FUOCHI D'ARTIFICIO di Jacqueline Spaccini (narrativa)

 

Frédéric Bazille, Réunion de famille (1867, Paris, Musée d'Orsay)


FUOCHI D’ARTIFICIO

 di Jacqueline Spaccini

 

 

Frédéric non riusciva a concentrarsi. Il suo sguardo era ostinatamente incollato ai polsini di un giovane, la cui nuca riccioluta si reggeva su di una silhouette campagnola, un po’ più avanti sullo scranno alla sua sinistra. Non erano stati i bordi orlati di sudicio, segno di povertà o forse solo di trascuratezza, ad attirare la sua attenzione, quanto piuttosto la presenza di pizzi svolazzanti, ricercati e fuori moda, apparentemente così in contrasto con il bianco lurido della camicia.

           

Un bianco del tutto simile alla foschia di quella mattina stava a precedere un’aurora anomala, che di magico possedeva solo il nome, distinguendosi appena dall’alba distratta che l’aveva preceduta. Chissà come l’avrebbe riprodotta, sulla tela, il suo amico Oscar. Ma in quel momento i ricordi vennero riposti nei cassetti della memoria: un dispaccio del Comando sulla prossima manovra ordinava di mantenere la postazione fino alla fine. Il sergente di fureria Frédéric Bazille, che l’indomani sarebbe stato nominato sottotenente, pestò a terra il mezzo sigaro, acceso pochi istanti prima. Prima fumava la pipa, ma al fronte è un lusso che può costare la vita.

           

Rozzo era rozzo, il giovane coi suoi ridicoli pizzi. Pur essendo nato a Parigi, si era trapiantato al nord, in una città incredibilmente chiusa all’entroterra continentale come Le Havre. Orfano di madre a sedici anni, volendo sottrarsi alle cure di una zia, a un tratto aveva deciso di lasciare tutto e tutti. Non era un uomo interessante, quell’Oscar, anzi. Un ragazzo in fin dei conti mediocre e arrogante; non avesse gettato un’occhiata alle sue tele, Frédéric si sarebbe limitato a un cenno di saluto. Ma su di esse lo sguardo aveva posato ed era a partire da quello sguardo che il ventunenne Bazille aveva deciso di stringere amicizia col quasi coetaneo Oscar. L’apprendistato nell’atelier del timido e scrupoloso Gleyre era iniziato come iniziano queste cose: lazzi degli anziani nei confronti delle “matricole”. Scherzi idioti, cui Frédéric non s’era potuto sottrarre, ma poi, dopo qualche oscenità da canticchiare e la prova di resistenza nel gioco della gru, lo avevano infine lasciato in pace. D’altronde, era la legge dell’atelier. Oscar s’era messo subito dalla parte degli schernitori: era figlio del popolo, sapeva bene lui come si reagisce, come si fa. Frédéric veniva da una famiglia perbene, suo padre era un facoltoso viticoltore della provincia di Montpellier. Sua madre lo amava di un affetto tenero e rispettoso. Esempi da imitare i suoi genitori, prodighi di consigli e premurosamente attenti ai desideri e ai dubbi del loro figlio maggiore. L’infanzia e l’adolescenza erano trascorse tranquille nel sud della Francia. Frédéric ricordava ancora quando, partito per Parigi, nel vagone del treno che lo conduceva via dal suo già recente passato, sfilandogli sotto agli occhi la sua Méric, s’era tenuto in piedi, come sua madre s’era raccomandata. In lontananza, aveva visto i fuochi di artificio a salutarlo, il rosso il giallo e il bianco a rischiarare la notte. Gli altri passeggeri erano rimasti piacevolmente stupiti dinanzi a tanta bellezza, mentre il suo cuore si stringeva un poco. Lontano, ora ad affrontare, da solo, la sua vita… Come sarebbe stato più comodo e facile restare, circondato dalla stima e dall’affetto di tutti… Ma un insolito fremito, un ardore di avventure impensate, un futuro non pianificato era ad attenderlo a Parigi. Certo, aveva promesso al padre di conseguire la laurea in medicina, pur di dedicarsi alla sua pacata passione di pittore, e di tanto in tanto sarebbe tornato a casa, nella sua Méric, per rifornire i polmoni di quell’ossigeno fatto di aria, e anche di musica, di pomeriggi dolci e indolenti all’ombra del pergolato familiare. Ma né amori né timori erano riusciti a trattenerlo a Montpellier. A Parigi! A Parigi!

 

            Nel Gâtinais, i Prussiani avevano forze più nuove e vigorose del suo sparuto drappello di soldati. Bazille era fra i pochi, del  gruppo di amici pittori, ad essersi arruolato. Oscar aveva preferito imbarcarsi per Londra. Lui, invece, aveva appreso dal padre un senso del dovere (Quando la paura ti prende, figlio mio, ascolta la voce che grida soffocata dentro di te e seguila. Saprai che quella è la strada giusta), che lo perseguitava. A Frédéric non era rimasto altro che prendere la strada dell’esercito, anche se il padre Gaston gli avrebbe pagato un sostituto. Parigi distava solo un centinaio di chilometri, eppure la città era irraggiungibile e al sergente di fureria Bazille pareva di essere precipitato all’inferno. I viveri scarseggiavano e soprattutto le munizioni. Chissà se alla fine della guerra le sue mani avrebbero saputo stringere qualcos’altro che non fosse un fucile. I suoi soldati, degli arabi mercenari, lo sorprendevano spesso così, assorto in pensieri lontani, in disparte, nell’atto di rimirare la brace del suo sigaro. Si sarebbe detto che esitassero a disturbarlo, aspettando che fosse per qualcosa di importante: quell’uomo, incredibilmente alto, un gigante quasi, incuteva un rispetto reverenziale; un’aura di nobile generosità emanava dalla sua persona. A ventinove anni, il futuro tenente Bazille era un uomo fatto, con una timida inclinazione per le donne, ma di lui non si conoscevano mogli o fidanzate ad attenderlo in qualche casa. Per ben tre volte, i genitori gli avevano proposto delle giovani dabbene e dello stesso ambiente; una moglie, di Montpellier, con la quale in futuro gestire la proprietà di Méric. Ogni volta, Frédéric s’era defilato, adducendo scuse varie. E neanche tanto eleganti.

 

             Frequentare Oscar non era, a propriamente parlare, uno spasso. Sempre a corto di soldi, il giovane normanno non si faceva cruccio di chiedere insistentemente denaro – via lettera, una lettera solitamente non affrancata – all’amico benestante.

 

                                                                                   Marzo 1864

            Mio buon Bazile,

perdono. Vuole essere ancora una volta il mio salvatore. Ho usato il denaro ricevuto 4 giorni fa per pagare a destra e a manca, stamattina ho appena avuto una sgradevole sorpresa. Debbo assolutamente pagare un debito ad un amico, e mi mancano ancora 10 franchi. Perdonatemi se così spesso mi rivolgo a voi. Se sapeste come vi sono riconoscente, vedrete, nella settimana che viene, vi consegnerò certamente 20 franchi. Venitemi a trovare ora, io non esco mai… Sempre vostro, Claude Monet.

Attendo risposta.

 

E Bazille perdonava, passando sopra agli strafalcioni d’ortografia (almeno il cognome, avrebbe potuto scriverlo bene!) e di punteggiatura, fingendo finanche di credere alle menzogne dell’amico. Un debito, l’ennesimo? Frédéric non si faceva più illusioni del solito. Oscar, che nel frattempo era diventato Claude, scegliendo per sé il secondo nome (a suo dire più moderno del primo), avrebbe sicuramente dissipato quel denaro in gozzoviglie e donne, magari in una sola serata. Mentre Camille l’attendeva a casa…

Era dunque questo il genio? Il talento doveva accompagnarsi alla sregolatezza, o peggio, alla volgarità…? Non poteva essere.

Eppure, le tele che aveva visto sembravano predire un successo fulgente all’omino moroso mentre i suoi, di quadri, erano troppo ben fatti, per nulla innovativi, troppo perbene. Monet era cosciente del proprio estro e si permetteva non di rado di dare suggerimenti a Bazille. Come quando avevano soggiornato qualche anno prima a Chailly. Ricordava bene l’entusiasmo dell’amico, che vi si trattenne a lungo, mentre lui dopo soli otto giorni era voluto rientrare a Parigi. Bazille faticava a capire come, in quel caos smodato, fatto di pasti non pagati, donne e sporcizia, Oscar potesse  trovare la giusta concentrazione per dipingere. Non aveva metodo, passava giorni e giorni a perder tempo, taciturno o di malumore. Un provinciale ruvido. Poi d’improvviso iniziava a dipingere. E il risultato era stupefacente, al di là d’ogni attesa, senza alcuna prevedibilità. Bazille non poteva fare a meno di ammirare il tocco leggero di Monet, che pur conoscendo tutte le tecniche pittoriche, davanti al cavalletto, pareva averle dimenticate tutte. Pareva ripartire da zero. Mentre Frédéric si accaniva ancora sulle linee, la forma e la struttura, volendo dare un peso e un volume ad ogni soggetto, restituirne la profondità, l’anima... Monet se ne infischiava. Lui dipingeva seguendo sé stesso, facendosi interprete, tramite, via di passaggio, tra la tela e l’oggetto rappresentato. Se Monet era destinato ad essere il Mozart della pittura, Bazille non sarebbe però diventato Salieri. L’ammirazione per il talento di Oscar-Claude era sincera e priva del verme venefico dell’invidia. Si fece amico di Monet, e Monet ne approfittò come poté. Ben altra indole, ben altra amicizia fu quella che lo avrebbe legato a Auguste Renoir.

                                                                      

25 novembre 1870

Mia cara madre,

non vi preoccupate per la mia salute. Fa molto freddo, questo è vero, ma agli ufficiali non mancano mai coperte, una buona dose di grappa e sigari a sufficienza. Non abbiate timore, madre mia: mi porto magnificamente bene, sono giovane, forte e sereno.

Spero di poter festeggiare il mio compleanno a Méric, a Capodanno: ormai mancano poco meno di quaranta giorni. Coraggio!

Abbraccio con tutto il mio cuore, tutti.

Il vostro devoto Frédéric

 

Non era la verità, naturalmente. Colpa forse di quella sua fede protestante, come diceva Auguste, che lo obbligava a non far preoccupare mai gli altri per quel che lui sentiva o pativa. Renoir l’aveva preso in giro, appena tre anni prima, per tutto un pomeriggio. I due amici s’erano decisi a rappresentarsi e al posto di una dagherrotipia, Bazille aveva preso il pennello e ritratto l’amico in una posa buffa, ma consueta per lui: seduto su una sedia, colle ginocchia tirate su e tenute sospese dalle braccia conserte. Auguste con lo sguardo rivolto altrove, come sospeso in un pensiero. Renoir aveva ventisei anni e Frédéric lo aveva inconsapevolmente imbellito.  Guarda che somiglia più a te che a me, questo ritratto!, lo aveva ammonito l’amico. Ma no, tu sei più giovane di me… aveva replicato Bazille. Capirai, di un mese! Per punizione tu sarai più vecchio della tua età nella mia tela! Renoir, una persona facile da amare: delicato, generoso, sensibile; tutto il contrario di Monet. Ma Monet era destinato a diventare il più grande di tutti; anzi, lo era di già. Ed ora: Cézanne disertore e Oscar  rifugiatosi in Inghilterra insieme con Pissarro; Auguste nel 10° reggimento dei Cacciatori delle Alpi, a Tarbes, lui a Beaune-La-Rolande, un’anonima frazione del Loiret. Alla fine della guerra, avrebbero avuto tante cose da raccontarsi… o forse da tacersi. Il guaio è che sei nato vecchio, mio caro amico. E che ti senti sempre obbligato a far qualcosa per gli altri. Non preoccuparti, vivi… oppure il tuo Martin Lutero lo ha proibito?

Chissà, forse Renoir sarebbe divenuto anch’egli un grande pittore… Ma lui, lui, dov’era la sua arte? Esisteva per davvero o non sarebbe scomparsa insieme col suo transito terrestre? Neppure la brace ardente del sigaro riusciva a riscaldargli le viscere.  Ma cos’era in lui questa smania di vivere buttandosi in un’avventura suicida, per la quale Renoir gli aveva dato dell’imbecille?

 

Renoir, Monet, Manet, Zola. Frédéric li aveva ritratti nello studio di rue de la Condamine. Manet gli aveva reso il grande onore di dipingere un Bazille svettante quasi oltre la grande tela posta al centro della stanza. I suoi amici aveva voluto ritrarli forse per un’ultima volta tutti insieme. Fu poco prima di partire per la guerra.  In quella tela, cercò di rappresentare tutto il suo mondo: l’atelier, gli amici, le tele fatte e da farsi, le sue e quelle degli altri. Insomma, un quadro simbolico. Naturalmente, c’erano dipinte anche cose infime, ma indispensabili, come la stufa e il tavolo a consolle, da aprire solo quando si era in tanti, per le partite di domino. Il piano che si era fatto spedire da Montpellier, davanti al quale pennellò l’amico raffinato, Edmond Maître.  Quante volte si erano seduti a strimpellare a quattro mani davanti a quel piano! Quel giorno Manet aveva un buffo chapeau-melon; in piedi e al centro della stanza stava l’illustre pittore. Quanta voluta trascuratezza in quella sua posa da intenditore che appoggia  verticalmente, con nonchalance, la sua canna da passeggio sul torace… Un grande, ma non il maestro, per Frédéric. Delacroix, semmai. 

  Ma Delacroix era morto da quasi sette anni. Nei primi mesi del Sessantatré, Bazille e Monet avevano approfittato dello studio di un amico che abitava di fronte al grande maestro per cercare di carpirne i segreti. Ma il segreto  era apparso ai due giovani sotto forma di scandalo: nella rue Furstenberg, Frédéric e Oscar appresero che Delacroix applicava il colore solo dopo che la modella se ne era andata. Fu poco prima che l’atelier frequentato chiudesse per le troppe difficoltà finanziare sopraggiunte e per l’improvvisa cecità di Gleyre, quel buffo svizzero che riempiva di germanismi sonori la lingua francese. Gleyre, strano e generoso, col suo atelier a basso costo, i pochi consigli e i colori sparpagliati sul selciato della strada che Renoir aveva raccolto, rapido e guardingo.

 

            Il nemico è invisibile, il vero nemico è il tedio. Lo stesso che mi si appiccicava addosso durante i corsi di medicina del prof. Benoît. Degas ha detto che lo scoramento mi contraddistingue, Monet mi giudica un  ricco borghese, Renoir mi trova troppo intriso del mio protestantesimo. La mia crisi è questa noia che è qui, mentre io mi sento infinitamente lontano.

Quando mi hanno destinato a Philippeville, sono partito con la convinzione che avrei ritrovato le atmosfere dipinte da Delacroix, invece la città algerina mi è parsa più francese della stessa Parigi. Qui a Beaune, a parte qualche chiacchiera cogli ufficiali, non c’è niente da fare. Aspettiamo questi Prussiani che pare quasi ci vogliano sfuggire. Giriamo a vuoto per le foreste…

Una pallottola dà calore, ma meno di quanto si creda, e solo all’inizio. Però ti dà il tempo di avere improvvisi ricordi, veloci, tutti confusi e in ordine sparso: il soggiorno a Honfleur, in due stanzette sopra il forno. Il cibo buono, e tanto, alla Ferme Saint-Siméon, che Oscar rappresenterà in una tela, durante un memorabile viaggio lungo la Senna. E la buona Mère Toutain, a Trouville… Io che tento di vendere a Montpellier alcune tele di Monet. Invano. E allora le compro tutte io, a un prezzo incredibile. E lui non è neppure lontanamente contento. Zola, un falso amico... Courbet un grande, lontano e altezzoso. Uno che regala complimenti come si danno le ossa spolpate ai cani, sotto al tavolo. Questo rosso sulla tavolozza non l’ho mai usato… È il rosso di Van Eyck. Ho saputo che in giugno Oscar s’è sposato e che Courbet gli ha fatto da testimone, alle nozze…

È il mio rosso, dunque… non ti rivedrò più Méric. Di te  rimarrà solo un quadro. Mi sono accanito a dipingere e ridipingere le mura di Aigues-Mortes, perché? Per arrivare fin qui? Era questo? Queste sono le mura della morta gora? È forse… la morte? Tutto il viaggio della nostra vita è per arrivare qui… È  questo il segreto…? Dio, aiutami a non morire da vile! Fa che possa morire con dignità… Non così presto, però… Calma. Ora la pallottola, neppure questo sangue che esce a fiotti dalla divisa infangata, dà più calore: me ne sto andando. Velocemente, senza dolore… che ironia: ventinove anni il prossimo 6 dicembre … E non li avrò mai.

*

Quando la gendarmeria mi fece pervenire il messaggio della ferita di Frédéric, non potevo immaginare che mio figlio fosse già morto. Decisi di partire seduta stante con tutto il denaro liquido di cui disponevo in casa, alla volta di Bellegarde. Tutta la zona era in mano ai Bavaresi, ma le raccomandazioni dei gendarmi non ebbero l’effetto di farmi desistere dal mio intento. Baciai sulla fronte mia moglie, promettendole che non sarei tornato senza il nostro benamato figlio.

 Arrivai a Beaune ch’era notte fonda. Una strana notte imbiancata dalla neve che non la smetteva di scendere fittamente. Incontrai il  buon cugino Sabatier, che mi disse sapere Frédéric ferito a morte. Il mio cuore cominciò a sperare a dispetto di tutto e chiesi d’essere condotto sul campo di battaglia. Alla luce di una lanterna, passai in rassegna cadaveri di cavalli, in un disordine di  fucili, caschi, bidoni, marmitte, cartucce, spade e zaini abbandonati. Il prete mi condusse presso la croce di San Rocco, sotto la quale aveva fatto scavare, il giorno prima, una fossa comune in cui gli sembrava ci fosse anche un giovane  sergente di fureria. Offersi 40 franchi a due soldati  perché la riaprissero, sperando che  lì sotto ci fosse un altro giovane  e non mio figlio.

Lo vidi, e aveva gli occhi spalancati. Vidi la sua mano, lunga, giallo-verdastra, che strinsi forte nelle mie e baciai  per l’ultima volta, ma la chevalière era sparita dal suo anulare.

Faceva l’alba quando un falegname finì di  fabbricare  una bara  di fortuna in cui fu riposto  il cadavere di Frédéric.  Andandomene, strappai  con rabbia un pollone dal ginepro che cresceva accanto alla fossa, e  lo  infilai nella  tasca del gilet. Poi, sempre sotto la neve, un carro ci condusse alla stazione più vicina, non prima che fossi sottoposto all’umiliazione di dover riaprire il feretro di legno per mostrare che non trasportavo armi.

Il viaggio di ritorno fu immerso nel silenzio di quella mia solitudine, in compagnia del corpo senza vita del mio ragazzo; guardavo il legno rozzo che lo conteneva e mi dicevo che ora più che mai dovevo farmi forza, dare fiducia alla divina provvidenza. Ora più che mai, Dio doveva esistere.

Quando arrivai davanti casa, mia moglie mi guardò per un attimo e  osservò il triste bottino che recavo dietro. Mi chiese di poter rivedere un’ultima volta suo figlio e non potei negarlo al suo cuore di mamma.

Entrai in casa  passando direttamente  per il giardino. Misi la mano in tasca  e ne estrassi  il pollone di  quel ginepro che cresceva, possente, accanto alla fossa comune.

Lo conficcai con forza nel vaso di  peonie rosse, mi sedetti dinanzi e, stolido, attesi.

 

 

        Roma, 16/07/1999 - Paris, 17/04/2000

 

 

JACQUELINE SPACCINI


 
BIONOTA

Di natura poliedrica, Jacqueline Spaccini è nata in Francia, ma da otto anni è tornata a vivere in Italia. Si occupa di contaminazione tra il linguaggio letterario e artistico; scrive poesia multilingue.
È traduttrice e autrice di saggi e novelle. Scrive pièces, dirige atelier di recitazione; è attrice teatrale.


Commenti

  1. Bellissimo testo incalzante veloce luoghi paure arte inevitabile confronto con i ragazzi artisti che han fatti la storia Grazie F.L.

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  2. Complimenti, la scrittura porta immediatamente all'interno del quadro, nelle passioni dipinte e sollecitate dai ricordi, la scrittura è musica visiva ... Grazie !!
    Gabriella Minarini

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