RES AMISSA di Eduardo Rebulla (narrativa)

 


NARRATIVA

EDUARDO REBULLA 

Res amissa 






1. Giorgio Caproni, Res amissa. 

 

 

 Non ne trovo traccia.
       ......

Venne da me apposta
(di questo sono certo)
per farmene dono.
       .......

 Non ne trovo più traccia.
       .......

Rivedo nell'abbandono
del giorno l'esile faccia
biancoflautata...

La manica
in trina...

La grazia,
così dolce e allemanica
nel porgere...
       .......
       .......

[..........]

Non spero più di trovarla.
       .......

L'ho troppo gelosamente
(irrecuperabilmente) riposta
.

 

2. Res amissa. Le cose perdute. Ma perdute in che senso? Perché le parole non sono testarde (come i fatti), sono simili a un vaso e la loro forma confina con il vuoto. Mi viene in mente Lucio Fontana che sulle sue tele monocrome (bianche, colorate, grezze) faceva un taglio profondo, una fenditura, una ferita, usando un taglierino. Pare che la prima volta l’abbia fatto per caso, per sfregiare un’opera che gli era venuta male (per distruggerla, per perderla). Poi invece quel gesto istintivo gli rivelò qualcosa che non si aspettava o forse gli rivelò che da lì, da quella ferita, inferta nella tela per vedere cosa ci fosse dietro, poteva “aspettarsi” qualcosa. Il titolo di tutte le sue tele attraversate da tagli è Attesa (o Attese, a seconda del numero dei tagli), un titolo malinconico e aperto a mille interpretazioni. Nel corso del tempo (si dice che l’abbia fatto per rendere la vita più difficile ai suoi falsari) sul retro dei tagli, nella parte che si flette verso l’interno della tela e si apre in un’altra dimensione, cominciò a scrivere qualcosa. Dapprima dei nonsensi, dei giochi di parole, successivamente delle brevissime notazioni biografiche: un saluto al suo cane, preceduto da una descrizione del suo stato d’animo («sono immensamente triste»), un’osservazione stupita («sono spuntate le prime albicocche»), una considerazione allusiva alla sua vita, alla stanchezza, alla malattia cardiaca che gli “tagliava” il fiato («sono proprio stanco di camminare»). Sono scritture invisibili, nascoste nelle pieghe, scritture dell’attesa. Attesa di cosa? della Grande Perdita? Anche. Può darsi. Mi piace tuttavia pensare che quei tagli, così simili a una ferita, abbiano pure il senso della vita che scorre e che si perde (come il sangue che sgocciola), delle cose che non riusciamo a trattenere in nessun modo e scivolano come sabbia dalle mani.

  Lucio Fontana, Attese, Rosso

 

3. Mi viene in mente anche Samuel Beckett che fa (in senso figurato) i buchi nelle parole per vedere cosa c’è dietro. Per lui le parole sono obbligate al supplizio paradossale «di volere comunicare che non c'è niente da comunicare». I suoi personaggi, si suole dire, usano le parole come un rifugio, nel disperato tentativo di dare consistenza a se stessi e al mondo. E certamente è vero, ma mi pare altrettanto vero che questi suoi personaggi sono feriti, come se fossero attraversati da un taglio (la bocca?) da cui le parole fluiscono e si perdono. Le parole e il fiato. Le parole e il nulla. L’attesa (le Attese) del nulla. Esattamente come in Aspettando Godot, una tragicommedia costruita interamente intorno al tema dell’attesa, anzi: dell’Attesa. O come in Finale di partita, dove il tempo è sparito o è già passato, e l’attesa è diventata fisica, terminale: l’ora in cui finalmente potrà essere dato il calmante ad Hamm, il protagonista, uno scarto d’uomo cieco e con le gambe anchilosate, che (nell’attesa) si fa trasportare dal suo servitore Clov in giro su una carrozzina, fra le macerie del suo mondo.

 

4. E poi c’è Robert Rauschenberg che nel 1953 chiede al già noto William de Koning un suo disegno comunicandogli di volerlo cancellare. Nasce Erased de Kooning Drawing, un foglio che dopo il gesto di Rauscenberg conserva solo tracce appena percettibili della scrittura originaria. È un gesto iconoclasta? In parte sì, anche se non segnala il rifiuto di ciò che cancella, non così totale almeno, per nulla violento. Rauschenberg vuole piuttosto marcare una distanza e compiere un’operazione mentale (concettuale). Cancellando il disegno di de Kooning vuole fare tabula rasa delle cose che ama, vuole dimenticarle (obliarle), vuole cambiare pagina e trovare un proprio personale modo di esprimersi. Ma vuole anche scoprire cosa c’è sotto e dietro: cancellare per trovare il segreto. Quasi avesse bisogno, attraverso il gesto della cancellazione, di risalire all’origine di quel disegno (e dell’arte), nel punto di contatto fra supporto e materia pittorica, nell’interstizio che li separa e che li unisce. Cancellare l’arte, allora, per abbassare il volume fino al silenzio – per non essere prigioniero, per tornare all’inizio (al bianco), al punto di congiunzione fra l’arte e la vita. D’altra parte è lo stesso Rauschenberg a sostenere che: «La pittura è in rapporto sia con l’arte che con la vita. Io tento di operare nello spazio che c’è fra le due».

      Robert Rauschenberg Erased de Kooning Drawing

 

 

5. Torniamo a res amissa e al senso delle cose che si perdono. Per Freud noi siamo in qualche modo quello che perdiamo (il primo oggetto che perdiamo è il seno materno e, per estensione, la madre) e non possiamo far altro che cercare di elaborare la perdita (il lutto). Se non ci si riesce, l'oggetto perduto viene incluso nella fantasia, «dove mantiene una presenza silenziosa all'interno del soggetto». È da qui che nasce la malinconia, la depressione, dal rifiuto di accettare la perdita e dalla trasformazione di ciò che si è perso in una presenza silenziosa, insidiosa. In Freud il senso della perdita è acuto. Ciò che abbiamo perduto è stato sottratto a noi. Con un taglierino, generando una ferita (una sofferenza).

 

6. A proposito di ferita, c’è quella vera che ha lacerato la carne e strappato l’anima di Joë Bousquet, il viaggiatore immobile nel suo letto-vascello, l’uomo rimasto paralizzato a ventun’anni, nel 1918, in battaglia, e che per i trenta anni successivi ha vissuto esiliato in una stanza da letto con le imposte chiuse, in una perenne penombra rischiarata da una sola luce artificiale. Bousquet che, nella sua perenne convalescenza, considera il poeta un passeur endormi, che offre alle parole la possibilità di essere trasportate (clandestinamente) da una sponda a un'altra.

 

7. C’è ancora da soffermarsi sul significato di “perdere”. E qui ci può aiutare il latino, perché il verbo amitto–ere (da cui amissum e amissa) significa: mandare via, licenziare, far andare. E allude tanto a un’azione volontaria, quella del lasciar sfuggire o cadere qualcosa, del trascurare qualcosa (o qualcuno), quanto a un’azione involontaria, di cui subiamo le conseguenze: lasciarsi sfuggire, perdere qualcosa (o qualcuno) che possedevamo già, senza speranza di recupero. E fra l’una e l’altra, fra l’azione volontaria e quella involontaria, c’è una gamma di grigi, di consapevolezze a metà, di situazioni che si muovono in bilico. (Non sono queste le sensazioni/situazioni di cui ci parla Caproni nella sua poesia Res amissa?)

 

8. E su questo stesso confine incerto (fra perdere, trascurare, lasciare sfuggire, lasciare cadere) possiamo collocare quello che nella biografia di Freud è un punto dolente, una ferita. Nel 1939, lasciando Vienna per Londra su pressione della sua cerchia di devoti, Freud ebbe la possibilità di portare con sé i propri cari. Per l’occasione stilò un elenco in cui inserì la moglie, i figli, la cognata, le due assistenti, il medico personale con famiglia al seguito e persino il cane. Trascurò totalmente le sorelle Rosa, Marie, Adolfine e Pauline, che morirono nei campi di concentramento fra il 1942 e il 43.

 

9. Infine c’è Edward Munch e la malattia (in compagnia del suo sbirro: l’angoscia). «Senza malattia né angoscia», affermava, «sarei stato una barca senza timone». Perfino l’amore è vissuto da lui sotto l’influsso di un angelo nero: lotta, sofferenza, passione, gelosia, violenza. Considera la donna un vampiro seducente che mira ad annullare l’uomo, ad imprigionarlo nella sua rete. È in questo il perimetro che si sviluppa il suo rapporto più controverso, quello con Tulla Larsen, una donna pericolosa, una donna libera-bella-intelligente. La loro storia si conclude con una lite furibonda che sfiora la tragedia: un colpo di pistola, sparato non si sa se da lui o lei, ferisce Munch alla mano sinistra.

Poco dopo, nel 1908, all’età di 45 anni, il «tuffo negli abissi». Sempre più dedito all’alcol e alla disperazione, Munch è costretto a ricoverarsi nella clinica psichiatrica del dottor Jacobson, a Copenaghen. Ne uscirà se non pacificato, quanto meno rasserenato. Da quel momento vivrà sempre più appartato, fino a un isolamento quasi completo. Continua però a dipingere, soprattutto autoritratti. Sono opere inquietanti, che ci mostrano un uomo desolato, vinto – un superstite.

   

   Edward Munch, Autoritratto tra il letto e l'orologio

 10. Quando ero bambino ho ascoltato una storiella raccontata da un amico di mio padre. Non l’ho più dimenticata anche se non saprei dire adesso quale significato vi attribuissi allora e pure dopo, per molto tempo. C’è un pazzo che ogni giorno si arrampica su un palo, arriva con fatica fino alla cima, legge il cartello che vi è stato messo e poi discende. Dopo aver osservato questa scena per diversi giorni, un medico decide di arrampicarsi a sua volta lungo il palo per leggere il cartello. E lo fa, riesce a raggiungere la cima e legge la scritta sul cartello: FINE DEL PALO.

La veridicità della scritta è indiscutibile, il messaggio contenuto in essa chiaro e inequivocabile. Quel cartello dice il vero e tuttavia qualcosa non torna e mostra una deviazione, uno scarto logico. Oppure no: la scritta è assurda e paradossale e lo è perché nella sua ovvietà non rivela nulla. E tuttavia, a rileggerla adesso, questa storiella mi sembra acquistare improvvisamente un senso diverso. Come se fosse stata scritta (concepita) da Beckett. Come se raccontasse dello sforzo di chi (più il pazzo che il medico) sta sospeso fra due stati di coscienza: lo sforzo di vivere e la vanità (l’inconsistenza, le tracce) della vita. 

Res amissa.



EDUARDO REBULLA




BIONOTA

Nato a Palermo nel 1950, Eduardo Rebulla ha sempre vissuto nella sua città. Di professione medico, ha coltivato la scrittura nel tempo rubato. Ha pubblicato sette romanzi, sei con l’editore Sellerio (Carte Celesti, Linea di terra, Segni di fuoco, Sogni d’acqua, Stati di sospensione, La misura delle cose) e uno con Baldini&Castoldi (Le conseguenze estreme).

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