ITALO CALVINO: LE CITTÀ INVISIBILI di Giovanna Romanelli (critica letteraria) - TeclaXXI

CRITICA LETTERARIA 

Italo Calvino: Le città invisibili 

di Giovanna Romanelli 




Le città invisibili sono costruite come testi linguistici attraverso i procedimenti matematici dell’analisi combinatoria ed evidenziano un forte carattere territoriale. In questo senso è illuminante quanto scrive Wittgenstein sul paragone linguaggio/città: «Il nostro linguaggio può essere considerato come una vecchia città: un dedalo di stradine e di piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi diversi; e il tutto circondato da una rete di nuovi sobborghi con strade diritte e regolari, e case uniformi» (Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1967, p.16).

I luoghi non sono più quelli reali, ma diventano territori della mente e della cultura, resi opachi da quell’inestricabile «groviglio conoscitivo» che è il mondo.

   La scrittura, attraverso una sorvegliata tecnica di smontaggio e rimontaggio, diviene allora strumento di conoscenza, guida alla percorrenza di un itinerario che non necessariamente presenta vie d’uscita dal «labirinto del mondo», archetipo della forma della complessità. Queste città hanno perso la loro identità, si sdoppiano continuamente in immagini paradossali. Il paradosso è presente anche nel discorso che riflette il continuo divenire e la continua metamorfosi del linguaggio.

   Il libro, per esplicita dichiarazione dello scrittore, non vuole evocare solo «un’idea atemporale di città», bensì «una discussione sulla città moderna». Le città invisibili sono, dunque, luoghi virtuali attraverso cui l’autore riflette sulle città reali: «penso d’aver scritto qualcosa come un ultimo poema d’amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città. Forse stiamo avvicinandoci a un momento di crisi della vita urbana, e le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili» (Le città invisibili, Milano, Mondadori, 1993, p. IX).

   Occorre tuttavia ricordare che nella memoria dello scrittore persistono, almeno sullo sfondo, tracce del paesaggio ligure, quello della sua giovinezza come più volte affermato dallo stesso Calvino.

   Il testo è costituito da una serie di relazioni di viaggio esposte da Marco Polo a Kublai Kan, imperatore dei Tartari, intervallate dai dialoghi tra i due personaggi. Sono narrate 55 città (ciascuna ha un nome di donna), disposte in 9 sezioni, di cui la prima e l’ultima comprendono 10 città, le altre 5. Non importa qui insistere sulla struttura combinatoria delle città, è invece utile evidenziare lo stretto rapporto che intercorre tra i corsivi (dialoghi) e i tondi (descrizioni delle città).

   Già all’inizio del testo emerge il contrasto tra la pesantezza dell’impero, dietro cui si cela il suo disfacimento, e la leggerezza dei racconti del viaggiatore. Il viaggio di Marco Polo (la pars construens, mentre Kublai Kan è la  pars destruens) ha uno scopo dichiarato, la ricerca della felicità che lo sterminato impero sembra negare: «l’impero è malato e quel che è peggio cerca di assuefarsi alle sue piaghe. Il fine delle mie esplorazioni è questo: scrutando le tracce di felicità che ancora si intravvedono, ne misuro la penuria. Se vuoi sapere quanto buio hai intorno devi aguzzare lo sguardo sulle fioche luci lontane» (op. cit., p. 59).

   La città cui tende il viaggio di Calvino è il luogo del sogno, del desiderio che la mente può costruire pezzo per pezzo sfuggendo alla pesantezza del reale. Il tema della «leggerezza della pensosità» è  centrale nella riflessione di Calvino: «Se volessi scegliere un simbolo augurale per l’affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero di automobili arrugginite» (Lezioni americane, Milano, Garzanti, 1988, p. 13).

   Le città raccontate da Marco Polo sono pezzi di un puzzle che, smontati e rimontati, permettono di riprodurre infinite variazioni. Scorporare i diversi elementi e ricomporli è un modo per dominare il molteplice e il complesso, è una sorta di conoscenza del mondo che ritrova la sua unità in uno sforzo supremo di astrazione. Ma ogni qualvolta l’imperatore crede di essere vicino alla verità nella ricerca di «un sistema coerente e armonioso», si accorge che è sempre più vicino al nulla; allora Marco Polo gli rivela che dietro il nulla un occhio intelligente può scoprire una «quantità di cose». È lo stesso Calvino a commentare questo tema in una delle Lezioni americane: «In realtà sempre la mia scrittura si è trovata di fronte due strade divergenti che corrispondono a due diversi tipi di conoscenza: una che si muove nello spazio mentale di una razionalità scorporata, dove si possono tracciare linee che congiungono punti, proiezioni, forme astratte, vettori di forze; l’altra che si muove in uno spazio gremito di oggetti e cerca di creare un equivalente verbale di quello spazio riempiendo le pagine di parole, con uno sforzo di adeguamento minuzioso dello scritto al non scritto, alla totalità del dicibile e del non dicibile. Sono due diverse pulsioni verso l’esattezza che non arriveranno mai alla soddisfazione assoluta: l’una perché le lingue naturali dicono sempre qualcosa in più rispetto ai linguaggi formalizzati, comportano sempre una certa quantità di rumore che disturba l’essenzialità dell’informazione; l’altra perché nel render conto della densità e continuità del mondo che ci circonda, il linguaggio si rivela lacunoso, frammentario, dice sempre qualcosa in meno rispetto alla totalità dell’esperibile» ( Lezioni americane, cit., p. 72).

   Se il linguaggio, dunque, media il nostro rapporto col mondo, le Città invisibili sono un testo semiotico: «I segni formano una lingua, ma non quella che credi di conoscere […]. Non c’è linguaggio senza inganno». Ma la «menzogna non è nel discorso, è nelle cose» dal momento che «l’occhio non vede cose ma figure di cose che significano altre cose» (Le città invisibili, cit., pp. 42, 48,13-14). Infatti il linguaggio non dice le cose, ma soltanto i nostri rapporti con esse: caricandole di simboli ne accresce per un verso la complessità, ma anche le impoverisce, selezionando.

   Chi arriva nella città deve inoltre decodificare i segni scritti nello spazio che costituiscono la sintassi del territorio. Il senso nasce là dove non si cerca, nella sequenza dei segni stessi. Tale decodifica è problematica e incerta, perché ogni segno è ambivalente, presenta una dualità, quella stessa che intercorre tra langue e parole. Essa è una presenza costante nelle città visitate da Marco Polo. È possibile ritrovare questa ambiguità anche in alcuni designatori referenziali ricorrenti con particolare frequenza nel testo, quali, ad esempio, dentro/fuori.

   Nessuna mappatura potrà aiutare Kublai Kan a conoscere il suo impero e a possederlo veramente. Infatti, se l’atlante del Gran Kan «custodisce intatte le differenze», il viaggio di Marco Polo sembra invece annullarle: «i luoghi si scambiano forma ordine distanze, un pulviscolo informe invade i continenti» (op. cit., p. 139). Le città invisibili si rivelano allora come una sorta di «utopia polverizzata». Dunque non si tratta di costruire un nuovo modello quanto piuttosto di recuperare i valori propri della città, di ricostruirne la memoria dal momento che i segni del passato sono nascosti nel territorio: la città è fatta «di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato […]. Di quest’onda che rifluisce dai ricordi la città s’imbeve come una spugna e si dilata […]. Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano» (op. cit., p. 10).

   L’invisibilità delle città è l’enigmaticità che intercorre tra parole e cose, sogno e realtà: «Forse del mondo è rimasto un terreno vago e ricoperto da immondezzai, e il giardino pensile della reggia del Gran Kan. Sono le nostre palpebre che li separano, ma non si sa quale è dentro e quale è fuori» (op. cit., p. 164).

   Come già aveva notato Pier Paolo Pasolini, ogni descrizione di Calvino è la descrizione di un’anomalia del rapporto tra il mondo delle idee e la realtà. Poiché ogni ricerca di verità non approda alla conoscenza, Calvino addita all’uomo contemporaneo un possibile percorso, attraverso una risposta laica e razionale, capace di opporsi al nichilismo della scienza che descrive «il processo irreversibile che conduce l’universo a decomporsi in una nube di calore». In chiusura del libro infatti afferma: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio» (op. cit., p.164).

   L’opacità del linguaggio che non dice più niente, l’impoverimento semantico dei luoghi determinato dalla perdita reale dello spazio, ci immettono nel cuore della problematica fondamentale delle Città invisibili: la ricerca di un modello strutturale e utopico della città che, attraverso un movimento regressivo, recuperi non solo l’essenza antropologica dell’abitare e del costruire, ma anche i valori propri della città, facendoli emergere dal sottofondo della coscienza e della storia culturale.

GIOVANNA ROMANELLI


BIONOTA

Giovanna Romanelli laureata in Lettere classiche presso l’Università Cattolica di Milano, ha conseguito la specializzazione in critica letteraria e artistica e ha collaborato col progetto IRIDE presso la medesima università. Ha insegnato presso la Sorbonne (Paris III), è stata membro del comitato scientifico della Fondazione Cesare Pavese e presidente della giuria del Premio Letterario che dello scrittore porta il nome.


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