ANDREINI DIETRO LO SPECCHIO di Dino Finetti - II parte (teatro)

 

 


TEATRO

 

Dino Finetti

ANDREINI DIETRO LO SPECCHIO

Postfazione alla Commedia di G. B. Andreini

AMOR NELLO SPECCHIO

Seconda parte

 



Gli studiosi che hanno indagato le simbologie e i significati nascosti dietro questo affascinante prodotto del teatro barocco, non hanno mai affrontato, se non di sfuggita, una questione pratica che pure doveva presentarsi, all’epoca, nelle esibizioni in “terra straniera”, ovvero la necessità di far comprendere le parole e gli avvenimenti in scena di una pièce “recitata”, con dialoghi e monologhi precisamente fissati dall’autore, a chi non conosca l’italiano – senza contare che anche spostandosi da una “piazza” all’altra della penisola, si verificava un analogo problema comunicativo dovuto alle diverse varianti locali dell’italiano e all’esistenza di innumerevoli dialetti parlati. Se è vero, come è vero, che le commedie “sperimentali” di Andreini, di cui Amor nello specchio, è un perfetto esempio, abbondano di riferimenti mitologici e letterari, di arguzie, figure retoriche, doppi sensi, allusioni, oscenità più o meno nascoste, nonché di battute poetiche, comiche, volgari, allusive, ironiche, vivacizzate da giochi di parole, riferimenti e rimandi a proverbi, motti, pratiche magico-esoteriche, ambiti speciali; e in cui sono anche comicamente introdotte espressioni vernacolari ed elementi derivati da lingue reali (compreso il latino degli eruditi) o imitate e “maccheroniche”: tutto questo multiforme linguaggio lo può verosimilmente comprendere e gustare – pur con certi limiti –, solo chi conosca perfettamente la lingua italiana e sia dotato vieppiù di una cultura e una preparazione di rara eccellenza, cosa difficile a verificarsi anche fra gli eruditi e meno che mai presso il comune spettatore, il pubblico di corte e anche i regnanti. In definitiva, l’unico padrone di tutta quanta la commedia, poteva esserlo solo il suo autore e, al giorno d’oggi, noi lettori con il supporto del web. Eppure, a partire dalla seconda metà del XVI sec., Arlecchino di Tristano Martinelli, la compagnia dei Gelosi (retta dai genitori di Andreini, Francesco e Isabella), la compagnia dei Fedeli di Lelio e Florinda e altre troupes itineranti, riscossero un grandissimo successo nelle piazze italiane, così come in Francia e addirittura presso le corti europee di Praga e Vienna. Come è stato possibile? A mio modesto avviso, tutto nasce da un equivoco: per abitudine e pigrizia mentale, noi contemporanei siamo portati a credere che il testo delle commedie degli autori/attori dell’Arte, tramandateci attraverso la stampa, corrisponda sostanzialmente a ciò che veniva recitato; ritengo invece che le performance dal vivo, soprattutto quelle in terra straniera, fossero basate principalmente sul repertorio della Commedia dell’Arte, senza dialoghi precostituiti ma con scenette mimate, lazzi, gestualità e altre forme di espressione non verbale. Le commedie “recitate”, sulla base di un testo e nella forma pensata dal loro autore, erano forse destinate alle “grandi occasioni”, agli allestimenti o spettacoli che si facevano a corte, per l’intrattenimento di sovrani, nobili e gente di rango che parlavano la stessa lingua degli interpreti.

Gli elementi di una compagnia di comici, in tournée “all’estero”, probabilmente adeguavano comunicazione e repertorio alla necessità di essere compresi, stante l’imperativo di divertire il loro pubblico; di certo non avevano le velleità moderne del “teatro d’autore” o la consapevolezza un po’ orgogliosa di essere produttori d’arte, di fare “cultura”. Gli attori non recitavano una parte, seppure improvvisata, come la intendiamo oggi assistendo a uno spettacolo di prosa o leggendo un testo teatrale, ma agivano in scena secondo modalità già predefinite in base al ruolo o alla maschera che interpretavano e ricreavano, con gesti, mimica, smorfie, suoni, canzoni, danze, acrobazie, movimenti ed espressioni corporee facilmente com­prensibili da un pubblico eterogeneo, compensando la mancanza di dialoghi con qualche parola colorita ed eloquente nell’idioma del luogo o di altra provenienza; in definitiva, infarcendo una trama essenziale di scene “ridicolose” ed elementi non verbali destinati a divertire e sorprendere il pubblico [come ancora oggi avviene con le pantomime o il teatro dei burattini, nato anch’esso da esibizioni di piazza, come la Commedia dell’Arte, di cui ha condiviso maschere e caratteri].

Non a caso la documentazione riguardante la Commedia dell’arte, a noi pervenuta, non comprende commedie dialogate, bensì scenari o canovacci ovvero il tracciato con l’articolazione delle scene, l’indicazione di massima della “trama”, lasciata alla libera caratterizzazione dell’interprete che impersonava il ruolo o la maschera, recitando “all’improvvisa”, aggiungendo gag, gesti caricati e varie buffonerie [ad es. Tristano Martinelli, incarnazione di Arlecchino, aveva una fisicità, un’agilità e una prestanza fisica da saltimbanco che gli consentivano la più straordinaria vivacità di movimenti.7]

Alcuni scritti di Siro Ferrone e un saggio di Jon Snyder (Publish (f)or Paris? G. B. Andreini in France, in: Renaissance Drama, 36-37, 2010) mi sono stati indirettamente di aiuto nel superare alcune perplessità, stimolando ulteriori ipotesi, non so quanto fondate, che cercherò di esporre.

Snyder, a cui si deve la traduzione in inglese di Amor nello specchio (G.B. Andreini, Love in the Mirror, Toronto, 2009) sarà un po’ il mio Virgilio nel penetrare la fantasmagoria di immagini, suggestioni, miraggi, doppi e visioni riflesse che la commedia di Andreini dischiude a chi voglia esplorarne la magia. L’autorevole studioso del Barocco e italianista prende in esame le cinque commedie che Andreini fece stampare a Parigi in quello che possiamo considerare il suo annus mirabilis (1622). Io riferirò solo alcune argomentazioni applicabili ad Amor nello specchio lasciando gli approfondimenti alla lettura diretta dell’intero saggio, reperibile online.8       

Appoggiandosi a Publish (f)or Paris, si può ora tentare una risposta ai quesiti cui accennavo più sopra. Il primo di essi riguarda il problema comunicativo. Snyder sostiene che Andreini aveva una conoscenza rudimentale del francese scritto – lo rivelano le storpiature di nomi e indirizzi di alcuni dedicatari – e probabilmente anche il parlato non era migliore. Può darsi che a corte molti comprendessero l’italiano (Maria De’ Medici, protettrice di lunga data dell’Andreini - fiorentino di nascita -, quando nel 1600 era andata in sposa a Enrico IV, si era trasferita in Francia con un piccolo esercito di conterranei (2000 persone), ma è un po’ inverosimile che un autore, capace di assimilare e trasferire nelle proprie commedie le lingue/dialetti locali dei territori in cui aveva vissuto e operato: toscano, bolognese, mantovano, bergamasco, veneto e anche lo spagnolo degli Asburgo (ramo iberico), insediati a Milano, non abbia appreso dei rudimenti di francese parlato durante l’anno di permanenza in Francia (1621-22), che aveva avuto il non trascurabile precedente della tournée del 1613-14. Questa presunta conoscenza di base del francese, non rilevabile dai lavori di Andreini contemporanei e successivi, a noi pervenuti solo nella forma ideale fissata nella stampa, si può ipotizzare che venisse utilizzata nelle esibizioni sceniche dei Fedeli a corte e all’Hotel de Bourgogne - ma in tal caso il basic French non avrebbe potuto sostituire, a meno di una profonda se non stravolgente semplificazione, il contenuto e la ricchezza linguistica delle commedie italiane dell’autore-capocomico.

Snyder, correggendo l’entusiasmo di Siro Ferrone,9 il quale afferma che “in questo periodo Andreini concepì, mise in scena e pubblicò” tutte e cinque queste opere a Parigi, precisa che in realtà ci sono scarse prove archivistiche a sostegno della prima di queste affermazioni (cioè l’ideazione e stesura di dette commedie in Francia). Io aggiungerei che anche la messa in scena non è supportata da prove certe, documenti o altre testimonianze dell’epoca e, in ogni caso, se le commedie fossero state allestite, le parti recitate, in italiano o in francese, sarebbero state molto più essenziali e sfrondate della gran parte dei preziosismi retorici, letterari, mitologici e dei tanti giochi di parole, termini, doppi sensi che noi possiamo gustare e comprendere solo da un’attenta lettura del testo pubblicato. Lo spettacolo dal vivo che tanto favore ha incontrato presso regnanti, cortigiani e gente del popolo era vivace e divertente non in virtù delle doti letterarie del suo autore, ma grazie alle sue qualità di attore e capocomico e alle risorse individuali dei componenti la troupe che attingevano principalmente al repertorio della Commedia dell’Arte. Né poteva esserci grande impiego di macchine, effetti speciali e sfarzosi allestimenti con cui stupire il pubblico, per il semplice fatto che le compagnie itineranti, prive generalmente di mezzi economici, non possedevano né potevano trasportare pesanti o voluminosi arnesi scenotecnici, dispositivi catottrici, ingombranti attrezzature, pannelli o elementi per il décor, disponibili solo presso le corti italiane con una più ricca tradizione teatrale/spettacolare.

Snyder ammette che “del resto, delle rappresentazioni dei Fedeli a Parigi nella stagione 1621-22 basate sui testi delle opere di Andreini (sia queste che, presumibilmente, altre del repertorio della com­pagnia), non sappiamo quasi nulla."10 [p. 359] Questo rafforza il mio sospetto che vere e proprie rappresentazioni di Amor nello specchio e delle commedie consorelle non abbiano avuto luogo in terra di Francia, e comunque non nella forma che ci è stata tramandata at­traverso la stampa. Se questi testi, così vivaci e articolati sul piano teatrale e linguistico-letterario, avessero incontrato un successo popo­lare fuori o entro la corte, qualche cronista dell’epoca ne avrebbe fatto menzione. È più probabile che gli spettacoli destinati al pubblico francese facessero ricorso al repertorio dell’Arte e fossero ricchi di attrattive mimico-spettacolari più che di sottili dialoghi letterari, destinando questi ultimi non alla scena, ma alla stampa. Del resto, riguardo Amor nello specchio: “I discorsi riccamente letterari fatti inva­ria­bilmente da amanti passionalmente coinvolti… servono a mostrare il suo [di Andreini] virtuoso talento retorico e poetico.” (p. 361)                                                    2  [continua]                  

Note (seconda parte):

7 Siro Ferrone, Arlecchino Vita e avventure di Tristano Martinelli, 2006, Bari, Laterza.

8 Jon Snyder, “Publish (f)or Paris? G. B. Andreini in France” Renaissance Drama 36-37 (2010): tinyurl.com/2dhhz9b3

9 Il principale studioso dell’Andreini, Siro Ferrone, v. “Nota bio­bi­blio­grafica”, nel 2° vol. di: Commedia dell'arte, 2 voll. (Milano, Mursia, 1986), p. 14.

10 Snyder, Publish (f)or Paris?, cit. p. 359 [“Moreover, of the Fedeli’s performances in Paris in the 1621-22 … we know next to nothing at all.”]


BIONOTA 

Dino Finetti è laureato in musicologia al DAMS, che frequentato negli anni in cui erano docenti come Umberto Eco e altri che avevano atto parte del Gruppo 63. 

È un ferrarese che non mena vano delle sue origini, nel 2008 avventurato nell’ingrata attività di autore ed editore, pubblica quasi esclusivamente cose proprie. Ha prodotto alcuni libri ed e-book, rintracciabili in rete con il suo nome o gli eteronimi di Feroce Saladino e Anonimo ferrarese.

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