PAUL AUSTER, GIGANTE DELLA LETTERATURA AMERICANA CONTEMPORANEA di Alessandro Iovinelli (critica letteraria)
CRITICA LETTERARIA
Alessandro Iovinelli
Paul Auster, gigante della letteratura americana contemporanea
La mattina dello scorso primo maggio 2024 ho appreso una notizia che mi ha lasciato di sasso: Paul Auster era spirato la sera precedente nella sua casa di Brooklyn. Gli erano accanto la moglie, la splendida Siri Hustvedt, e la figlia, l’adorata Sophie.
Sapevo dal 2022 che era malato di tumore, ma quando è uscito il suo nuovo libro, il bellissimo Baumgartner, ho scioccamente creduto che ce l'avesse fatta e la gran bastarda avesse battuto in ritirata. Mi sbagliavo. La morte non fa sconti a nessuno e vince sempre.
Ad ogni modo, superato lo shock iniziale, ho pensato che la nostra rivista dovesse rendergli un tributo, essendo lui uno dei maggiori scrittori della letteratura americana contemporanea, anzi tra i massimi a livello mondiale negli ultimi quarant’anni.
Mi è parso dunque opportuno riproporre alcune pagine (aggiornate nella rete dei riferimenti) che gli dedicai qualche anno fa in un mio libro (Il salto oltraggioso del grillo, Albatros, 2010). Il mio discorso ruotava intorno alla categoria del caso nell’universo narrativo di Paul Auster. Eccolo.
Come in ogni altro grande scrittore, vi sono anche nell’universo narrativo di Auster alcuni temi dominanti che i lettori, percorrendo la sua ormai lunga bibliografia, possono aver riscontrato un po’ per volta e poi messo a fuoco. In tal caso, per giudizio pressoché unanime, è possibile accennare ad alcune costanti tematiche, senza paura di essere smentiti: la ricerca dell’identità attraverso l’altro da sé e il doppio, la perdita del padre e il ritorno della sua figura attraverso transfert e proiezioni, la minaccia perennemente sovrastante del fallimento esistenziale, il viaggio come itinerarium mentis, l’uso della scrittura da parte dei personaggi come strumento di creazione della realtà e di sopravvivenza nelle sciagure, e così via. Sia detto anche – sia pure per inciso – che non meno vario è l’universo mitopoietico da lui animato.
Non c’è che dire: il macrotesto austeriano pullula di personaggi vari e dissimili. Possono pure chiamarsi nel modo più generico possibile, come Black, White e Blue in Ghosts (1986)[1], ma il lettore finisce per sapere tutto di loro, o quanto meno crede di conoscerli profondamente, quasi fossero sempre i protagonisti di un’autobiografia, come il Mark Stanley Fogg di Moon Palace (1989)[2], o di una biografia, come Walter Rawley di Mr Vertigo (1994)[3], il «Walt il Bambino Prodigio», l’eroe di ascendenza dickensiana capace di apprendere l’arte della levitazione. Le sue sono opere in cui, certamente, incontriamo un gran numero di scrittori, ma non meno rimarchevole è la presenza – per servirci della terminologia di Barthes – di scriventi,[4] ai quali l’atto di scrivere un memoriale in forma di lettera è l’unico modo per dare un senso alla propria esistenza drammatica, come Anna Blume di In the Country of Last Things (1987)[5], o come può diventare per Sidney Orr in Oracle Night (2004)[6] un misterioso taccuino blu, che esercitando su di lui un’irresistibile forza di attrazione lo induce a redigere in soli nove giorni una storia capace di cambiargli la vita.
La condizione preliminare di qualsiasi opera letteraria è questa: la persona che scrive deve inventare quel primo personaggio che è l’autore dell’opera. Che una persona metta tutto sé stesso nell’opera che scrive è una frase che si dice spesso ma che non corrisponde mai alla verità. È sempre solo una proiezione di sé stesso che l’autore mette in gioco nella scrittura, e può essere la proiezione di una vera parte di sé stesso come la proiezione d’un io fittizio, d’una maschera.[7]
È una regola di base che nell’opera di Auster vale sempre ed è condotta alle estreme conseguenze.
Ma questo è soltanto uno scampolo del genere umano che è rappresentato nei romanzi di Auster. E non solo umano, giacché perfino un cane, l’indimenticabile Mr Bones di Timbuctu (1999)[8], conquista, per così dire, la scena nelle scombinate avventure del suo padrone, il poeta vagabondo Willy. È talmente allargato il terreno sul quale crescono e si sviluppano i suoi personaggi. Non importa nemmeno se, come accade in Travels in the Scriptorium (2007)[9], siano personaggi pirandellianamente a colloquio con l’autore, presi perfino in prestito da altri romanzi: ciascuno, per il semplice fatto di intervenire nella narrazione, piglia vita e trova una precisa identità nella pagina in cui emerge. Si potrebbe affermare che essi, o perlomeno molti di loro, siano consapevoli di essere creature di carta, per le quali al di fuori dello spazio letterario nulla esisterebbe, perché, in generale, fuori c’è sempre solo il nulla. Così si capisce poi perché taluni vogliano, quale extrema ratio, uccidere il narratore – si pensi a quel che accade in Man in the Dark (2008)[10], dove il protagonista, Owen Brick, si ritrova coinvolto in una sorta di oscuro complotto destinato a eliminare colui che lo ha inventato, cioè August Brill, il vecchio critico letterario che lo ha ideato per combattere i paurosi vuoti della sua notte insonne. Essendo lui il vero demiurgo, il divino fabbro, colui che dipana i fili del caos, e che ha il potere di vita e di morte sulle sue creature, l’unica forma di ribellione che egli ha per diventare padrone del proprio destino, sarebbe quella di eliminarlo per primo. Il che, naturalmente, è impossibile, perfino nello schema della mise en abyme, sicché è proprio Owen Brick a soccombere nell’impari lotta: il narratore, infatti, a un certo punto immagina un bombardamento, gli basta dunque una cannonata e quello sparisce. Si badi: sparisce e non finisce!
Questo è il prezzo di nascere come personaggio di fiction – cioè, di passare dal caos al cosmo. L’universo narrativo è il trionfo dell’arbitrarietà – cosa che non deve stupire chi sa quanto Auster consideri Kafka e Beckett come propri punti di riferimento. Ed è questa una delle ragioni, almeno in ambito letterario – ché quello filosofico è molto più complesso e richiederebbe una riflessione sulla filosofia del linguaggio di Wittgenstein o sulla psicoanalisi di Lacan – del fenomeno che qui interessa analizzare: la struttura narrativa procede utilizzando le coincidenze più di ogni altro meccanismo diegetico, poiché il caso domina il mondo.
La semplice operazione di registrare la ricorrenza del fenomeno nei romanzi di Auster potrebbe risultare di per sé sufficiente, talmente alta è la sua frequenza, fin dai primi passi della produzione dell’autore. Si pensi all’incipit di City of Glass (1985), il primo tempo della formidabile The New York Trilogy[11], allorché il punto di partenza del plot è una telefonata notturna al numero sbagliato: risponde Daniel Quinn, uno scrittore di gialli, ma cercano un certo Paul Auster, ovvero il titolare dell’agenzia investigativa Auster. La telefonate si ripetono nelle notti successive, finché Quinn decide di assumere l’identità di Paul Auster e seguire il percorso che il caso gli aveva proposto di intraprendere. Non ci sarebbe la storia, né tanto meno il romanzo, senza questo colpo di dadi iniziale: il caso distribuisce le carte, se il personaggio accetta di giocare, allora comincia la partita, la quale – come ogni altro gioco – non ha mai un risultato predefinito.
Una modalità con la quale il caso interviene nella creazione del plot narrativo è quella della coincidenza, o meglio ancora: delle catene di coincidenze, che si susseguono l’una dopo l’altra, in un gioco di scatole cinesi. Si pensi al processo attraverso cui Mark Stanley Frogg giunge all’agnizione del padre sconosciuto. Il protagonista di Moon Palace appare nel romanzo come uno studente orfano della madre da undici anni, cresciuto con lo zio Victor e senza mai aver avuto nozione di chi fosse il padre. Quando anche lo zio muore, ne consuma progressivamente l’eredità e, chiuso nella sua vita ascetica, si riduce in uno stato di estrema indigenza. Poi, grazie prima a un amico e poi a una ragazza, si risolleva e riacquista un livello di vita più dignitoso. Un giorno, cercando lavoro, decide di rispondere a un annuncio che ha letto nella bacheca della sua università: un vecchio invalido cerca un giovane che gli faccia compagnia (per cinquanta dollari a settimana, vitto e alloggio). L’incontro con Thomas Effing stravolge il corso degli eventi: non solo perché la seconda parte del romanzo è occupata dalla sua incredibile autobiografia, ma perché – di colpo di scena in colpo di scena – Frogg conoscerà Samuel Barber, il suo vero padre, il quale a sua volta si rivelerà essere il figlio di Effing. Casuale – e al tempo stesso fatale – questo incontro finale in cui la scoperta della verità reciprocamente ignorata corrisponde alla morte del padre.
Tutto Leviathan, come già anticipato, esprime il trionfo del dominio del caos nello svolgersi delle vite umane. Il caso agisce per segni talora misteriosi ed inspiegabili, come la caduta accidentale del protagonista, Benjamin Sachs, dal quarto piano durante una festa. Incredibilmente sopravvissuto all’incidente, Benjamin subisce però un violento choc che letteralmente sconvolge la sua esistenza: da giovane scrittore di talento, apparentemente destinato a una smagliante carriera, si trasforma in un dinamitardo ribelle, una sorta di caricatura del supereroe dei fumetti che si lascia chiamare «the Phantom of Liberty» per la sua strategia dimostrativa – far esplodere le copie della Statua della Libertà esposte in diversi piccoli centri nordamericani. È lui la vittima della deflagrazione con cui si apre il romanzo:
Sei giorni fa un uomo si è fatto saltare in aria sul ciglio di una strada del Wisconsin del nord. Non ci sono testimoni, ma pare che fosse seduto sull'erba accanto alla sua macchina intento a costruire una bomba, quando questa gli è esplosa fra le mani per sbaglio. Secondo i referti dei medici legali che sono stati appena diramati, l'uomo è morto sul colpo.[12]
Tutto il testo non è altri che la sua biografia redatta dall’amico e, a sua volta, scrittore, Peter Aaron (l’ennesimo alter ego di Auster), la quale non farà altro che ripercorrere le scansioni tanto assurde quanto sconnesse della sua tragica discesa, secondo il classico motivo della perdizione dell’eroe – dalla prospettiva del successo alla catastrofe finale, cioè la sua drammatica morte, addirittura collocata in posizione di pronao rispetto alla complessa architettura narrativa. Il tema del fallimento individuale, oltre ad essere una costante nell’ispirazione di Auster, è altresì un archetipo dell’intera narrativa americana – si pensi alla storia di Seymour Levov, lo Svedese, in American Pastoral (1997) di Philip Roth[13], ed ha dunque il valore di contrappunto rispetto a uno dei dogmi dell’American way of life: il mito del self-made man. Ma che cosa ha reso possibile tale mutazione di un uomo brillante in un pericoloso terrorista, cui danno la caccia l’Fbi e i servizi segreti: un complotto, un piano diabolico, o una strategia criminale? La risposta del libro è un’altra – e forse è questa la ragione per la quale è stato scritto: «Non che io voglia giustificare quel che ha fatto, ma dal momento che non è più in condizione di difendersi, il meno che io possa fare è spiegare chi era e raccontare la verità sul perché si trovava su quella strada del Wisconsin del nord»[14]. La risposta passa attraverso il resoconto degli accadimenti incredibili che hanno di volta in volta dirottato Benjamin verso altre direzioni, prima di allora imprevedibili ed impossibili. La verità è che la vita è fatta di coincidenze. E di scelte conseguenti – la maggior parte delle volte risultato di situazioni paradossali, che ammettevano risposte aut-aut, senza nemmeno la possibilità di stabilire almeno che una delle due fosse giusta.
La vera svolta si compie alcune pagine prima: quando Nash ha affidato la figlia alle cure della famiglia di sua sorella e, deciso di ritornarsene in Massachusetts, si mette in viaggio, ma sull’autostrada sbaglia di uscita e scopre di aver preso la direzione opposta. Avrebbe potuto proseguire per qualche altro chilometro in attesa di riprendere il senso giusto e invece si limita ad imboccare l’uscita successiva e decide di proseguire andando avanti, senza alcuna altra meta che non fosse suggerita che dalla distanza, dalla presenza di motel e stazioni di servizio, in ultima analisi dalle esigenze dell’auto e del viaggio in sé. Prima il Wyoming, poi il Nuovo Messico, poi l’Oregon – uno dopo l’altro si susseguono diversi stati con scenari e paesaggi differenti, verso i quali l’attenzione di Nash è sempre la stessa condizione di spirito indifferente ed autistico – la musica dello stereo, la velocità, i pasti nei fast-food… Il suo è un movimento del tutto deresponsabilizzato e demotivato: è il viaggio per il viaggio. Senza alcun progetto, senza alcuna volontà. Ma all’origine di tutto non vi è stata una sua scelta importante e risolutiva, bensì un errore, uno sbaglio tra i più banali, qualcosa di simile al clinamen epicureo, cioè la deviazione spontanea degli atomi nel corso della loro caduta in linea retta nel vuoto. La deviazione casuale del destino individuale è un altro topos dell’immaginario novecentesco – la metafora dell’autostrada la troviamo nel cinema (si pensi alla fuga di Marion Crane in Psycho (1960) di Alfred Hitchcock, la quale – per colpa di un temporale e della scarsa visibilità – finisce nelle mani dello psicopatico Norman Bates) e in altri romanzi americani coevi (si pensi a The Bonfire of the Vanities (1987) di Tom Wolfe[17], in cui l’agente di cambio Sherman McCoy si sbaglia lungo un highway newyorkese e si ritrova nel Bronx). La dimensione metropolitana avvolge l’uomo del Ventesimo secolo ed è in quel paesaggio che si materializzano i suoi sogni e i suoi incubi. Ciò che distingue Nash sta nell’irrilevanza iniziale del suo cambio di rotta, come se la determinazione che vi soggiaceva non gli fosse neanche chiara. La levatrice della storia è in questa circostanza la fortuna, la quale mette l’individuo di fronte alle proprie intenzioni più autentiche, sebbene talora nascoste nel profondo.
Se c’è un’energia che muove il mondo di Auster, questa si chiama caso e lo governa tutto intero, anche al di fuori dello spazio letterario. La ritroviamo così anche nella sua esperienza cinematografica – dai fotogrammi scattati per hobby dal tabaccaio di Smoke (1995), ogni giorno, alla stessa ora, per molti anni, e tra i quali – senza volerlo o tanto meno cercarlo – lo scrittore Paul Benjamin riconosce il volto della moglie tragicamente scomparsa, alla pallottola vagante che colpisce il sassofonista Izzy Maurer nella prima scena di Lulu on the Bridge (1998). È una forza che attraversa l’intero corpus delle opere di Auster. Ne ascoltiamo l’eco perfino nelle regioni più lontane del suo universo, vale a dire le prime prove poetiche lungo le quali si compì la sua formazione letteraria. È una lirica aspra, pietrosa, prosciugata di significati ideali o simbolisti, dove il linguaggio si incrocia con la dura oggettività del reale. Eppure, nel silenzio che circonda i versi, o tra le crepe del terreno dove sorgono parole secche come cardi, ecco che irrompe un lampo di verità, quasi fosse un raggio di luce che penetra nella camera oscura:
Lull mend. But gales nourish
Chance: breath, blooming, while the wheel scores
Its writing into earth. [19]
Si tratta di una verità lampante, che l’autore ha ripetuto in varie occasioni, tanto in testi apertamente autobiografici, quanto in altri, per così dire, autocommentativi. La sua memorialistica è tutta costruita a partire dalla rievocazione di episodi, tra i più curiosi ed inverosimili, ma che costituiscono un organico puzzle nel suo racconto. Si pensi a Why write? o Accident Report oppure a The Red Notebook[20]. Questo, in particolare, si apre con una serie di testi brevi, che in un’ipotetica raccolta di racconti potrebbero ben figurare sotto la rubrica “incredibile ma vero”: apparizioni di persone credute scomparse, agnizioni familiari, scoperte di libri introvabili, conoscenza di persone tra loro imparentate, ma vissute addirittura in altri continenti, luoghi condivisi con amici, familiari, perfino personaggi illustri (come Saint-Exupéry), ma senza saperlo prima, incidenti mortali sfiorati, ecc. Di essi Auster è stato testimone, o addirittura protagonista diretto. Non vi è dubbio che uno o più eventi lo abbiano persuaso della necessità fattuale, se non propriamente ontologica, di questa specie di suprema legge di natura. Forse – e senza voler fare a tutti i costi della psicocritica – il tragico incidente a cui assistette all’età di quattordici anni ne è il più importante, quello che lo ha in un certo senso marchiato per sempre. Lo descrive lui stesso nel sopra citato Why write? Il giovanissimo Paul si trovava in un campeggio nello stato di New York. Durante un’escursione nei boschi, un improvviso temporale sorprese il gruppo di ragazzi che erano partiti nel pomeriggio del tutto impreparati per un eventuale acquazzone estivo. In breve, tutti si bagnarono e, quando tuoni e lampi cominciarono a deflagrare, furono presi dal panico. Così decisero di uscire al più presto da sotto gli alberi e tagliare la strada attraverso una vasta prateria che sorgeva da un lato della foresta. I ragazzi cominciarono a correre all’aperto, sotto la pioggia martellante, ma a un certo punto una folgore si abbatté su di loro, colpendone a morte uno che, fra l’altro, era tra i suoi migliori amici, Ralph. Era proprio davanti a lui, a pochi metri di distanza, tanto che, solo con qualche secondo di anticipo, avrebbe potuto essere lui al posto suo.
Ma – ripeto – non è tanto significativo ricostruire la genesi psicologica della credenza di Auster nel caso, ma piuttosto comprendere l’uso che ne ha fatto – per usare le sue stesse parole nell’intervista con Larry McCaffery e Sinda Gregory – «da un punto di vista estetico». Le sue idee in materia sono molto chiare: «il caso fa parte della realtà: noi siamo ininterrottamente sottoposti alla forza delle coincidenze, l’inatteso accade nelle vite di noi tutti con un regolarità sconvolgente». Non solo: poiché «la realtà è più strana della fiction», il suo compito in quanto scrittore non è quello di esercitare la propria immaginazione nell’arte di inventare le storie più incredibili, o quanto meno poco plausibili, artificiose ed irreali.
Quando parlo di coincidenze, non si tratta di un desiderio di manipolazione. […] No, quello di cui parlo, è la presenza dell’imprevedibile, la natura del tutto sconcertante dell’esperienza umana. Da un momento all’altro, tutto può accadere. Le nostre certezze maggiormente radicate sull’universo possono essere demolite in un secondo. In termini filosofici, parlo del potere delle contingenze. Le nostre vite non ci appartengono veramente, vedete – esse appartengono all’universo, e a dispetto dei nostri sforzi per trovare un senso, l’universo è un luogo che oltrepassa la nostra comprensione. Noi ci confrontiamo continuamente con tali misteri. Il risultato può essere davvero spaventoso – ma può essere anche comico.[21]
È un concetto che Auster ha riproposto con coerenza in diverse occasioni, sia pure chiarendo l’impatto della sua verità – «non credo che sia la sola forza al mondo; però è una forza importante». La trasposizione di un tale principio sul terreno letterario non determina una fuga dalla realtà in direzione del fantastico e del surreale, anzi:
La vita è piena di fatti ed eventi inattesi, sia miracolosi che terrificanti: voglio dire, sia buoni che cattivi. […] Taluni mi accusano di non essere realistico, di inventare storie pazze e assurde. Io invece sostengo di essere uno scrittore realista, e di confrontarmi con il mondo così com’è e per quello che è.[22]
Torna ancora il paradosso che abbiamo incontrato all’inizio di queste pagine a proposito di Boccaccio: l’uso di un meccanismo “casuale”, “indeterminato”, in fisica lo si chiamerebbe “probabilistico”, all’interno di una struttura narrativa realistica. A distanza di sette secoli, ci troviamo allo stesso punto: lo scrittore non ha bisogno di inventare alcuna dimensione soprannaturale per raccontare le storie più rocambolesche ed improbabili. In questo non fa eccezione nessuno dei testi di Auster. Nemmeno quelli che potrebbero sembrare le uniche eccezioni al suo sistema di pensiero. Si pensi a Lulu on the Bridge, il film in cui appare perfino uno degli espedienti più tradizionali della letteratura fantastica, cioè la pietra magica: solo alla fine lo spettatore scopre che gli eventi che ha visto rappresentati sullo schermo non sono effettivamente accaduti al protagonista, Izzy (Harvey Keitel), giacché non erano altro che una sorta di allucinazione – secondo lo schema della visione in interiore hominis, in questo caso dello stesso Izzy prima di morire. E si pensi a Mr Vertigo, che di tutte parrebbe la più impossibile delle storie narrate da Auster: quella di un bambino che sapeva addirittura vincere la forza di gravità ed esibirsi in spettacoli nei quali mostrava le sue qualità prodigiose. In effetti, la violazione di uno dei principi di realtà – il peso degli esseri viventi – non è propriamente nelle corde della tradizione realistica. Ma – a parte il fatto che Walt la sua arte di levitare prima l’apprende, e solo grazie alla durissima scuola del suo maestro Yehudi, e poi la dimentica, siamo poi sicuri che il suo debba restare un esempio isolato ed irripetibile? Si rilegga il finale del romanzo – le parole di congedo che Walt riserva ai lettori:
In fondo, non credo che occorra un talento particolare per sollevarsi da terra e librarsi a mezz’aria. È qualcosa che tutti abbiamo dentro, uomini, donne, bambini, e se uno ha voglia di metterci tanto lavoro e concentrazione, non c’è essere umano che non potrebbe ripetere le gesta che io ho compiuto nei panni di Walt il Bambino Prodigio. Basta smettere di essere sé stessi. È da lì che si comincia; tutto il resto viene di conseguenza. Basta lasciarsi svaporare. Eliminate ogni tensione muscolare, concentratevi sul respiro fino a sentire l’anima che esce dal corpo, e infine chiudete gli occhi. È così che si fa. Il vuoto che vi si crea dentro il corpo si fa più leggero dell’aria che vi circonda. A poco a poco, pesate meno di nulla. Chiudete gli occhi; allargate le braccia e lasciatevi svaporare. A quel punto, poco per volta, vi solleverete da terra.
Ecco, così.[23]
Chiudere gli occhi e svaporare: non è certo un’operazione semplice per nessuno di noi. Ognuno in effetti sta chiuso in sé stesso ed è convinto di avere una natura, ancor prima di una sorte, immodificabile. Né è agevole tracciare una linea e ricominciare da capo, senza rompere con il proprio passato e costruirsi una nuova identità. Spesso è anche un cammino votato allo scacco, come dimostra l’impossibile sostituzione dei propri dati anagrafici intentata dai personaggi alla Daniel Quinn – questa è la via ripetutamente intrapresa dal Novecento a partire dal Mattia Pascal del romanzo di Luigi Pirandello fino al David Locke di Professione: reporter (1975), il film di Michelangelo Antonioni. Non basta entrare nei panni di un altro per diventare liberi di scegliere un’altra vita – inevitabilmente si finisce per entrare in un’altra prigione, cioè in un altro destino segnato.
Ma nemmeno l’accettazione tanto sottomessa quanto volontaria della condizione nella quale ci è dato di esistere, può essere la soluzione. Talora i personaggi di Auster appaiono muoversi come medusizzati da un’ossessione che si è imposta nella loro coscienza, una specie di percorso ritenuto iniziatico e che al contrario si rivela fallimentare.
L’insegnamento dell’opera di Auster – se in essa ve ne è uno, come del resto vi può essere in ogni altro testo letterario – è contenuto tra questi due principi opposti, ma complementari: da una parte, la scelta di finire come situazione unica di esercizio della volontà, dall’altra, la costrizione assoluta come progetto esistenziale predisposto al fallimento. Il risultato della loro combinazione è la vita nella quale ciascuno di noi agisce, spera, sbaglia, cade, inventa… Proprio come nel verso di Rose Hawthorne citato alla fine di Man in the Dark: «As the weird world rolls on».
Non è singolare che uno dei romanzi più disperati e tenebrosi di Auster – laddove l’oscurità del titolo si riferisce contemporaneamente non solo alla lunga notte, ma anche al buio dell’età presente, ai fantasmi del protagonista e a quelli altrettanto inquietanti del mondo in cui noi, non meno di lui, viviamo – trovi alla fine una parola di speranza, la stessa che accompagna il sorgere del sole e l’inizio di un nuovo giorno. La vita non finisce, ma ricomincia sempre, perché le cose stanno così e «il folle mondo viene avanti rotolando»[25].
P. S. Si resta senza parole, se si pensa che il finale di Baumgartner, cioè l’epilogo dell’ultimo libro pubblicato in vita da Paul Auster poco tempo prima di morire, riprende proprio questa idea di fondo di tutto l’universo da lui creato: la casualità, ovvero l’assoluta imprevedibilità, la totale accidentalità e l’onnipotente aleatorietà in cui si svolge l’esistenza umana.
Infatti, un bizzarro incidente capita al protagonista del romanzo È uscito in macchina per fare un giro allo scopo di allentare la tensione causatagli dal lungo viaggio in auto che attende la giovane ricercatrice, cui ha offerto ospitalità e aspetta con ansia perché, pur essendo solo una conoscenza telefonica o per posta elettronica, si è affezionato (forse perché lo fa pensare a quella figlia che lui e la sua amata Anne non avevano potuto avere).
Improvvisamente, un cervo gli attraversa la strada, proprio mentre sta passando in mezzo a un bosco. Il nostro Sy riesce a evitare di investirlo. Ma non fa in tempo a riprendersi dall’emozione che un secondo cervo gli taglia nuovamente la strada, stavolta sbucando da sinistra e costringendolo a sterzare bruscamente a destra. Inevitabile a questo punto la perdita del controllo della sua vettura e il conseguente urto contro il tronco di un albero. Per fortuna, la bassa velocità non ha prodotto gravi conseguenze. Ciò nondimeno Sy si è ferito in volto e soprattutto la sua Subaru Crosstrek non parte più. Non gli resta che lasciare la macchina nel luogo dell’incidente e mettersi così in marcia alla ricerca di un aiuto.
The end. Cala il sipario. Fine. E poi? Si chiede il lettore naïf che è celato in tutti noi. Niente, non è dato di saperlo o, meglio, come accade con i buchi neri, non è possibile vederlo. È come il Godot della pièce di Samuel Beckett: non arriverà mai. Perché la vita per Paul Auster, oltre che casuale, era in ultima istanza inconoscibile.
[1] P. Auster, Ghosts, Faber & Faber, 1986, trad. it Fantasmi in Trilogia di New York, Torino, Einaudi, 1996.
[2] P. Auster, Moon Palace, Viking Press, 1989, trad. it. Moon Palace, Torino, Einaudi, 1997.
[3] P. Auster, Mr Vertigo, Faber & Faber, 1994, trad. it. Mr Vertigo, Torino, Einaudi, 1999.
[4] R. Barthes, Essais critiques (1964), trad. it. Saggi critici, cit., 1976, p.120.
[5] P. Auster, In the Country of Last Things, Faber & Faber, 1987, trad. it. Nel paese delle ultime cose, Torino, Einaudi, 2007.
[6] P. Auster, Oracle Night, Faber & Faber, 2004, trad. it. La notte dell’oracolo, Torino, Einaudi, 2004.
[7] Italo Calvino, Una pietra sopra, Milano, Mondadori, 1995, p.382.
[8] P. Auster, Timbuctu, Faber & Faber, 1999, trad. it. Timbuctu, Torino, Einaudi, 1999.
[9] P. Auster, Travels in the Scriptorium, Henry Holt and Co, 2007, trad. it. Viaggi nello scriptorium, Torino, Einaudi, 2007.
[10] P. Auster, Man in the Dark, Faber & Faber, 2008, trad. it. Uomo nel buio, Torino, Einaudi, 2008.
[11] P. Auster, City of Glass (1985) in The New York Trilogy, Faber & Faber, 1987, trad. it. Città di vetro in Trilogia di New York, cit.
[12] «Six days ago, man blew himself up by the side of a road in northern Wisconsin. There were no witnesses, but it appears that he was sitting on the grass next to his parked car when the bomb he was building accidentally went off. According to the forensic reports that have just been published, the man was killed instantly. His body burst into dozens of small pieces, and fragments of his corpse were found as far as 50 feet away from the site of the explosion. » (P. Auster, Leviathan, Viking, 1992, trad. it. Leviatano, Torino, Einaudi, 2003, p.5)
[13] Philip Roth, American Pastoral, Houghton Mifflin, 1997, trad. it. Pastorale Americana, Torino, Einaudi, 1998.
[14] Ivi, p.6.
[15] Antonio Tabucchi, Il battere d’ali di una farfalla a New York può provocare un tifone a Pechino? in L’angelo nero, Milano, Feltrinelli, 1991.
[16] P. Auster, The Music f Chance, Viking, 1990, trad. it. La musica del caso, Torino, Einaudi, 2009.
[17] Tom Wolfe, The Bonfire of the Vanities, Bantam Books, 1987; trad. it. Il falò delle vanità, Milano, Mondadori, 2008.
[18] P. Auster, The Book of Illusions, Faber & Faber, 2002, trad. it. Il libro delle illusioni, Torino, Einaudi, 2003.
[19] P. Auster, Collected poems. Overlook Press, 2004, trad. it. Affrontare la musica, Torino Einaudi, 2006. «Le bonacce sanano. Ma le burrasche nutrono / il caso: fiato, fioritura, mentre la ruota incide / la sua grafia nella terra.» (p.21)
[20] I tre testi si trovano riuniti in italiano in Esperimento di verità, Torino, Einaudi, 2001.
[21] La conversazione di Auster con Larry McCaffery e Sinda Gregory risale al 1989-90. L’edizione da me consultata (e tradotta) si trova in Le Carnet Rouge – L’Art de la Faim, Arles, Actes Sud, 2008. Il passo citato è a p.383.
[22] P. Auster, Le trame della scrittura, intervista di Marco Bellinelli, Edizioni Casagrande, 2005, p.49.
[23] «Deep down, I don’t believe it takes any special talent for a person to lift himself off the ground and hover in the air. We all have it in us – every man, woman, and child – and with enough hard work and concentration, every human being is capable of duplicating the feats I accomplished as Walt the Wonder Boy.You must learn to stop being yourself. That’s where it begins, and everything else follows from that. You must let yourself evaporate. Let your muscles go limp, breathe until you feel your soul pouring out of you, and then shut your eyes. That’s how it’s done. The emptiness inside your body grows lighter than the air around you. Little by little, you begin to weigh less than nothing. You shut your eyes; you spread your arms; you let yourself evaporate. And then, little by little, you lift yourself off the ground. Like so.» (P. Auster, Mr Vertigo, cit., pp.280-281)
[24] Franz Kafka, In der Strafkolonie e Bau der chinesischen Mauer, Georg Olms Verlag, 2008, trad. it. Nella colonia penale e La costruzione della muraglia cinese in Racconti, Milano, Mondadori, 2006.
[25] P. Auster, Man in the Dark, Faber & Faber, 2008, trad. it. Uomo nel buio, cit., p.152.
Alessandro Iovinelli, direttore scientifico di TeclaXXI
BIONOTA Alessandro Iovinelli (Roma, 1957) ha conseguito la laurea in lettere (Roma, La Sapienza) e il dottorato di ricerca in “Culture et Societé en Italie du Moyen-Age au XXème siècle”, (Parigi, La Nouvelle Sorbonne). È poeta, narratore, critico e regista teatrale. Ha pubblicato libri di poesia, racconti, saggistica, nonché tre romanzi. |
Come al solito Ale riesce a darci un'analisi profonda dello scrittore, ne indaga gli aspetti descrittivi, l'onirismo cinematografico,il casa dal quale non puoi fuggire.
RispondiEliminaQuesto tuo intervento va considerato un omaggio alla memoria ed un atto d'amore nei confronti dello scrittore.
Complimenti, ancora una volta hai colpito nel centro.
(Un rematore compagno nell'affannoso pelago...)
Complimenti, Alessandro, la tua analisi puntuale è stata illuminante e preziosa per mettere a fuoco alcuni aspetti della scrittura di Auster. 👏👏👏❤️
RispondiEliminaPrezioso tributo al grande scrittore americano la cui opera viene ripercorsa in modo originale ed approfondito nei suoi tratti salienti ! Complimenti Alessandro!
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