GIOCHI DI MEMORIA da «LA BAMBINA SI SPOSÒ A 5 ANNI» di Assunta Sànzari Panza (narrativa)

 

NARRATIVA

Assunta Sànzari Panza

Dal romanzo inedito La bambina si sposò a 5 anni

Cap. II. Giochi di memoria

 

 


     Ognuno ha una storia, imprescindibile dal presente e dal futuro. Invero, tutto il nostro essere è composto di microcellule di memoria, ricordi tessuti con forza e mantenuti vivi da una caparbia volontà conservativa. La naturale e fisiologica conservazione del genere umano abita proprio gl’interstizi sottili della mente, che vuole a tutti i costi “serbare” e preservare il preservabile dalle catene del nulla fu. Intervengono dunque i sensi, che restituiscono all’intelletto ciò di cui necessita per continuare il suo scavo. I solchi si fanno sempre più profondi, fino a toccare un fondo remoto e talvolta abissale che può fungere da prigione: se si prova a sfondare quelle inferriate e a fuggire si avverte la brezza della libertà, ottenuta con la forza aspra della combattività ostinata ma non priva di affanni.

     I giochi di memoria mi riconducono a Proust: memoria volontaria, involontaria. Ed evocativa, aggiungerei. Sembra anche a me di assaporare «una di quelle focacce pienotte e corte chiamate madeleine, che paiono aver avuto per stampo la valva scanalata d’una conchiglia di San Giacomo», mentre il ricordo traslato mi conduce nella grande casa bianca. Tutto prende pian piano forma, ma le immagini si materializzano in atti concreti: prima contorni di chiazze sbiadite di informi orditure, in bianco e nero, poi brani di colore sempre più nitido, quindi acceso. Come quelle fiamme ardenti, crepitio assorto e labile nel vuoto del nulla sonoro. Mi ritrovo lì, occhi chiusi, narici tese all’odore tenue del burro che si scioglie sul pane abbrustolito.

     Pane, due sillabe come casa: parola rassicurante, ma decisamente indispensabile, carica di sensi altri da ricercare in ogni lettera; più intensa è la loro pronuncia, maggiore il carico di emotività che vi si racchiude.

     Filippo, il mio primo padre, era intento a dorare le bruschette girandole rigirandole in fretta, e io osservavo la scena come si esamina un affresco appena ultimato: piegava le ginocchia, si alzava, si prostrava di nuovo alle fiamme. Lo scoppiettio si spargeva insieme all’aroma che inondava la stanza fino al soffitto, alto, altissimo. Anche lui giungeva al soffitto, così appariva ai miei occhi di bimba. Era un ragazzo, troppo immaturo per badare a una famiglia così numerosa; l’incoscienza giovanile, l’inconsapevolezza tipica del vorticoso ma flebile volo di uccelli diurni in cieli lastricati di fiotti bianchi, sempre gli stessi, che si sciolgono al primo passaggio, il frinire continuo di corpi vivaci delle cicale in cerca di giocosi battiti d’ali in frenetica azione erano i tratti del suo scanzonato disegno di vita. Breve vita.

     D’un tratto sbuca fuori dalla cucina l’altra mia sorella, la più grande, la mamma sempre pronta a proteggere il nido dai predatori. Una bimbadonna, il grembiule, le mani callose e ruvide, occhi dolci ma tremuli e lucidi, sguardo rapito dal nulla che echeggiava fisso in quella grande casa di cui era la regina. Aveva dodici anni, forse tredici, ma sembrava ne avesse quaranta o anche più. A volte smetteva gli abiti della casalinga-madre e credeva addirittura di essere una fascinosa ed elegante signorina alla ricerca del più bel vestito da indossare a una festa reale. Fantasticava spesso pensando a una vita fuori da quella casa, lontana da pentole e scodelle, stracci e ramazze, marmocchi e pannolini; un mondo che in realtà non conosceva, ma che la incuriosiva. Le altre ragazze del paese passeggiavano lungo la strada formando piccoli cortei e Clo lasciava le sue faccende per correre alla finestra a seguirlo finché la vista glielo consentiva; non appena di lontano vedeva scomparire l’ultimo puntino, lasciava quella cornice e si sedeva su una sedia, lo sguardo fisso nel vuoto, le braccia penzolanti. Poi si precipitava nella corte e se la prendeva ingiustamente con Pallino, il nostro cane. Una volta incrociai il suo sguardo, sembrava la mia gatta Antigone, con quei grandi occhi verdi che vogliono dirti qualcosa, ma non sai cosa. Si fidava di me, mi trattava come una bambina di almeno dieci anni, mi parlava spesso perché sapeva che la ascoltavo, mi stringeva le mani e le portava al petto quasi volesse catturare istanti di vita per non farli dissolvere come polvere nella vastità della conca cui si sottomette la crosta celeste.

     Ho viva l’immagine di un altro mondo, fatto di foto in bianco e nero, un film dove tante formiche si apprestano a vivere delineando una parabola nera continua. Il loro scopo è quello di vivere, procedere una dietro l’altra formando una fila ben ordinata, sono staccate dal resto del mondo, e rappresentano la linea di demarcazione tra il buio e la luce. E il tempo sospeso, quello che congiunge gli attimi, li serra. Tutto è fermo lì, in quelle scene di violenta catarsi cui sono sottoposti uomini e donne per la sola condizione di reietti, esclusi dalla definizione stessa di umanità. L’uomo dominerà il mondo, le bestie lo accompagneranno seguendo il suo passo, ne imiteranno i gesti e i costumi, se potranno.

 

     Una volta facemmo indigestione di mandarini: non era la madre ma la sorella spensierata che si lascia andare a imprese giocose, si fa trascinare dal suo istinto di bimba. Erano così succosi, turgidi, dolci: uno tirava l’altro e noi ne riempivamo le bocche ridendo, agitando le braccia e accennando qualche passo di danza. Era come me, aveva anche lei cinque anni, farfugliava parole insignificanti come fosse in preda all’alcol. Mangia, sono come le caramelle, mangiane ancora, vediamo chi riesce a mangiarne di più. La scorza tenera alimentava un braciere al centro di quella grande sala, emanando un odore acre e aromatico insieme. È l’odore intenso e costante dell’esistenza, che arde come quelle scorze che appassiscono subendo una tale trasformazione da non essere più rinvenute. In certi momenti quell’odore persistente si insinua dentro di me, m’invade corpo, mente, persino le vene, che sembrano gonfiarsi, farsi pregne. Allora subentra un rifiuto, una sorta di allontanamento, volontà precisa di separazione, di abradere del tutto i primi anni della mia infanzia e cominciare a vivere a cinque anni.

     Non so quanti mandarini riuscimmo a mangiare, ma di sicuro rammento gli effetti devastanti che ne conseguirono: Lei, la prima madre, ci trovò entrambe sfinite, spossate, in preda a forti malori dopo aver ricacciato tutto ciò che avevamo ingurgitato. Distese sul divano, piegate dal dolore, l’una di fronte all’altra, occhi sgranati e lucidi, vedemmo calare un’ombra su di noi.

     — Che succede, cosa avete combinato voi due? Clo, ti avevo detto di badare ai piccoli! Hai preparato la cena?

     Non riusciva a parlare, Clo. Corse di nuovo in bagno a vomitare, mentre Lei si preoccupava dello stato in cui era ridotta la stanza, e farfugliava parole che non ricordo.

     Quella sera fu molto difficile addormentarmi, il mio letto era posizionato accanto al muro bianco, un angolo cieco, confidente: amico ma anche ostile. Spesso parlavo con lui delle mie gesta alla discarica, del grande baule, della bimba con la bambola.

     Una notte d’inverno avevo molto freddo, avevo infilato persino la testa sotto le coperte, ma a un certo punto sentii che qualcuno tirava a sé le lenzuola: rimasi scoperta. Poi il suono del carillon e il profumo di talco. Era di nuovo quella bimba, che veniva a giocare con me. Mi porti con te? Mi fissava senza proferire parola, ancora una volta come se volesse dirmi qualcosa. Una scia di luce la avvolgeva e si insinuava con spinte e impulsi incontrollati sul capo che di tanto intanto reclinava, muovendosi con moti leggeri ma decisi. Gli occhi profondi ora erano dentro i miei, le tesi la mano e ancora: Mi porti con te?

     Continuavo a porle la stessa domanda senza ricevere risposta. D’un tratto si volse e sentii frusciare il suo abito di seta; provai a toccarlo, mi avvicinai, non si separava da quella bambola così bella ma la teneva stretta a sé giocherellando con i capelli morbidi. Avrei voluto chiederle di sua madre, dei suoi fratelli, della sua casa, ma sembrava aver fretta di andare via. Volevo andare anch’io via con lei, non so dove, ma avrei voluto farlo. Fin da piccola nei momenti difficili ho sempre avuto una via d’uscita: andare via. «Domani me ne vado», e così ero al sicuro quando mi stringeva la morsa d’un soffocante senso di vuoto e al tempo stesso mi sentivo un uccello in gabbia. Tutti abbiamo intorno una gabbia fin dalla nascita, la vita stessa è una gabbia: ci è dato muoverci entro confini prestabiliti, recinti in cui possiamo scorrazzare insieme ad altri viventi che spesso non vivono nemmeno, ma trascorrono il tempo a osservare il lento migrare dei propri pensieri che ignari vagano senza meta. Il nostro peggior carcere è il persistere ostinato delle convenzioni, dei topoi, delle reti d’ipocrisia e perbenismo intessute di continuo contro ogni tentativo di resa da parte della povera Penelope di turno. Per me quel “via” significava mondo aria respiro, liberazione da ogni catena. Strappo. È vero che si può ben fuggire da un luogo che c’imbraca con fili di ferro ma non si può evadere da sé stessi, dalle proprie costruzioni mentali, meccanismi sottili e ancestrali il cui dominio segna la distanza tra la vita e la morte.

 

     Chiusi gli occhi per liberare la mente dai logorii che sovente la affollavano e… la bimba non c’era più.

     Dove sei? Te ne sei andata, non mi hai portato con te?

     Perché era ricomparsa per poi sparire subito? Ormai eravamo amiche, non poteva lasciarmi così, senza avvisarmi. È uno strano gioco quello di chi compare e scompare; col tempo ci sia abitua, forse, o ci si rassegna. Mi distesi di nuovo sul letto e fissai il soffitto altissimo, occhi sbarrati in attesa di risposte, tentativi vani di ricostruire il percorso di una presenza impalpabile.

     Più tardi fui svegliata dal pianto insistente della piccola Carlotta, detta Lot. Aveva fame e la nostra mammina era impegnata in un’altra faccenda: Lei era era andata a lavorare, gli altri dormivano ancora beati. Feci per prenderla in braccio, ma subito Clo mi allontanò con fare deciso: me ne occupo io, tu hai solo cinque anni, io sono grande, è la mia bambina.

     Quella era davvero la sua bambina, perché aveva badato a lei fin dalla nascita, così come provvedeva a tutti noi giorno dopo giorno sacrificando la sua fanciullezza. Leopardi:

 

Dato che l’andamento e le usanze e gli avvenimenti e i luoghi di questa mia vita sono ancora infantili, io tengo afferrati con ambe le mani questi ultimi avanzi e queste ombre, di quel benedetto e beato tempo ,dove io sperava, e sognava la felicità, e sperando e sognando la godeva, ed è passato, né tornerà mai più, certo mai più, vedendo con eccessivo terrore, che insieme con la fanciullezza è finito il mondo e la vita per me, e per tutti quelli che pensano e sentono, sicché, non vivono fino la morte se non quei molti che restano fanciulli tutta la vita.

 

     Poco dopo mi preparai per andare a quello che allora si chiamava asilo infantile. Quando lasciai definitivamente quei luoghi passai a salutare la mia scuola, come mi aveva suggerito Antonio, e riuscivo a sentire in lontananza l’odore del rosmarino che frusciava dinnanzi al piccolo stabile, in quel giardino dove si udivano voci festose di bambini il cui unico intento era quello di giocare, ridere, divertirsi e godersi appieno la miglior parte della loro vita. Per anni mio padre ha continuato a condurmi davanti a quella scuola e alla «casa natìa» perché io conservassi il contatto con quei luoghi e con le mie radici. Poi capì che uno dei miei luoghi dell’anima era quel baule della discarica che nessuno aveva ancora portato via. L’ho immaginato talvolta solo, cupo, bagnato e corroso dalla pioggia che si abbatte senza perdono infierendo come il sale sulle ferite fino alla distruzione totale. Osservo la fuga prospettica in un affresco ormai sbiadito dal tempo.

 ASSUNTA SÀNZARI PANZA

BIONOTA 

 Nota per le sue numerose performance in terra irpina, ha pubblicato testi poetici in riviste cartacee e in diversi siti letterari, poi raccolti nel volume Lux. Nova et vetera (con prefazione di Gualberto Alvino, Torino, Robin Editore, 2022) premiato dalla giuria del concorso internazionale «Città di Montevarchi».


Commenti

  1. Veramente una bella storia della memoria, scritta in modo asciutto

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  2. Brava scrittura veloce incalzante ritmica immagini che si possono toccare e ognuno immaginare .Leggendo mi sono arrivati dei verdi scuri e luce dalle finestre tra muri grossi.Grazie.Federica Lorusso

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