben der Antike, ma lo esortò ad esplorare
inediti campi disciplinari, sollecitando una revisione completa della sua
ricerca.
A
Roma, durante quei frenetici giorni di studio, Warburg si accorse che i
sarcofagi osservati sulle facciate di Villa Medici e del Casino Pamphili si
differenziano per la trattazione della storia narrata: infatti, mentre il primo
restituisce ben due scene tratte dal preludio del dramma troiano – a sinistra,
il Giudizio di Paride, a destra, il Ritorno di Venere sull’Olimpo
– nel rilievo Pamphili è raffigurato solo il Giudizio del pastore sul monte
Ida.
Con
la loro bella e dettagliata corporeità le tre dee di questo sarcofago hanno
chiaramente indotto Raimondi a integrare il racconto, che per il resto si
attiene pressoché letteralmente al sarcofago di Villa Medici. Si nota solo una
differenza, peraltro significativa: manca l’eroe nudo al centro con lo scudo
sollevato, come anche la Venere in ascesa che, guidata da una Nike, ritorna
sull’Olimpo.
Con la sua serena disinvoltura olimpica, per la quale la corporeità umana non è più l’oggetto abbandonato dell’ira degli dèi pagani, ma la rappresentazione di una superiore humanitas, essa simboleggia un mutamento cruciale nella «disposizione d’animo dell’uomo nei confronti del motivo mitologico», quale si verifica nel Rinascimento in seguito alla ‘secolarizzazione’ dell’antico. Sul sarcofago, infatti, questo motivo non compare, ed è possibile che sia stato creato sul modello di un’antica statua e trasferito alla figura di Minerva. L’idillio pastorale di Raimondi, con la sua gioia innocente per la bellezza corporea, rifiuta, in quanto nuovo principio artistico, «qualsiasi tentativo di un inserimento di elementi mitologici seriamente drammatici per l’animo».
Tuttavia, Warburg notò che nella stessa epoca di Raimondi un altro incisore si era ispirato al sarcofago mediceo, riproducendo la composizione antica originaria in ogni suo dettaglio: Giulio Bonasone.
Accostando
le due incisioni, lo studioso mise in evidenza una discrepanza fondamentale.
Sia
in Bonasone sia nel sarcofago antico, gli dèi della terra sono rappresentati da
quattro figure: «troneggiante compare Tellus, signora della
Terra, e accanto, fissati al suolo, tre geni». Per Warburg, il loro tentativo
di sollevare il busto da terra corrisponde ad una «commozione contemplativa» di
fronte all’apparizione della divinità celeste. In Marcantonio, invece, che si
discosta dallo schema antico originario, la Tellus scompare, mentre la Ninfa,
che nell’opera pagana leva la testa al cielo per adorare il prodigio che si
svolge sopra di lei, volge il capo in direzione del mondo esterno.
Attraverso degli scostamenti all’apparenza insignificanti nella rappresentazione dei gesti e dei volti, dunque, il Rinascimento ha generato una metamorfosi nella «dinamica psicologica nella rappresentazione della figura umana». Infatti, mentre nel rilievo antico di Villa Medici i gesti delle divinità naturali, subordinate e timorose del divino, sono ancora radicate nelle pratiche rituali, la trasmissione di quegli stessi gesti alle incisioni italiane ha prodotto l’impronta per una nuova e autonoma umanità.
Per
Warburg, si tratta di un cambiamento epocale, poiché l’omissione della
gestualità fobica nella rielaborazione di Marcantonio disegna una prima forma
di emancipazione dell’uomo dalla soggezione teofanica, segnando l’avvio di un
lungo processo di de-demonizzazione che culmina nella Colazione di
Manet. Nel Déjeuner, infatti, la coscienza dello spettatore presupposta
dall’incisione si è addirittura rafforzata. Non solo la donna nuda, ma anche
l’uomo accanto alla Ninfa francese guarda fuori dal quadro.
Nel
passaggio tra il Giudizio di Paride, così com’è rappresentato sul
sarcofago pagano, e il Déjeuner di Manet si è verificata una vera e
propria trasformazione nella «dottrina delle cause dei fenomeni fondamentali
della natura». Attraverso la scoperta dell’idea di infinito, il mondo moderno
rifugge dalla concezione del globo come entità chiusa, governata da leggi
immutabili. In Manet, come già in Raimondi, la regolarità immanente dei
processi naturali ha fatto precipitare gli dèi sulla terra creando, da un lato,
l’impronta di una liberà umanità, e costringendo, dall’altro, l’essere umano a
porsi il problema di come orientarsi nel caos delle impressioni.
Una conferma alla propria interpretazione, che riconosce nello sguardo terreno della Ninfa il sintomo della redenzione umanistica dell’uomo, Warburg la ottenne dall’analisi del sarcofago osservato al Museo delle Terme (oggi Museo Nazionale Romano). Infatti, sebbene a prima vista quest’ultimo sembri contraddire l’ipotesi secondo la quale il motivo della Ninfa che volge lo sguardo verso lo spettatore rappresenta un aspetto non antico, gli archeologi tedeschi Heinrich Brunn e Otto Jahn avevano dimostrato che essa era una integrazione rinascimentale.
Nell’ottica
warburghiana, tale intenzionale variatio rispetto al modello antico
rappresenta il segno di una «rimozione archeologizzante» degli dèi in grado di
dischiudere la strada ad un abbandono senza timore alla bontà originaria della
natura.
In
Raimondi, tuttavia, la liberazione dall’influsso del destino astrologico non è
ancora pienamente compiuta, compromessa dalla presenza in cielo della
soverchiante teofania delle potenze della luce: Giove troneggia nella volta
celeste come un dio del fulmine, con sotto di sé il Cielo come sgabello per i
piedi, mentre il Sole si avvicina sul suo carro, circondato dal cerchio dello
zodiaco.
Per
questo, Warburg «si rallegrò quando scoprì una variante olandese del XVII
secolo di questa composizione», nella quale la rappresentazione di Raimondi è
inserita in una veduta priva di divinità nel cielo. Dal Diario personale
dello studioso, si evince che Warburg scoprì il dipinto nella sala da pranzo di
Villa d’Este, durante una gita a Tivoli avvenuta il 2 dicembre 1928. In
quell’occasione, il dipinto fu identificato come «il quadro di un fiammingo
(all’incirca 1560) che colloca il Giudizio di Paride […] in un paesaggio
olandese italianizzante».
Raffigurando il l’episodio mitologico attraverso una simbiosi tra accessori anticheggianti e un paesaggio olandese, l’anonimo artista era stato il primo ad omettere ogni allusione alla sfera celeste, trasformando la composizione del soggetto sacro in una scena di campagna. In questa versione, la ninfa è libera di volgersi verso l’esterno, Poiché le due divinità maschili sono attratte da uno spettacolo ben più quotidiano di un’apparizione sacra, quale un piccolo gruppo di viaggiatori intento a superare un torrente, della cui non pericolosità ci assicurano due mucche nell’acqua. Per questo, non vi è dunque «ragione alcuna di supporre che vi sia una volontà creativa pagana intenta a causare dei minacciosi eventi elementari ad opera di potenti demoni naturali».
In
questo gioco di rimandi e trasformazioni, la versione di Tivoli si pone come
uno strano 'osso ioideo' tra il sarcofago, Raffaello e Manet. Essa, infatti,
non mostra solo la via per tramutare gli antichi semidei pagani in borghesi
vestiti, ma anche per trasformare la natura da essere minaccioso a piacevole
luogo da picnic. In tale prospettiva, persino le enigmatiche righe a
conclusione del saggio sul Déjeuner rivelano il loro significato,
illuminando la prospettiva entro la quale Warburg si orientò negli ultimi mesi
di vita:
«L’illogica abbondanza della creazione artistica italiana ha prodotto e conservato un’opera d’arte che […] adempie, in quanto oggetto, agli stessi postulati di un osso intramascellare […] Una collocazione storico-spirituale della mucca olandese, che appare così autoctona a sinistra sulla cima del monte come, ad esempio, una possibile raffigurazione di una divinità dei monti, è interdetta dal fatto che sul sarcofago di Villa Medici un possente bovino figura come grandioso exemplum del gregge di Paride. Ad ogni buon conto, la nostalgia della natura, accessorio eterno dell’uomo prigioniero di una comunità consolidata, pretende l’adempimento del suo diritto originario: Manet aveva studiato il suo Rousseau».
[i] Aby Warburg, Manet’s “Déjeuner sur l’herbe”. Die vorprägende
Funktion heidnischer Elementargottheiten für die Entwicklung moderner
Naturgefühls, Entwurf, 1928-1929 [WIA III.116], trad. italiana di Maurizio
Ghelardi, Déjeuner sur l’herbe di Manet. La funzione di modello delle divinità pagane
elementari in rapporto alla evoluzione del moderno sentimento della natura, in
La rinascita del paganesimo antico e altri scritti (1917-29), Torino 2007.
[ii] A. Warburg, Notizien zu Manet
und Mnemosyne [WIA III.102.1.2]; ed. e tr. it. di M. Ghelardi, Aby
Warburg, Frammenti tra Manet e Mnemosyne, con una nota di commento di M.
Centanni, «La Rivista di Engramma» 165 (maggio 2019).
[iii] Ricorrendo alla nozione di
“polarità” o “inversione energetica” Warburg ha discusso la possibilità per
ogni stato psicologico e per la sua espressione corporea di contenere estremi
opposti.
Egli si era reso
conto, infatti, che a partire dal XIV secolo gli artisti avevano iniziato ad
utilizzare nelle loro opere immagini tratte dalle vestigia dell’antichità: frammenti
di statue, monete, strutture architettoniche e, soprattutto, sarcofagi,
principali veicoli di trasmissione degli “engrammi” dei sentimenti pagani.
Tuttavia, era egualmente ricorrente che pittori e scultori isolassero figure
particolarmente espressive e gesti caratteristici, astraendoli dal loro
contesto e modificando, di conseguenza, l’originario significato iconografico,
talvolta fino a giungere ad esiti espressivi opposti, pur mantenendo inalterata
l’identità formale. Per questa ragione, Warburg ipotizzò che determinate
immagini continuano a sopravvivere attraverso i secoli come patrimonio
ereditario nella memoria culturale in virtù della loro “energia gestuale”,
configurandosi come vere e proprie Formule di pathos.
[iv]
E.H. Gombrich, Aby Warburg. An Intellectual Biography, London
1970; Aby Warburg. Una
biografia intellettuale,
tr. it. di A. Dal Lago e P.A. Rovatti, Milano [1983] 2003.
[v] A. Warburg, Sandro Botticellis “Geburt der Venus” und “Frühling”. Eine Untersuchung über die Vorstellungen von der Antike in der Italienischen Frührenaissance, Hamburg-Leipzig 1893, trad. Italiana di Emma Cantimori, La nascita di Venere e la Primavera di Sandro Botticelli. Ricerche sull'immagine dell'antichità nel primo Rinascimento Italiano, in La rinascita del paganesimo antico, a c. di G. Bing, Firenze 1966, pp. 1-58.
VALENTINA DI ROCCO
BIONOTA
Valentina Di Rocco è nata a Roma nel 1996. Da sempre appassionata d'arte e di letteratura, ha frequentato Lettere e Filosofia all'Università di Roma Tor Vergata, laureandosi in Storia dell'Arte con una tesi sulla figura di Aby Warburg. Attualmente è Dottoranda presso Roma Tor Vergata, impegnata in un progetto di ricerca sull'ultimo viaggio di Warburg a Roma (1928-29).
Grazie, questo contributo è molto interessante, perchè sollecita in me un approfondimento di conoscenza anche dei miti arcaici, che mi rendo conto tardivamente, necessaria per una lettura dei significati della rappresentazione nell'arte, attraverso i secoli.
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