RES AMISSA di Eduardo Rebulla (narrativa)
1. Giorgio Caproni, Res amissa.
Non ne trovo traccia.
......
Venne da me apposta
(di questo sono certo)
per farmene dono.
.......
Non ne trovo più traccia.
.......
Rivedo nell'abbandono
del giorno l'esile faccia
biancoflautata...
La manica
in trina...
La grazia,
così dolce e allemanica
nel porgere...
.......
.......
[..........]
Non spero più di trovarla.
.......
L'ho troppo gelosamente
(irrecuperabilmente) riposta.
Lucio Fontana, Attese, Rosso
3. Mi
viene in mente anche Samuel Beckett che fa (in senso figurato) i buchi nelle
parole per vedere cosa c’è dietro. Per lui le parole sono obbligate al
supplizio paradossale «di volere comunicare che non c'è niente da comunicare».
I suoi personaggi, si suole dire, usano le parole come un rifugio, nel
disperato tentativo di dare consistenza a se stessi e al mondo. E certamente è
vero, ma mi pare altrettanto vero che questi suoi personaggi sono feriti, come
se fossero attraversati da un taglio (la bocca?) da cui le parole fluiscono e
si perdono. Le parole e il fiato. Le parole e il nulla. L’attesa (le Attese)
del nulla. Esattamente come in Aspettando
Godot, una tragicommedia costruita interamente intorno al tema dell’attesa,
anzi: dell’Attesa. O come in Finale di partita, dove il tempo è sparito o è già
passato, e l’attesa è diventata fisica, terminale: l’ora in cui finalmente potrà
essere dato il calmante ad Hamm, il protagonista, uno scarto d’uomo cieco e con
le gambe anchilosate, che (nell’attesa) si fa trasportare dal suo servitore
Clov in giro su una carrozzina, fra le macerie del suo mondo.
Robert
Rauschenberg Erased de Kooning Drawing
5. Torniamo
a res amissa e al senso delle cose
che si perdono. Per Freud noi siamo in qualche modo quello che perdiamo (il
primo oggetto che perdiamo è il seno materno e, per estensione, la madre) e non
possiamo far altro che cercare di elaborare la perdita (il lutto). Se non ci si
riesce, l'oggetto perduto viene incluso nella fantasia, «dove mantiene una
presenza silenziosa all'interno del soggetto». È da qui che nasce la
malinconia, la depressione, dal rifiuto di accettare la perdita e dalla
trasformazione di ciò che si è perso in una presenza silenziosa, insidiosa. In
Freud il senso della perdita è acuto. Ciò che abbiamo perduto è stato sottratto
a noi. Con un taglierino, generando una ferita (una sofferenza).
6. A
proposito di ferita, c’è quella vera che ha lacerato la carne e strappato
l’anima di Joë Bousquet, il viaggiatore immobile nel suo letto-vascello, l’uomo rimasto paralizzato a ventun’anni, nel 1918,
in battaglia, e che per i trenta
anni successivi ha vissuto esiliato in una stanza da letto con le imposte
chiuse, in una perenne penombra rischiarata da una sola luce artificiale.
Bousquet che, nella sua perenne convalescenza, considera il poeta un passeur
endormi, che offre alle parole la possibilità di essere trasportate (clandestinamente)
da una sponda a un'altra.
7. C’è
ancora da soffermarsi sul significato di “perdere”. E qui ci può aiutare il
latino, perché il verbo amitto–ere
(da cui amissum e amissa) significa: mandare via,
licenziare, far andare. E allude tanto a un’azione volontaria, quella del
lasciar sfuggire o cadere qualcosa, del trascurare qualcosa (o qualcuno),
quanto a un’azione involontaria, di cui subiamo le conseguenze: lasciarsi
sfuggire, perdere qualcosa (o qualcuno) che possedevamo già, senza speranza di
recupero. E fra l’una e l’altra, fra l’azione volontaria e quella involontaria,
c’è una gamma di grigi, di consapevolezze a metà, di situazioni che si muovono
in bilico. (Non sono queste le sensazioni/situazioni di cui ci parla Caproni
nella sua poesia Res amissa?)
8. E su
questo stesso confine incerto (fra perdere, trascurare, lasciare sfuggire, lasciare
cadere) possiamo collocare quello che nella biografia di Freud è un punto
dolente, una ferita. Nel 1939, lasciando Vienna per Londra su pressione della
sua cerchia di devoti, Freud ebbe la possibilità di portare con sé i propri
cari. Per l’occasione stilò un elenco in cui inserì la moglie, i figli, la
cognata, le due assistenti, il medico personale con famiglia al seguito e
persino il cane. Trascurò totalmente le sorelle Rosa, Marie, Adolfine e
Pauline, che morirono nei campi di concentramento fra il 1942 e il 43.
Poco
dopo, nel 1908, all’età di 45 anni, il «tuffo negli abissi». Sempre più dedito
all’alcol e alla disperazione, Munch è costretto a ricoverarsi nella clinica
psichiatrica del dottor Jacobson, a Copenaghen. Ne uscirà se non pacificato,
quanto meno rasserenato. Da quel momento vivrà sempre più appartato, fino a un
isolamento quasi completo. Continua però a dipingere, soprattutto autoritratti.
Sono opere inquietanti, che ci mostrano un uomo desolato, vinto – un
superstite.
Edward
Munch, Autoritratto tra il letto e l'orologio
La veridicità della scritta è indiscutibile, il messaggio contenuto in essa chiaro e inequivocabile. Quel cartello dice il vero e tuttavia qualcosa non torna e mostra una deviazione, uno scarto logico. Oppure no: la scritta è assurda e paradossale e lo è perché nella sua ovvietà non rivela nulla. E tuttavia, a rileggerla adesso, questa storiella mi sembra acquistare improvvisamente un senso diverso. Come se fosse stata scritta (concepita) da Beckett. Come se raccontasse dello sforzo di chi (più il pazzo che il medico) sta sospeso fra due stati di coscienza: lo sforzo di vivere e la vanità (l’inconsistenza, le tracce) della vita.
Res amissa.
EDUARDO REBULLA
BIONOTA
Nato a Palermo nel 1950, Eduardo Rebulla ha sempre vissuto nella sua città. Di professione medico, ha coltivato la scrittura nel tempo rubato. Ha pubblicato sette romanzi, sei con l’editore Sellerio (Carte Celesti, Linea di terra, Segni di fuoco, Sogni d’acqua, Stati di sospensione, La misura delle cose) e uno con Baldini&Castoldi (Le conseguenze estreme).
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