GERMANICO & FAMIGLIA: LA COMETA ROMANA di Romain Iovinelli (storia)

STORIA

nella ricorrenza del genetliaco del comandante romano GERMANICO: 

24 maggio 15 a.C.


 GERMANICO & FAMIGLIA: LA COMETA ROMANA 

DI ROMAIN IOVINELLI 

photo by Romain Iovinelli (AMELIA)

Il 10 ottobre del 19 d.C., ad Antiochia di Siria, muore un giovane romano di trentaquattro anni, nobile di censo e di animo: Germanico Giulio Cesare. Giunto all’apice della fama, la sua immagine inizia a essere associata a quella di Alessandro Magno, il re macedone che grazie al suo carisma e alle sue insuperabili doti di condottiero, nell’arco di un decennio aveva espanso il suo regno dalla Macedonia fino ai confini dell’India. Padrone incontrastato, a soli 25 anni, di quello che lì era, allora, il mondo conosciuto. Un’impresa del genere è unica e niente di simile è successo né prima né dopo di lui. Alessandro era una leggenda al punto da assurgere, post mortem, a uno stato quasi divino. Si potrebbe definire come nume tutelare per aspiranti eroi o conquistatori. Le sue gesta vennero tramandate nei secoli grazie al circolo degli Scipioni (II – I sec. a.C.) e alla costante espansione ellenistica, e tutti gli uomini d’azione di Roma lo reputarono un modello da seguire: da Pompeo a Giulio Cesare, da Augusto fino a Traiano, passando infine da Caracalla e Alessandro Severo.

Benché Germanico non appartenga alla schiera degli emulatori di Alessandro, paradossalmente, è colui che gli si avvicina di più. Il giovane condottiero romano era figlio di un grandissimo generale, Druso Maggiore, colui che era riuscito a conquistare, a soli 26 anni, gran parte dei territori germanici e a portare il limes romano fino alle rive del fiume Elba.

Se è vero che suo figlio Druso Claudio Nerone eredita il soprannome di «Germanico» grazie ai successi del padre è altrettanto vero che tale soprannome diverrà suo a tutti gli effetti, in ragione delle sue vittorie successive. Germanico è amato dai romani. Il suo legame con l’esercito è indissolubile. La sua figura e il suo modus operandi confermano quanto possa essere assimilato ad Alessandro (in versione romana, ovviamente). Disgraziatamente, lo stesso triste destino lega i due condottieri: entrambi periscono nel fulgore della loro età, 33 anni Alessandro, 34 Germanico. E in entrambi i casi si sospetta che furono avvelenati dai propri alleati.

Normalmente, in questi casi, si dovrebbe iniziare partendo dall’infanzia del protagonista in questione. In questo caso, tuttavia, per analizzare bene le cause che condussero alla sua inaspettata morte, bisognerà tornare indietro fino a qualche anno prima della sua nascita.

Dopo aver sconfitto l’ex triumviro e acerrimo rivale, Marco Antonio, decretando così la fine dell’ennesima guerra civile romana (la quarta nell’arco di cinquant’anni), Gaio Giulio Cesare Ottaviano diventa il solo e unico padrone di Roma. La sua  ascesa metterà finalmente la parola fine alle guerre intestine e riuscirà a portare l’Urbe e il suo impero verso una nuova era conosciuta con il nome di Pax Romana (o Pax Augustea).

Il regno di Ottaviano (poi conosciuto con il nome di Augusto) ha una lunghissima durata. In quarant’anni, l’imperatore riesce a plasmare Roma con nuove riforme, di fatto riportando prosperità e stabilità ai suoi domini. Nella capitale, poi, si supera: la ricostruisce rendendola più splendente che mai. Nelle sue Vite dei dodici Cesari, Svetonio ci svela quali furono le ultime parole di Augusto sul letto di morte: «Ho trovato una città di mattoni, ve la restituisco di marmo». Nulla di più vero.

Sotto di lui, oltre alle riforme interne, Roma conosce un’enorme fase d’espansione territoriale. Vengono annesse: Egitto, Pannonia, Illyricum, Rezia, Norico, Germania (poi suddivisa in superiore e inferiore) e i mancanti territori settentrionali della penisola iberica. Inoltre, a Oriente, Roma possiede una serie di stati-clienti: la Giudea e l’Armenia (poi future province dell’impero). La macchina bellica romana sembra inarrestabile e tale resta per molto tempo. Con la cifra imponente di ventinove legioni stanziate su tutto l’Impero, la Roma di Ottaviano Augusto è riuscita a conquistare e a mantenere i territori conquistati (quest’ultimo è particolare ancora più difficile e sbalorditivo). Tuttavia, nella storia, esistono sempre delle componenti caotiche, o per meglio dire imprevedibili, che sono pronte a stravolgere disegni apparentemente perfetti.

Infatti anche Ottaviano, per quanto leggendario in vita, ha dovuto fare i conti con crisi inaspettate che hanno alterato per sempre i suoi progetti di conquista, e con situazioni che non è riuscito a controllare. Il suo più grande rammarico (oltre che fallimento), è quello di non aver avuto un erede degno del suo nome. I suoi nipoti carnali, figli della sua unica figlia, Giulia, muoiono tutti in tenera età. La stessa Giulia lo tradirà, partecipando a un complotto mirante a rimuoverlo: il tutto viene orchestrato da Iullo Antonio, figlio del suo ex rivale, Marco Antonio. Infine sua moglie Livia non fu mai in grado di dargli un figlio, e in molti sostengono che, bramosa di potere, fosse coinvolta nella prematura morte dei suoi eredi.  

Mentre Augusto attende che i suoi nipoti crescano, la scelta dinastica ricade sui figli avuti da Livia, prima del loro matrimonio: Tiberio e Druso Maggiore. Il primo, colui che succederà al trono d’Augusto, non era la prima scelta designata dal princeps. Nonostante le sue doti di soldato e di gran condottiero (è suo il merito della conquista di molti territori), è il fratello più giovane. La storia, e in particolar modo lo storico Publio Cornelio Tacito (55 – 120 d.C.), sono fin troppo severi nel giudicare la figura di Tiberio, spesso ritratto come un tiranno crudele.

Insomma, scartato Tiberio, è suo fratello Druso il prescelto da Augusto. Questo in ragione del fatto che, a differenza degli altri eredi, i suoi nipoti, il figlio adottivo promette bene: in poco tempo sconfigge le popolazioni barbariche stanziate al di là dei fiumi Elba e Reno. Non era impresa facile. Infatti, fin dai tempi di Giulio Cesare, in particolar modo durante l’assedio di Alésia (52 a.C.), i romani avevano avuto modo di osservare la forza e il valore dei soldati germanici: il loro apporto si era rivelato decisivo per sconfiggere i Galli di Vercingetorige. Tuttavia, risalendo al tempo del console Gaio Mario, zio di Giulio Cesare, si era evidenziato – già allora – quanto quelle popolazioni costituissero in fieri una forte minaccia a settentrione per Roma.

Il compito di Druso Maggiore era sconfiggere i Germani sui loro campi di battaglia e rendere la Germania una provincia romana. Druso sembra invincibile: con abili manovre tattiche sbaraglia popolazioni come i Cherusci, i Suebi e i Catti (che si riveleranno future spine nel fianco dell’esercito romano). Tutto sembra dunque procedere per il verso giusto, quando accade l’impensabile: durante l’avanzata romana in Germania Magna, Druso incontra una donna che gli profetizza il suo nefasto futuro:

Fin dove vuoi arrivare, insaziabile Druso? Non è nel tuo destino che tu veda tutti questi territori; torna indietro piuttosto, poiché la fine delle tue imprese è ormai prossima!.

Druso, secondo le fonti un uomo molto superstizioso, spaventato, abbandona l’avanzata e torna indietro.

Nonostante questo passo, durante la sua “ritirata” Druso cade da cavallo spezzandosi la gamba, che va in cancrena causandogli la morte. Post mortem riceverà tutti gli onori possibili: un arco di trionfo a Mogontiacum (odierna Magonza), dedicato alle sue vittorie contro i Germani, oltre che cremazione e sepoltura delle ceneri all’interno del mausoleo d’Augusto. La sua morte ha un forte impatto emotivo non solo su Augusto, ma anche sull’animo del fratello Tiberio. Quest’ultimo, apprese le gravi condizioni del fratello, cavalcherà giorno e notte per poterlo salutare un’ultima volta, poco prima che spiri. Ci riuscirà.

Per circa un decennio, i territori annessi da Druso saranno saldamente stabili: la Germania inizia un lungo e lento processo di romanizzazione. Sempre di più i Germani entrano nelle fila dell’esercito romano, come di ausiliari. Anche le tribù non ancora piegate al volere di Roma, lentamente, cominciano a entrare in contatto e a essere sedotte dalla magnificenza e dall’efficienza del “sistema romano”. Oltre che sul Reno, si stabilisce una sorta di tregua nelle fredde foreste germaniche. Ma è solo la calma che precede la tempesta.

Nel 6 d.C. un capotribù marcomanno, Maroboduo, decide di autoproclamarsi re di tutta la Germania. Stando alle fonti dell’epoca, dispone di 70.000 soldati, un numero che non si vedeva da più di un secolo, da quando cioè Cimbri e Teutoni avevano deciso di marciare su Roma.

La situazione è gravissima: Roma ha recentemente perso i giovani cesari (i figli di Giulia), e la minaccia di Maroboduo è concreta anche da un punto di vista strategico: a differenza delle altre regioni germaniche, infatti, la Marcomannia è la più vicina al confine italico. Un esercito di quelle dimensioni avrebbe potuto facilmente aprirsi la strada fino ad arrivare nel cuore pulsante dell’Italia. In verità un secolo e mezzo più tardi, il popolo marcomanno riuscirà a sferrare un’importante offensiva nel 170 d.C., arrivando a saccheggiare la città di Aquileia.

E allora come è stato possibile tanti uomini non siano riusciti nella loro impresa?  Il merito va a Tiberio che, richiamato da Augusto dall’esilio che si era autoimposto a Rodi, raduna ben dieci legioni provenienti da occidente e da oriente, per impartire una lezione memorabile a Maroboduo. Le iniziative belliche di quest’ultimo, di fronte a tale dispiego di forze, vengono stroncate sul nascere. Una vittoria schiacciante delle legioni romane sembra ormai scontata per superiorità dei mezzi a disposizione e per costituzione di un’armata ben organizzata. Si preannuncia l’ennesimo trionfo di Tiberio con annessione della provincia della Marcomannia. Ma ancora una volta la «componente caotica della storia» – espressione cara a Valerio Massimo Manfredi –  agisce in modo da sparigliare tutte le carte in tavola: mentre Tiberio è in marcia, l’Illyricum si ribella! 

Una catastrofe inaspettata. Occorreranno a Roma ben tre anni per sedare la rivolta. Inoltre, le spese militari aumenteranno mettendo in serie crisi l’economia. Augusto è obbligato ad arruolare nelle fila dell’esercito romano schiavi, contadini e liberti, chiunque sia abile al servizio militare. Compresi molti veterani in pensione, richiamati di corsa al fronte.

È questa l’occasione in cui nasce la stella di Germanico. Poco più che ventenne ha passato tre anni a “farsi le ossa” in Pannonia e nell’Illyricum, affiancando suo zio Tiberio, per placare le incessanti rivolte. Il ragazzo promette bene; ha acquisito l’esperienza bellica necessaria per la sua futura impresa: vendicare la disfatta della selva di Teutoburgo.

 Germanico, come ogni eroe che si rispetti, ha bisogno della sua degna nemesi. Nel suo caso, prende la forma di Arminio, principe dei Cherusci. Sì, Arminio, un germanico. Era in uso presso i romani prendere come “ostaggi” di lusso i figli nobili dei barbari vinti. Il motivo? Velocizzare il processo di romanizzazione delle province appena conquistate, ancora a digiuno dei modi e costumi romani. Grazie a tale pratica, i romani contano di formare dei veri e propri ambasciatori, romani a tutti gli effetti. Questi avrebbero diffuso il mito di Roma presso i loro conterranei, in modo da convincerli, attraverso la diplomazia anziché la violenza, a passare dalla loro parte.

Oltre ad appartenere alla classe equestre romana (titolo ambito e pregiato), Arminio diventa cittadino romano a tutti gli effetti: Augusto in persona gli conferisce la cittadinanza romana, il più alto degli onori. A differenza di Flavus, il fratello minore, che accetta da subito i costumi romani diventando romano in tutto e per tutto, Arminio non sarà fedele a Roma. Fingendosi amico di Roma e suo portavoce, riuscirà a mettere insieme una coalizione di barbari in grado di infliggere una delle più gravi sconfitte mai subite dall’Impero.

Il 9 settembre del 9 d.C., tramite l’inganno, Arminio fa cadere in trappola l’ingenuo Publio Quintilio Varo (nuovo governatore della Germania):  nella foresta di Teutoburgo, insieme con le sue tre legioni (15.000 soldati), Varo marcia dritto nelle fauci del lupo. Tra le paludi, la nebbia e il fango, i suoi legionari vengono travolti dal furore teutonico. I sopravvissuti andranno incontro a una sorte ben peggiore di quella dei defunti sul campo di battaglia. Ancor oggi è uso dire che, sul colle Palatino, si sentano riecheggiare le parole urlate a squarciagola da Augusto:

Publio Quintilio Varo! Rendimi le mie legioni!.

La reazione di Roma non tarda ad arrivare. In un primo tempo, si teme il peggio: un’alleanza tra Arminio e Maroboduo. Fortunatamente, i due non trovano un’intesa, anzi, entrano in conflitto. È un momento di difficoltà dei barbari che consente a Roma il tempo di raccogliere le forze. In capo a sette anni (9-16 d.C.) sono molteplici le operazioni militari condotte da Roma che riporteranno ordine (e, in un primo momento, distruzione) a nord del Reno.

Dopo la morte di Augusto nel 14 d.C., Tiberio diventa imperatore. Una delle condizioni poste da Augusto sul letto di morte è che Tiberio adotti il nipote Germanico, nominandolo suo erede alla fine del suo principato. Relegato a un ruolo esclusivamente governativo, Tiberio affida a Germanico il comando delle truppe sul Reno. Il giovane comandante è subito messo alla prova: le legioni stanziate a Nord hanno intenzione di rivoltarsi, visti gli scarsi approvvigionamenti ricevuti e le pessime condizioni nelle quali da tempo si trovano. Subentrando nel comando, il carismatico Germanico placa gli animi in collera, ristabilendo l’ordine.


Una volta sicuro del supporto delle sue truppe, e dopo aver ottenuto carta bianca da Tiberio, Germanico si prepara all’offensiva.

Neanche oggi, in realtà, si è ancora ben capito cosa volesse fare: se ciò pensasse a una campagna di conquista oppure a una vera e propria spedizione.

Fatto sta che il suo esercito è di proporzione simile a quello di dieci anni prima. Ha inoltre  a sua disposizione mille navi per risalire fino alla foce del fiume Amisia (attuale Ems). Memori dell’esperienza precedente, ora i Romani si addentrano nella Germania Magna con scaltrezza. Stando a Tacito, dopo quasi sette anni dalla clades variana, Germanico ritrova i cadaveri mutilati, più spesso le ossa, dei legionari di Varo, cui dà finalmente degna sepoltura.


Germanico affronta Arminio in due battaglie: la prima a Idistaviso (nei pressi del fiume Weser), la seconda nel vallo angivariano. Due grandi successi per i romani: le forze di Arminio si ritrovano incapaci davanti alla furia romana. Uno dei meriti di Germanico è che, a differenza di Arminio, combatte sempre in prima linea insieme ai suoi legionari. Come le cose volgono al peggio, Arminio fugge.

Vendicata la disfatta del 9 d.C., l’orgoglio romano torna a brillare e perfino due delle tre aquile perdute dai Romani a Teutoburgo vengono recuperate. Con Arminio sconfitto, a Germanico basta poco per dare il colpo di grazia alla coalizione dei Cherusci.

Ma ancora una volta le cose non vanno come da programma: proprio sul più bello, Germanico è richiamato in patria da Tiberio.

Rientrato a Roma, Germanico riceve tutti gli onori da parte di Tiberio, lo zio paterno divenuto ora ufficialmente padre adottivo.

La sua popolarità è all’apice. Ed è forse proprio a causa di questa sua eccessiva fama che nel 18 d.C. Tiberio lo invia a Oriente a svolgere mansioni diplomatiche in Siria. Non è più un condottiero, è diventato un ambasciatore, un consigliere dell’imperatore.

Germanico lo mette in ombra: Tiberio teme un possibile colpo di stato. Nel suo viaggio e durante tutto il suo soggiorno in Siria, Germanico è accompagnato dal governatore Gneo Calpurnio Pisone che è da sempre un fedelissimo di Tiberio e probabilmente tiene spia Germanico per conto dell’imperatore. I due non vanno d’accordo: Pisone annullerà molte delle scelte diplomatiche di Germanico, rendendo così il suo lavoro vano.

Finché un giorno, improvvisamente, Pisone decide  di rientrare a Roma. Poco dopo la sua partenza, Germanico cade misteriosamente malato. Dopo giorni di atroce sofferenza, Germanico muore. Poco prima di morire, rivela a sua moglie Agrippina Maggiore il sospetto di essere stato avvelenato.    

Le cause del suo decesso sono tuttora incerte: secondo Tacito, Germanico morì per avvelenamento. Il principale indiziato resta Gneo Calpurnio Pisone, il quale avrebbe agito sotto ordine di Tiberio, che sempre stando a Tacito era geloso della popolarità del figlio adottivo.

Assassinio o no, fu un vero e proprio dramma per la dinastia giulio-claudia. Alla notizia della sua morte, un gran numero di cittadini dell’Impero furiosi distruggeranno e saccheggeranno molti templi. La reputazione di Tiberio fu per sempre compromessa.


Con la morte del futuro princeps scompare una delle figure migliori di quella dinastia che molto diede a Roma, ma che dopo Germanico non riuscì mai a trovare una figura che ne potesse eguagliare il carisma e la bontà d’animo.

Che ne è dei nemici di Germanico? Arminio morirà qualche anno dopo, anche lui vittima di una congiura orchestrata da altri capitribù; Maroboduo si auto esilierà in Italia; Tiberio abdicherà a più riprese passando l’ultima parte del suo principato nella sua villa di Capri.

Dei figli di Germanico, molti muoiono in tenera età; tra i sopravvissuti ci sono Gaio Cesare (poi conosciuto con il nome di Caligola) e Agrippina Minore (futura madre di Nerone). Non proprio il massimo dell’eredità per una figura fulgida come quella di Germanico.

Una curiosità: se qualcuno volesse vederla, ad Amelia, in Umbria, è custodita l’unica statua bronzea di Germanico (all’inizio scambiato per Caligola), trovata in seguito agli scavi sulla via Amerina del 1963. Presso il museo archeologico di Amelia è possibile ammirare una mostra che ne ricorda le gesta.

Chiudiamo questo excursus sulla questione germanica citando il romanziere Valerio Massimo Manfredi, grande appassionato di storia romana:

È stato detto che con la rotta di Teutoburgo Roma perse la Germania e la Germania perse Roma.

di Romain Iovinelli


Fonti:

AA.VV., Le tecniche e le strategia con cui l’esercito romano conquistò il mondo in «Roma potenza militare», rivista bimestrale, ed. Sprea S.p.A., 16 marzo 2018.

LUTTWAK, Edward, La grande strategia dell’impero romano, Milano, BUR-Rizzoli , 1981.

MANFREDI, Valerio Massimo, Teutoburgo, Milano, Mondadori (coll. Oscar Absolute), 2016.

MUSEO ARCHEOLOGICO DI AMELIA (TR), Bimillenario della morte di Germanico (mostra)  https://www.bimillenariogermanico.it/.

SVETONIO, Gaio Tranquillo, Vita dei Cesari. Ed. consultata: Suétone, Vie des douze Césars, Paris Gallimard (coll. Folio Classique, 1931), 2018.

TACITO, Publio Cornelio, Annali (117-120 d.C.), ed. gratuita online http://www.progettovidio.it/tacitoopere.asp.


ROMAIN IOVINELLI



BIONOTA

Nato a Roma, ha vissuto in Croazia, Francia,  Inghilterra e Marocco. Si è diplomato al liceo americano di St.-Cloud e si è laureato come assistente alla regia presso il CLCF a Parigi. 

È laureato altresì  in lingue e letterature moderne in Italia, con una tesi in angloamericana su Ulysses S. Grant.  

A parte i suoi interessi storici, è trilingue e maratoneta. Ha creato il Marco Aurelio Project. 

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