Giovanni Pacini: le tre opere con soggetto ebraico: Ivanhoe – L’Ebrea – Ester d’Engaddi ( I parte) di Gabriella Minarini (MELODRAMMA)
MELODRAMMA
Gabriella Minarini
Giovanni Pacini: le tre opere con soggetto ebraico: Ivanhoe
– L’Ebrea – Ester d’Engaddi.
- 1832-1848: sedici anni «fra il fosco e il chiaro»
PARTE PRIMA
MELODRAMMA
Gabriella Minarini
Giovanni Pacini: le tre opere
con soggetto ebraico: Ivanhoe – L’Ebrea – Ester d’Engaddi.
- 1832-1848: sedici anni «fra
il fosco e il chiaro»
PARTE PRIMA
Giovanni
Pacini è stato il primo storiografo di sé stesso, e ne - Le mie memorie artistiche [1]- racconta la sua vita, piena di «Fiaschi, trionfi, pianti ed altri guai». [2] Da queste Memorie
abbiamo ereditato una importante testimonianza di storia in quanto la
letteratura su Pacini è poca e, anche laddove parlarne avrebbe avuto senso per
la continuità documentata, si è preferito scrivere di lui il meno possibile per
poi, dopo la sua dipartita cancellarne molte tracce, o tacere.[3] Anche Rossini, dopo la morte
del Maestro non si perita a chiedere a Marianna Scoti Pacini:
Amica Pregiatissima
Sebbene la malferma mia salute nol
permetterebbe, pura voglio (alla meglio) riscontrare la Sent.a Vostra
del 16 Cor.e la quale mi è prova non essere dimenticato dalla
Compagna del mio non abbastanza Compianto Pacini che io ho teneramente amato
qual fratello fino dalla mia infanzia, né fan fede me ne lusingo le poche
lettere a lui dirette nella nostra lontananza, Lettere che mi dite aver egli
consegnate e da voi ora possedute, e che vi prego non cedere in parte né in
totali a chichessia!!!
Conto
sulla vostra discrezione come voi dovete contare sull’istessa … dal
Tutto
Vostro
Rossini[4]
Ad
oggi, oltre alle Memorie abbiamo solo il volume Intorno a Giovanni
Pacini[5] (che racchiude validi
contributi sulla sua figura e al suo lavoro), due mie relazioni scritte per i Seminari
de «L’Opera Narrateur» a Parigi, e una relazione di Jesse Rosemberg che ha
trattato proprio - Ivanhoe - la prima opera scritta da Pacini per il
Gran Teatro la Fenice![6] In
quanto alle opere con soggetto ebraico: Ivanhoe – L’ebrea – Ester
d’Engaddi, nate nell’arco di sedici anni (1832-1848), a parte il contributo
di Rosemberg, troviamo poco di scritto e, quello che troviamo ce lo ha lasciato
proprio Pacini in alcune lettere all’editore Giovanni Ricordi, per perorare
la divulgazione dei suoi lavori, e nelle
sue Memorie. Ho dovuto scavare a fondo, e in varie direzioni, per
trovare qualche inedito scritto sul Maestro e su queste Opere, cercando anche negli
scritti di amici e colleghi suoi contemporanei e nelle recensioni delle varie
Gazzette Musicali. Con queste poche notizie abbiamo cercato di ricostruire la
genesi e la produzione delle opere a tema ebraico di Pacini, di cui due sono
notevoli per la similarità e la consistenza drammaturgica: l’Ebrea e l’Ester
d’Engaddi.
Mi piace sottolineare, proprio per questo
apparente disinteresse nei confronti del Maestro, quello che Arthur
Pougin scrive nel 1866 su Le Ménestrel,[7] cioè: che tra i
musicisti nati sul declinare del Settecento, Carlo Coccia e Rossini, Donizzetti
e Mercadante «Seul Pacini, Giovanni Pacini l’ami et le collaborateur de
Rossini est encore sur la brèche et ne semble nullement disposé à prendre sa
retraite»: erano passati tanti «Fiaschi,
trionfi, pianti ed altri guai» ma lui non si era ancora arreso.
Il Maestro morirà poco più di un anno
dopo, il 6 dicembre 1867, riuscendo a mettere in scena due opere in - prima
assoluta - in due dei più importanti teatri d’Italia: il Don Diego di Mendoza[8] alla Fenice di Venezia, e la
Berta di Varnol al San Carlo di Napoli.[9]
Ivanohe! La genesi, la scelta del soggetto, il ‘cambio’ del
poeta, in inscena.
Quando
Pacini fu ‘indagato’ per scrivere un’opera nuova per il Gran Teatro la Fenice aveva
già scritto venticinque opere di cui tre per il San Moisé e il San Benedetto,[10] teatri minori di Venezia.
Per arrivare a essere scritturato per il massimo Teatro lagunare la strada sembrava
essere ancora lunga. Vediamo in proposito cosa scrive il Maestro nelle Memorie,
partendo dalla Fiera del Santo di Padova del 1818: «La prima opera della
stagione fu l’Elisabetta del divin Pesarese: io dava quindi la mia Atala. L’esito
del primo spettacolo [Rossini con Elisabetta regina d’Inghilterra][11] fu straordinario». Pacini
racconta la sua paura pensando che accoglienza avrebbe potuto avere il suo
lavoro dopo il grande successo di Rossini ma, come poi scrive: «L’esito del
primo spettacolo fu straordinario. […] ma ebbi a gloriarmi di un altro trionfo
[…] L’Adelaide e Comingio,[12] L’Atala[13]
e la Sacerdotessa d’Irminsul[14]
furono ammesse all’onoranza di riprodursi su tutti i teatri della nostra
penisola, escluse però le scene de’ R.[eal] Teatri di Napoli, di Torino, della
Scala di Milano e della Fenice di Venezia, e ciò perché [io] non godeva ancora
il nome di maestro di cartello»;[15] Pacini, forse nella foga
del racconto, fa un po’ di confusione con la cronologia perché la Sacerdotessa
d’Irminsul andò in scena nel 1820, cioè due anni dopo i fatti che racconta. A
risolvere il problema a Giovanni Pacini, di godere «del nome di Maestro di
cartello» fu il padre Luigi, stimato basso, sostituendo alla Scala il basso-buffo
De Grecis[16]
che, cadendo sul palcoscenico, si era fracassato il «volto all’antiprova
generale dell’opera nuova del M.° G[y]rowetz […] Il Finto Stanislao».[17] Lugi Pacini accettò di
sostituirlo (tra l’altro doveva farlo in soli tre giorni) ma chiese che il
figlio fosse «scritturato per dare un suo lavoro in [quella] stagione».
L’impresario Ricci[18] era indeciso, ma Luigi
Pacini era molto gradito al pubblico e alle Autorità che dirigevano la Scala e
fu accontentato.[19]
Così Giovanni Pacini entrò nel giro dei teatri di Cartello che voleva dire
avere il ‘passo’ per le stagioni più importanti in Italia e all’estero. Per la
sua prima assoluta alla Scala Pacini scrisse Il barone di Dolsheim[20] che andò in scena
il 23 settembre, cioè solo dopo quarantotto giorni dalla prima del Finto
Stanislao.
Dal momento
dell’ingresso nel circuito dei teatri di Cartello Pacini compone quattordici
opere, dieci per la Scala e quattro per il San Carlo. Il Gran Teatro la Fenice
sembrava tacere, anche se Pacini era presente su quella piazza per le varie
amicizie che si era creato, vedi quella con Giovanni Perucchini, presidente
della Corte d’appello in Venezia, poeta e musicista dilettante. Il suo salotto
fu luogo di incontri importanti, per il mondo artistico e musicale, e per
quello economico-lavorativo; nessun artista passava dalla città lagunare senza
chiedere una presentazione a lui, che fungeva da ‘lunga mano’ per il teatro di
San Benedetto e che, con le sue vaste conoscenze creava le condizioni per
l’ingaggio degli artisti compreso quelli per la corte di Pietroburgo. Ricordiamo
che Perucchini fu presentato nel 1822 allo zar Alessandro I, durante il
Congresso dei Grandi «e dopo la chiusura dei lavori, Perucchini accompagnò il
sovrano russo a Venezia per una visita privata di qualche giorno insieme
all’Imperatore d’Austria e al Re di Napoli».[21]
Finalmente
arrivò la richiesta per l’opera nuova alla Fenice. Il 23 novembre 1831 su Il
Censore Universale Dei Teatri viene pubblicato quello che sarà il programma per
il Carnevale e la quadragesima 1831-1832. Scrive il Censore:
alla Fenice poi, se di espressamente composta per
quelle scene vi, sarà un’opera sola, altre due per quel pubblico affatto nuove
vi si daranno, ed ambe di comprovato valore intrinseco e di sempre ottenuto
effetto, quali sono l’Anna Bolena e l’Ultimo giorno di Pompei, con aggiunta dei
Capuleti e Montecchi per quarta, che fu colà tanto fortunata […] Il felice
creatore dell’Ultimo giorno di Pompei lo sarà anche dell’opera nuova, alla
quale il riputatissimo e chiarissimo poeta nostro Luigi Romanelli piacque dare il titolo di Gusmano d’Almeida.
E ben ragione voleva che quel fecondo Pacini, il quale, giovine ancora, ha già
percorso una si vasta ed onorata carriera, provvedendo di spartiti innumerevoli
[…] i più grandi nostri e forestieri teatri, invitato fosse a cogliere una
nuova e non meno delle precedenti illustri corone su quelle scene, ove tutti i
più nomati ingegni nella musicale composizione bellissime prove offrirono del
loro talento. Acclamato Pacini le tante volte a Napoli, a Roma, a Milano, non
dovrebbe esserlo anche a Venezia? Preceduto dunque dal suo sempre riuscito
Pompei, tutto il diritto ha egli di promettersi un’egual sorte col suo Gusmano.
Né i mezzi gli mancheranno di arrivare al suo scopo […][22]
In seguito continua ‘snocciolando’ i nomi dei cantanti
che la Fenice aveva scritturato per quella stagione: la Rosalbina Carradori
Allan, Giuditta Grisi, Domenico Reina, Domenico Cosselli, Anna Del Sere, Giuseppina
Merola, Ottolino Porto che però saranno sostituiti da Natale Costantini e
Alessandro Giacchini.
Un mese
dopo il Censore pubblica la lista dei cantanti componenti il cast della Fenice e
le opere in cartellone: l’opera di Pacini ha cambiato nome, ora è presente come:
«Opera terza nuova: parole di Romanelli; musica di Pacini: I
Portoghesi in Africa». Pacini, nelle memorie liquida con poche righe questa
scrittura: «Nel carnevale successivo 1832 composi per il gran teatro della
Fenice di Venezia l’Ivanhoe, fatto il che conseguì successo di
pieno entusiasmo». [non spiegandoci che fine avessero fatto I Portoghesi].
«Ascrivo a mia gloria il poter dire che ebbi interpreti le famose Carradori
e Giuditta Grisi, il tenore Reina, cantante pieno d’anima ed attore perfetto,
ed il celebre Coselli. Un coro della precitata opera si rese talmente popolare
nell’incantevole città, che anco di presente vien ripetuto nei giorni
carnevaleschi dai figli della laguna».[23]
Pacini
sembra quasi scherzare ma oggi sappiamo quanto sia stata importante questa
scrittura, sia al momento che per il suo futuro. Il Maestro infatti creò una
bella intesa con la nobile presidenza del Teatro la Fenice e, in momenti
difficili dove sembrò venirgli meno il sostegno della Scala l’appoggio della
Fenice e quello del San Carlo furono determinanti per il prosieguo della sua
carriera. Vediamo quel minimo di carteggio intercorso tra il Maestro e la
nobile presidenza del teatro la Fenice.
Pacini era
reduce dalla messa in scena de Il Corsaro[24] a Roma e dal peso dalla
messa in scena de L’ultimo giorno di Pompei[25] a Parigi dove, come lui
stesso scrive «La critica più severa venne fatta al mio lavoro da tutto il
giornalismo francese ed in special modo dalla Revue Musicale redatta dal dotto sig. Fetis[26]. Avrei dovuto avvilirmi
nel leggere il poco lusinghiero elogio del precitato critico, ma apprezzando
alcune giuste osservazioni, posi in un canto ciò che riguardava lo spirito di
parte e di nazionalità anziché l’arte, per cui ripetei a me stesso: non ti
smarrir per via, ma segui e spera». Fétis fu il fautore dei problemi che
portarono, intorno al 1850, al ‘caso Pacini’ che rischiò di mettere in pericolo
il rapporto di Pacini con l’editore Ricordi.
La prima
lettera di Pacini che abbiamo è del 9 aprile 1831. Scrive Pacini al Presidente
del teatro la Fenice:
Eccellentissimo Signore
Milano, 9 aprile 1831.[27]
Avendo convenuto con
l’Impresa[28]
di codesto Teatro a mio piacere la Scelta del poeta, io non avrei a chi meglio
saputo indirizzarmi se non al Sig. Romanelli[29] autore di moltissimi
eccellenti libri d’opera, e di letteratura. Io mi lusingo di ottenere
l’approvazione di codesta Direzione, la quale certamente conoscerà di fama il
detto autore. Sottopongo ancora a Lei Signore l’argomento dell’opera che ho divisato scrivere preso da uno
dé bellissimi Romanzi di Walter Scott[30] cioè l’Ivanoe.[31] di cui però desidero
sentirne il di lei parere, e quello di codesta egregia Direzione. Siccome il
suddetto Sig. Romanelli non può allontanarsi da Milano; invece, avendo
l’Impresa obbligato a farlo trovare alla Piazza[32] per mettere in Scena
l’opera,[33]
così io priego Lei distinto Signore a volersi interessare presso la Direzione
onde l’autore non sìì obbligato a portarsi costì, dichiarando che io stesso mi
prenderò l’impegno di assistere a tutte le prove di Scena, e fare le veci del
suddetto Autore. Voglio lusingarmi di essere favorito tale mia domanda, e
nell’attenzione d’un riscontro in proposito sono a Segnarmi salutandola con
tutta la stima, e considerazione
Obb.
[ligatissimo] Osseq. [ioso] Servitore
Il M° Giovanni Pacini
Il
Maestro ha «divisato» l’Ivanhoe come opera per la stagione 1831-1832 ma la
lettera che abbiamo, in data 18 maggio 1831, ci dice che la Presidenza non
doveva essere soddisfatta della scelta infatti, il 18 maggio, Pacini risponde così
alla presidenza della Fenice:
Milano, 18 maggio
1831Mi faccio un preciso dovere di rimetterle pregiatissimo Signore due
argomenti[34]
per l’opera da mettersi in versi dal Sig. Romanelli. Io preferirei l’argomento
N. 2.[35]
poiché a mio parere è il più interessante. Lascio però sempre la scelta alla
Nobile Direzione pregando soltanto di decidersi al più presto possibile, onde
dare principio al travaglio. Si compiacerà dirigermi riscontro = con sopra
coperta diretta al Sig. Gaetano Pirola = Milano,[36]
poiché sarà probabile che io mi assenti per qualche giorno da questa Capitale[37]
Ho l’onore di salutarla con tutta la stima
e considerazione
Suo obb. Servo
Giovanni Pacini[38]
Il 21 maggio, per mano del segretario del
teatro, Giuseppe Berti, arriva la risposta al gradimento del soggetto con
allegato l’Argomento inviato in Fenice da Luigi Romanelli. È il Gusmano di Almeida. Scrive
Giuseppe Berti a Pacini:
La Presidenza della Società
Proprietaria del G. Teatro la Fenice approva, che il Dramma nuovo che deve
esser scritto dal S. Romanelli[39] e posto in musica
dal S.r Maestro Pacini sia
tratto dal soprascritto Argomento sempreché siano ovviate quelle somiglianze
nella condotta dell’azione, che potrebbero far comparire un nuovo Crociato[40]
giacché lo storico, che la precede offre troppe parità di circostanze col
sogetto trattato dal Rossi[41] per
Mayerbeer.[42] Tanto servirò di
riscontro al S.r Maestro Pacini per la sua ricerca esternata a
questa Presidenza col suo foglio 18. corrente nel momento, che la stessa le
rinnova gli attestati della di Lei stima, e considerazione.
Venezia 21. Maggio 1831
……………. G Berti Presid [43]
Questa è la decisione
che la nobile Presidenza manifesta a Pacini. L’Ivanhoe non è stato
accettato dalla «terribile Nobile presidenza»! Tutto sembra tacere ma alla fine
di maggio l’impresario Alessandro Lanari scrive alla Fenice:
Ho l’onore di prevenire la Nobile Presidenza che in questo stesso giorno Mda Carradori mi ha rimesso il suo Contratto firmato, mediante il quale è rimasta meco impegnata per Cantare nel prossimo Carnevale in codesto Gran Teatro la Fenice. La detta Mad. Carradori, ha voluto per patto di Contratto la scelta di debuttare nell’Opera = L’ultimo giorno di Pompei[44] = condizione da me con piacere accettata, essendo questa una delle Opere Classiche del Maestro Pacini. Sarei dolentissimo se prima del Carnevale, questo spartito venisse prodotto su' le Scene di alcuni dei Teatri di codesta Capitale; per cui prego caldamente la Nobile Presidenza di tenere nel più gran segreto quanto ho l'onore di significarle, e se ciò non valesse a prevenire il temuto inconveniente, di adoperare ogni suo mezzo perché l'opera predetta non venga eseguita.
Debbo
pure prevenire la Nobile Presidenza che ho scelto per prima Opera da
rappresentarsi nel Carnevale L’Anna Bolena del
Maestro Donizzetti[45] nella quale debutterà la
Sig.ra Giuditta Grisi.[46] E pieno del più profondo
Rispetto ho l’onore di segnarmi Suo Obb. Servo
Aless.o
Lanari[47]
La chiarezza di Lanari nelle sue lettere è veramente unica;
ha una bella scrittura, un fraseggio tecnico-amministrativo e artistico di
grande competenza e levatura e, soprattutto, sa anticipare i problemi, gli
intoppi che, in quel momento storico, non erano pochi. Come sottolinea Marcello
Conati scrivendo del periodo che ci interessa:
«Il boom degli anni 1830 coincide inoltre
con uno dei periodi più intensamente produttivi, se non forse il più produttivo
in assoluto, della storia del melodramma. Esso infatti comprende la produzione
maggiore di Bellini (dalla Sonnambula e dalla Norma alla Beatrice di Tenda, di
Donizetti (dall’Anna Bolena e dall’Elisir d’amore alla Lucia di Lammermoor,
alla Lucrezia Borgia e al Roberto Devereux) […] Inoltre esso comprende opere di
autori minori destinate a durare per alcuni decenni nel repertorio corrente,
quali I falsi monetari di Lauro Rossi, Ines de Castro di Persiani, Nina pazza
per amore di Coppola, La prigione di Edimburgo di Federico Ricci, Saffo di
Pacini».[48]
Per
la precisione, ricordiamo che l’opera Saffo è del 1840 ma Pacini, già dal 1825
con L’ultimo giorno di Pompei, aveva riscosso un gradimento di pubblico
non indifferente. Oltre il Pompei avevano avuto fortuna Gli arabi
nelle Gallie (1827) - opera usata spesso come ‘rimpiazzo’ quando nei teatri
‘cadeva’ un’opera nuova -, Margherita regina d’Inghilterra (1827), I
fidanzati (1829). Questo solo per ricordare che la sua presenza sui
palcoscenici Italiani e esteri non era proprio un caso.[49]
Continua Conati:
Si conclude infine [il boom degli anni 1830] con l’apparizione di un autore destinato a dominare il teatro musicale italiano nel restante corso del secolo: Giuseppe Verdi, il cui esordio avviene alla Scala alla fine del decennio, nel novembre del 1839. A fare le spese di questa abbondante produzione e di un rinnovato gusto per il teatro musicale […] sono gli autori del primo Ottocento: Mayr scompare dal repertorio; del pari Morlacchi; Paër, Pavesi e Generali resistono sporadicamente con alcuni dei lavori più fortunati […] ma all’alba del 1840 anche il loro nome esce dai cartelloni. Perfino la fortuna di Pacini, il compositore che nel corso degli anni 1820 sembrava destinato a raccogliere l’eredità di Rossini, subisce un calo di presenza verso la metà degli anni 1830: verrà poi nel 1840 la Saffo a riscattare, in parte la popolarità del musicista catanese».[50]
Questo boom degli anni 1830, nonostante la copiosa offerta compositiva, non agevolava le richieste di lavoro da parte dei teatri della Penisola e dall'Europa, grandi o piccoli che siano stati. Come Lanari speifica nella sua lettera al seretario Berti: «Sarei dolentissimo se prima del Carnevale, questo spartito venisse prodotto su’ le Scene di alcuni dei Teatri di codesta Capitale»,[51] misura la pressione alla quale erano sottoposti i lavoratori dello spettacolo e i vincoli che avevano i teatri. Si ricorda che le opere date nei teatri più importanti (che erano opere nuove per quelle piazze) non potevano essere eseguite a meno di sessanta chilometri dal teatro di Cartello. Insomma: tutti ambivano a mettere in scena le ‘primizie’ musicali.
-
Dalla scelta dell’argomento al
libretto.
Tra
le lettere di Pacini con il Gran Teatro la Fenice, tutte del 1831, abbiamo
reperito anche l’elenco degli artisti proposti da Alessandro Lanari per
la stagione di Carnevale 1831-1832[52] alla Fenice. L’elenco è di tutto riguardo
così come potevamo aspettarci da un grande impresario come Lanari:
Elenco
degli artisti proposti da Alessandro Lanari per la stagione 1831-1832[53]
al teatro la Fenice.
ELENCO
N.
56
Degli artisti di
Canto, e Ballo proposti dal Sig.r Appaltatore Alessandro Lanari in
ordine dell’Articolo 4.to del Contratto oggi stipulato per comporre
le relative Compagnie per la Stagione di Carnovale 1831/32 del Gran Teatro la
Fenice, ed approvati dalla Presidenza della Società proprietaria di detto
Teatro e dal Nob.[ile] Sig. Co.[nte] Podestà.[54]
Per una prima
Donna
Lalande Merich[55]
Carradori
Allan[56]
Favelli Stefania[57]
Per un primo Mimo, Contralto
Grisi Giuditta[59]
Per un primo Tenore
Reina Domenico[60]
Per un primo Basso
Riondini Luigi[61]
Cosselli Domenico[62]
Per un Maestro di Musica
Bellini Vincenzo[63]
Coccia Carlo[64]
Pacini Giovanni[65]
Vaccai Nicola[66]
Si
dovrà dall’Appaltatore dare la preferenza al Maestro Bellini, qualora voglia accettare
la
scrittura, atteso l’impegno che ha di scrivere un’Opera alla Scala
Compositori
di Balli
Gioja Ferdinando[67] per comporre due Balli
Grandi del suo defunto fratello[68]
Primo
Mimo
Ronzani Domenico[69]
Dentro il venturo mese di
Aprile saranno dall’Appaltatore comunicati dalla Presidenza, li nomi da
approvarsi per la Coppia di Ballerini Serj, e per la Ballerina per le Parti, a
norma del sopra citato Articolo 4.to
Venezia li
[12] Marzo 1831
L’Appaltatore
Aless.o Lanari
Domenico
C: Morosini Podestà[70] purché sia eccepito
il
maestro Coccia, ammettendo se piace a Lanari il
di
lui vice Pavesi.[71]
P. Comarolo[72] Pres. Gio. Batta. Correr Pres.[73] Gius.e Berti Presid.e [74]
a
cui segue la prima lettera ufficiale (in data 9 aprile 1831) di Giovanni Pacini
come compositore per l’opera nuova, lettera che segna quello che sarà il forte
sodalizio tra Pacini e il Teatro lagunare.
Tutto, per mesi sembra tacere, o almeno non
abbiamo documenti fino a che, il 20 di agosto, Romanelli scrive a Pacini una
lettera in risposta a dei problemi da lui mossi sul Gusmano e dove
Romanelli ‘bacchetta’ il compositore per la sua ‘distrazione’, per la non
comprensione delle ‘azioni’ riguardo al testo, dimostrando così una non comune
conoscenza di come funzionavano i teatri! scrive il poeta:
Alla
tua degli 11 corr.e ricevuta dal Frontini[75] tu malgrado l’esagerate
tue proteste, vieni sempre fuori con desideri nuovi; e in questa maniera non si
finisce mai; ed io sono stanco di tanti cambiamenti, e riforme inutili. Eccoti
una prova della mia schiettezza da te lodata.
Nell’espormi il tuo desiderio, che io
inserisca nell’introduzione, il coro lamentevole dei prigionieri portoghesi,
adducendomi eziandio la ragione del poco
numero dei coristi, e del troppo
subitaneo travestimento, non hai
riflettuto, che abbiamo già sulla scena
il coro esultante del popolo
Mussulmano. Si conosce, che hai scritto
in fretta e che ad altro non hai pensato che all’innesto del sudd.o coro lamentevole
nell’introduzione, ed hai supposto senza avvedertene,
non già penuria, ma bensì
abbondante copia di
coristi. Se il nostro melodramma dovesse rappresentarsi in Parigi dove il numero dei coristi non è limitato,
come in Italia, io avrei prevenuto il tuo desiderio, in quella maniera che
avesse giudicata opportuna.
Posso
nulladimeno, far questa volta, che però sia l’ultima, appagarti con un ripiego,
col fare cioè, che il popolo Mussulmano, dopo i versi
È pur dolce il pianto espresso
Dall’eccesso-del piacer
Vada ad incontrare l’esercito vincitore, e
ritorni poi coll’esercito med.o, non più in abito da Mussulmano, ma
da portoghese, e in qualità di prigioniero; né perciò vi è bisogno d’altri
versi. I coristi però dovranno aver già le vesti portoghesi sotto le turchesche
per economia di tempo.[76] Può tutto ciò agevolm.
e eseguirsi, a condizione però che il coro lamentevole sia quello stesso
che ti ho mandato con quella sola alterazione verso il fine, che qui appresso
vedrai; e che cada dopo il verso
A
Zulmira, al figlio, e a te
C come tu mi scrivi, ma sibbene dopo 4
versi a tre voci
Ah!
questo non sente
Coraggio
pietoso
Chi
tenero sposo
Chi
padre non è!
ai
quali puoi aggiungere, se ti piace, in qualità di pertichini Agabet e Sofia, ed
anche il coro delle donne. Ai sudi 4 versi cadrà benissimo in
accomodo il coro lamentevole, che ti riscrivo per intero, anche indicarti le
attitudini della scena oltre all’aggiunta in fine. […] Volta il foglio e
troverai la stretta immutabile, giacché la stretta di prima non sarebbe più il
caso. Se io avessi a scrivere ancora un altro dramma, vorrei la condizione o
che il Maestro non partisse da Milano o che io lo componessi di seguito a mia
voglia entro un tempo determinato, e senza intelligenze per via di carteggio.
Addio, sono schietto, o no? [77]
L’Amico
Luigi Romanelli
Romanelli
nella sua lettera manifesta un certo risentimento nei confronti di Pacini,
secondo lui non attento a ‘leggere bene’ quello che il poeta scrive e a
chiedergli troppi cambi. Comunque il 23 novembre 1831 Il Censore Universale dei
Teatri annuncia che «Il felice creatore dell’Ultimo giorno di
Pompei lo sarà anche dell’opera nuova, alla quale il riputatissimo e
chiarissimo poeta nostro Luigi Romanelli, piacque di dare il titolo di Gusmano
de Almeida» ma, lo stesso Censore un mese dopo sulle sue pagine scrive: «Opera
terza nuova;[78]
parole di Romanelli; musica di Pacini: I portoghesi in Affrica».[79]
Dopo
un cambio di ‘argomento’ o perlomeno di titolo (non sappiamo le ragioni) dal
Gusmano di Almeyda si arriva (il 21 /12 1831) al - Il rinnegato portoghese[80] - sempre di Luigi Romanelli
ma, ancora in due mesi si arriva al cambio di argomento e di poeta: arriva L’Ivanhoe
di Gaetano Rossi. Ivanhoe (la prima opera di Pacini per il Gran
Teatro la Fenice) andò in scena il 19 marzo 1832. Non abbiamo a tutt’oggi
notizie su questo cambio repentino di poeta e soggetto ma, sulla pagina
solitamente dedicata al messaggio per il pubblico, viene minimamente spiegato dal
Rossi (o perlomeno ci prova) questo cambio di soggetto:
«Forza di non prevedute circostanze consigliò repentinamente il
cangiamento dell’ultimo Melodrammatico spettacolo. Era già completamente
composta la musica su apposita poesia. Un mese rimaneva all’epoca fissata. Si
dovea scegliere nuovo argomento, tesserne il Libretto, comporvi la musica:
tempo mancava a meditazione nel lavoro. Ma gli autori della musica, e delle
parole conoscevano la nobile indulgenza, il generoso incoraggiamento che alla
buona volontà suole accordare il Veneto pubblico, intelligente, colto e gentile
del pari. S’abbandonarono essi a si lusinghiera fiducia, e all’opera
s’accinsero. Ivanhoe, uno de’ più
vaghi storici Romanzi del celebrato sig. Walter
Scott venne scelto a subbietto del Libretto. Già bastamente noto, d’uopo
non ha di sunto preliminare. Qualche innovazione che vi si ritrovi, perdonata
verrà alle circostanze, all’appresto di teatrali situazioni. Onde a lieto fine
l’opera condurre s’immaginò di formare un solo personaggio di Lady Rowena, e
dell’interessante Rebecca. L’azione comincia al ritorno d’ Ivanhoe, sotto mentite vesti, da
Palestina al castello di Rotherwood».[81]
Purtroppo non possiamo sapere cosa siano
state queste «non prevedute circostanze» ma
recentemente abbiamo scoperto che, quello che dovrebbe essere stato il «nuovo
argomento, [da cui] tesserne il Libretto, comporvi la musica: [ma a
cui] tempo mancava a meditazione nel lavoro» in realtà era già stato
finito il 27 ottobre 1831. Se ancora il 21 dicembre si annunciava l’opera con
libretto di Romanelli le «non prevedute circostanze» devono essere
accadute tra l’apertura della stagione, cioè dopo il 26 dicembre e la prima
parte di gennaio. Questo però non spiega perché siano presenti una partitura -
rinvenuta all’archivio Ricordi e datata 27 ottobre 1831, e tre quaderni nell’archivio
di Pescia datati 1831 - da cui si può presumere che Pacini avesse già composto
l’Ivanohe ma che ancora, il 29 febbraio 1832, sul Censore universale, si
scriveva: «Ma questo stesso sig. Lanari, che prova sempre la massima delle
sue compiacenze in quella del suo Pubblico, prevedendo tardo l’allestimento
dell’opera nuova, perché la rinnovazione del libro non permise al maestro
Pacini l’incominciamento del suo lavoro che a gennaio avanzato» avallando
così la «Forza di non prevedute circostanze» scritto dal Rossi che però
dovevano essere solo il modo di celare le vere ragioni per aver cancellato il
Romanelli e il suo libretto.
-
Il grande fascino di Walter Scott
Quando Pacini si accinge a musicare Ivanhoe
è, con Il Talismano (1829) e I fidanzati (o Il conestabile di Chester)
del 1829, al suo terzo lavoro tratto dai romanzi di Walter Scott. Una forte
spinta a lavorare su libretti tratti da Scott deve averla data a Pacini sicuramente
anche l’Ivanhoé su musiche di Rossini e libretto di Émile
Deschamps e Gabriel-Gustave de Wailly, andato in scena a Parigi, al teatro
Odeon, nel settembre 1826, e La donna del lago andata in scena al San
Carlo nel settembre 1819, che ebbe in Europa e in America un discreto successo.
Scott viene considerato l'iniziatore del romanzo storico, cioè di un lavoro in cui si mescolano parti di storia e altre di pura invenzione. Nelle sue opere ci sono molti anacronismi e, in Ivanhoe, uno di questi è la connotazione delle due donne che, oltretutto, si somigliano per opposti (Rowena è forte della sua consapevolezza della sua nascita che, alle volte, la rende insofferente a qualsiasi regola; Rebeca è forte del suo essere rispettosa alle leggi della sua stirpe, e nell'amore verso il padre e verso il prossimo). Questi sono errori dovuti probabiblimente al fatto che Scott faceva quasi da speccho, per pensiero, linguaggio, e comportamenti ai personaggi che 'affollavano le sue pagine', come se fossero suoi contemporanei e non venuti dal passato o dal suo pensiero. Da quanto ha scritto si deduce che Scott era sensibile a quanto occorreva ad un operista: proponeva posizioni forti, varietà di affetti, risoluzioni scenicamente seducenti. Del resto, non bisogna stupirci di questi nodi forti, e riflettere su quanto ci ha lasciato scritto un grande del Novecento, Alfredo Casella: «Il teatro lirico è basato su un fatto straordinario, di natura totalmente inverosimile ed arbitraria: esso si poggia su personaggi che vivono cantando, per cui il teatro musicale non ha rapporti con la realtà e può spaziare nell’infinito della fantasia musicale»[82] e direi, anche storica. Ivanhoe si è rivelato perfetto e per la 'fantasia' musicale di Pacini e Gaetano Rossi è riuscito a estrapolare e condensare le interessanti ma intricate storie di vita che il lavoro di Scott espone ai lettori; dai 44 capitoli del libro ne ha fatto un Libretto in due atti, divisi complessivamente in 22 scene. I piani di lettura sono stati semplificati, ridotti al minimo i personaggi, creato un nuovo finale che ha voluto prediligere la vittoria del vero amore, come ricompensa a Rebecca e Ivanhoe che in Oriente si erano salvati a vicenda (e anche innamorati) e che Rossi, nel libretot, quando i due si ritrovano ci rivela in maniera semplice, ma scenicamente molto efficace perché mette a nudo i loro sentimenti. Nell'atto I, 3 Rebecca e il Menestrello si incontrano e si riconoscono, delicate sono le loro parole:
Rebecca e il Menestrello Ti ritrovo... ti rivedo
a2 (ravvisandosi) A me stessa/o appena il credo
I trasporti del mio core
Come, oh Dio! frenar non so
Rebecca - Tu cui deggio vita e onore!
Il Menestrello - Tu serbasti i giorni miei...
a2 - Ah scordarti mai potei,
Ah, scordarti mai potrò
La figura di Cedrico rimane forte, perde vigore e potere Ismael, padre di Rebecca, ma a lei rimane una forte determinazione che le concede di non arrendersi ai soprusi e alle voglie del templare Briano. Rossi ha però diminuito la parte che fa vedere la ricchezza economica di Rebecca, che in Scott è molto esibita, sia con la descrizione dei gioielli che indossa (perle, diamanti, abiti fini) ma anche con la possibilità di disporre senza permesso del padre di ingenti somme di danaro. Rossi, che ha diminuito la forza economica del padre Ismael (in Scott Isaac di York è un ebreo molto ricco) mette questo ‘potere’ nella forza che Rebecca usa per continuare a essere ‘colei che salva’ senza nulla chiedere. In Scott Rebecca regala a Rowena un gioiello importante, pregandola di accettare lo scrigno senza badare al contenuto dicendogli: «Voi avete potere, rango, autorità e influenza, noi abbiamo ricchezza, fonte della nostra forza e della nostra debolezza. […] pensate che io valuti questi scintillanti frammenti di pietra più della mia libertà, o che mio padre possa paragonarli all’onore della sua unica figlia?»[83], dando più valore al contenente, come valore affettivo del dono, e non al contenuto che per lei è solo un mero valore economico che non garantisce la salvezza. Rossi non ha voluto affrontare questo argomento facendo in modo che Ismael e Rebecca non abbiano una connotazione religiosa chiara, ma solo una ‘diversità’ che è, almeno all’inizio, solo un impedimento. È chiaro che il librettista qui si rimette alla benevolenza del pubblico che, tra chiacchere, cibo, vino e gioco, non sarà stato in grado, o forse non avrà neppure voluto, fargli un appunto.
Il finale è
piuttosto scontato rispetto a Scott, l’agnizione che ricompone ciò che era
stato da anni scomposto, dando la possibilità di una risoluzione dell’amore tra
Rebecca (riconosciuta cristiana non sapendo
per quasi due Atti di che religione fosse) e Ivanhoe; e la vittoria ‘umana’
(Ivanhoe che uccide in duello Briano) non è sconvolgente come la morte di Brian
vittima della lotta con sé stesso, cosa che, se da una parte ci può lasciare
attoniti e perplessi dall’altra ci indica, nonostante quanto letto in Scott, che
in Brian de Bois-Guilbert viveva ancora una stilla di umanità.
Il Censore Universale, già il 28 marzo, tramite la ‘penna’ del suo Estensore, ci delizia con un ampio articolo che riguarda lo spettacolo e il Teatro tutto, fermandosi anche a fare i complimenti allo scenografo Francesco Bagnara![3] Scrive Previtali:
Ivanhoe,
melodramma in due atti, del sig. Rossi, il quale dà al suo lavoro il titolo di
Parole, dopo di aver lungamente in altri deriso questo epiteto, che pur più che
ad altri è giudiziosamente collocato in fronte alla sua compilazione, Ivanohe è
l’opera alle sillabe della quale applicò il valoroso Pacini le sue note. E ben
di valoroso, anzi di valorosissimo è dovere di qualificarlo per questa nuova
sua creazione, giacché a fronte anche di tante e tante altre estimatissime e
sempre fortunate sue produzioni, questa dai non intelligenti è gustata fino
all’entusiasmo più trasportato, e dagli intelligenti riputata viene fra le sue
primarie primissima, riconoscendo in essa la riunione di tutto ciò che
costituisce il pregio di un classico melodramma; vale a dire originalità,
abbondanza e gusto di idee, e magistero di profonda studiata e complicata
elaborazione. Il successo, dunque, dell’Ivanhoe fu ed è, per unanime e da
nessun singolo voto contrastato giudizio, quello del più glorioso del più
magnifico dei trionfi, senza che nessuna parzialità, od impegno […]
Questa
bellissima prima sera fu quella del 19 marzo, ed ecco l’andamento di questa
festeggiata esecuzione. Le voci già divulgate sul gran merito di questa musica
fecero acclamare il maestro al suo presentarsi al cembalo: con più di una
ragione ancora fu egli acclamato dopo una formale e ben travagliata sinfonia.
Nell’introduzione ebbe applausi veementi la cavatina della Grisi, e gli ebbero
quindi con essa eguali l’egregio Cosselli e la brava Del Sere, con doppia
fortissima chiamata alla fine. Infiniti plausi salutarono poscia la Carradori,
prima della sua cavatina per la ricuperata ed a tutti preziosa sua salute, dopo
per la delicata esecuzione del pezzo: segue il duetto di queste due valorose,
il largo del quale comandò gli applausi, ed alla magica stretta non fu d’uopo
di comandarli, ed anche questo ebbe due belle chiamate: non fu poi possibile di
lasciare senza plausi un coro incantevole; ed ecco restituito a tutto il
mirabile suo vigore, ed anzi più che mai vigoroso l’intrepido Reina, che col
più gran possesso e spontaneità di canto e declamazione destò il vero furore
colla deliziosa sua cavatina. Nel lungo susseguente finale, e finale vero, che
presenta un quadro di varj colori con geniale […]
di parti a pieno e sviluppato intreccio concertante ebbe il valentissimo
compositore la corona del saper magistrale. Di questo pezzo l’animatissima e
piacevolissima stretta suscitò tutti gli evviva, ed interminabili evviva, per
cui fra i clamori ed urli tre volte solo e due altre volte co’ suoi cantanti
apparire dovette l’incoronato maestro sul proscenio dopo caduta la tela. Un
terzetto molto […] e di ottima fattura è il primo pezzo del second’atto: questo
non ebbe alla […]
Il
sempre commendato Cosselli celebrare si fece poscia colla Grisi in un gran
duetto, del quale segnatamente il largo rapisce, ed anche questo ebbe due
energiche chiamate. Con pari energia, dopo d’essere stata ascoltata colla più
interessata attenzione, acclamata venne la grand’aria della Carradori, cantata
anche questa colla solita amabilità. Altra corona di premio magistrale guadagnò
quindi Pacini per uno stupendo quintetto della più felice ispirazione, e
finalmente l’ultimo brillante a questo gran gioiello fu imposto dalla Grisi
coll’energica ed incantevole esecuzione della sua squisita aria finale. Calato
il sipario tre volte sul proscenio l’intiero Pubblico, esultato fino al
fanatismo, volle al proscenio l’idolatrato maestro, tre volte volle anche i suoi
virtuosi. In mezzo a questo gioviale trambusto si fece animo di comparir sulla
scena anche l’autore delle Parole; ma se non esso, ben distintamente ed anzi
due volte chiamato vi fu il pittore Bagnara per le superbe sue scene. Fra tanti
plausi quanti non si dovettero all’appaltatore Lanari, che con tanto gusto e
sfarzo decorò questo spettacolo di ricordanza indelebile ai Veneziani? Quanti?
Nessuno. Ogni cosa da lui allestita porta sempre lo stesso aspetto di
magnificenza e buon gusto; nulla vi è qui per caso di straordinario, e perciò
come il valore Pubblico. Ma il maestro, o fosse modestia, o sazietà di trionfi,
od altra ignota causa, stimò opportuno in onta alle date lusinghe, di fuggire a
questa nuova apoteosi; poiché anche la gloria (intendo la teatrale) ha i suoi
incomodi, specialmente in Venezia. Il signor Mares, primo violino e direttore
di quell’orchestra, compose appositamente un gran concerto, in cui si esso
ciascuno dei primarj professori diedero prova di molta bravura: tanto la
composizione quanto l’esecuzione furono coronate di clamorosi applausi, come lo
fu anche il bellissimo coro del second’atto dell’Ivanhoe, che questi coristi
diretti dal professor Carcano cantarono, come al solito egregiamente; e fu
certamente un lodevole slancio d’amor patrio quello che trasse gli spettatori
ad esigere esclusivamente a questi due pezzi l’onor della replica. Le signore
Carradori e Del Sere, i signori Reina e Cosselli si riprodussero in quella sera
con varj pezzi, e confermarono nel Pubblico la preesistente idea del loro
valore. Il venire encomiando i molti pregi, che in vario grado distinguono
tutti questi attori-cantanti, sarebbe opera soverchia ed inutile, da che nel
corso di tutto il carnovale ebbero, e il Pubblico ampio campo di apprezzarli, e
i giornali abbondante materia di lodarli. Ma, perché nuova su quelle scene,
merita particolare menzione l’egregia prima donna. signora Elisa Tacconi. Essa
cantò col sig. Cosselli un duetto della Sposa fedele di Pacini, e sola il rondò
della Donna Caritea di Mercadante, e quello dell’Amazilia parimenti di Pacini.
Ella eseguì tutto con quella sorprendente facilità, con quella sicura
intuonazione, e con quella bellissima voce, qualità tutte che regolate da
ottimo metodo formarono in quella sera il diletto e l’ammirazione del Pubblico
veneziano; e segno ben manifesto ei ne diede coi più sinceri e prolungati
applausi, e colle numerose chiamate sul proscenio. Preceduta da chiara fama
questa giovane attrice-cantante era stata da quell’appaltatore, sig. Lanari,
dopo i costanti trionfi da lei ottenuti sulle scene di Bergamo, invitata su
quelle più famose della Fenice, ond’esservi nella nuova opera di Pacini
sostituita alla signora Carradori, la quale, in causa di sopravvenuta malattia,
era stata per medica sentenza dichiarata pel resto della stagione fuori di
combattimento. Ma la comparsa di questa nuova attrice operò improvvisamente
quella guarigione, che gli Esculapj della Fenice avevano indarno e con tante
cure tentato; e la signora Carradori passò dal letto alla scena per sostenervi
colla bravura di lei propria la parte di Rebecca, la forma della sua scrittura,
come prima donna assoluta, la signora Tacconi avrebbe potuto rendere inutile
l’avvenuto miracolo, giacché a lei spettava il diritto di cantare nella nuova
opera; ma consigliata da alcuni amici, e più da quella modestia, che tanto
abbellisce in lei gli altri suoi doni, cedette il passo alla Carradori,
rispettando in lei, oltre il molto merito, anche l’anzianità nella professione.
Questo volontario sacrifizio d’amor proprio, questa specie di spontanea
abnegazione di sé stessa, e più di ogni altra cosa poi la maestria da lei
sfoggiata nell’Accademia, le cattivarono ogni cuore, e le procurarono tanto
dalla parte infanatichita, quanto da quella rimasta calma del Pubblico veneziano,
un lusinghiero e ben meritato trionfo.[4]
Abbiamo letto come la
prima opera di Pacini per Venezia fu un successo che continuò fino alla fine
della stagione di Carnevale e Quadragesima così come, il 31 Marzo 1832, ampiamente
si legge ancora sul Censore Universale Dei Teatri:
«In conferma di quanto per onore del vero ho
dovuto esporre nel mio numero precedente sul conto della nuova opera di Pacini,
gli ulteriori ragguagli mi avvisano che tutte le rappresentazioni dell’Ivanhoe
succedute alla prima non furono che una serie di trionfi pel celebrato maestro
ed anche per gli acclamatissimi suoi cantanti. La massima premura dei Veneziani
era interessata ad inventare nuove maniere di manifestare il tutto nuovo
diletto da essi gustato nell’ascoltare questa deliziosissima musica. Non si aspettò
l’ultima sera per onorare un compositore, capace d’infervorare ogni suo
spettatore d’un tanto entusiasmo, con una specie di apoteosi. Crescendo di
questo pregiatissimo lavoro l’effetto alla seconda sua esecuzione, festeggiato
fu esso alla terza, oltre alle solite fragorosissime acclamazioni e ripetuti
inviti sul proscenio, con belle poesie, ritratti sollecitamente disegnati e
litograficamente impressi, e copiosissima pioggia di freschi odorosi fiori; ed
i professori stessi di quella grande orchestra, per rendere giusto omaggio ad
una maniera elaborata con tanto ingegno, si recarono dopo lo spettacolo
all’abitazione del maestro, e sotto le sue finestre gli dedicarono una
magnifica serenata, assistita da numeroso concorso di ogni ceto di dilettanti,
che interromperano quelle scelte suonate con gli evviva più clamorosi. Con
questa effervescenza di fanatismo furono ascoltate tutte le recite rimanenti,
delle quali quella del sabbato 24 marzo fu l’ultima, che fu anche di tutte la
più strepitosa.[5]
[1] G. Pacini, Le mie memorie artistiche,
Firenze, G.G. Guidi Editore di Musica, 1865.
[2] Ivi, p. 148.
[3] Vedi lettera (del
23 marzo 1868) di Gioachino Rossini a Marianna Scotti-Pacini, [Aut.: BCMP - 32 - 22]
[4] Lettera di G. Rossini a Marianna
Pacini Scoti, Parigi 19
marzo 1868. [Pescia – 32-34].
[5] Intorno a
Giovanni Pacini, a cura di F. Capra,
Studi Musicali Toscani, Pisa, Edizioni ETS, 2003.
[6] J.
Rosemberg, Jewish Dyads and Gentile Triads: Giovanni Pacini's Ivanhoe (1832)
as Forerunner of Italian Philojudaic Opera. Quaderni Musicali
Marchigiani 16, Scritti e Ricerche per
gli ottant'anni di Elvidio Surian. 2020, 395-428.
[7]Le Ménestrel, Musique E Théatre – J.- Heugel (direttore) - J. D’Ortigue (redattore), 1048 – 33me
Année – n. 48, 28 Octobre 1866.
[9] G. Pacini, Berta di Varnol, San
Carlo, Napoli, 6 aprile 1857.
[10] Bettina vedova, San Moisé
1815, L’ingenua, San Benedetto 1816, La sposa fedele, San
Benedetto 1819.
[11] G.
Rossini, Elisabetta regina d’Inghilterra, Napoli,
San Carlo, 4 ottobre 1815.
[12] G. Pacini,
Adelaide e Comingio, Milano, teatro Re, 30 dicembre 1817.
[13] G.
Pacini, Atala, Padova, Nuovo, 7 luglio 1817.
[14] G.
Pacini, La sacerdotessa d’Irminsul, Trieste, teatro Grande, 11
maggio 1820.
[15] Ivi, pg. 20.
[16] N.
De Grecis (1773-1827-30).
[17] A.
Gyrovetz, Il Finto Stanislao, Milano, Scala, 5 agosto 1818.
[18] F.
Benedetto Ricci.
[19] Ricordiamo che in quel periodo i
consoci del Ricci erano Domenico
Barbaja, Carlo Balocchino, e Giovan B. Villa; questo gruppo di impresari avevano
interessi anche al San Carlo, il massimo teatro napoletano, dove Pacini padre aveva
lavorato, e lavorava molto, e Pacini figlio si avviava a calcarne le orme oltre
a dare, in quel periodo, un aiuto musicalmente importante a Rossini anche lui
presente sulla piazza napoletana.
[21] A.
Giust, Un nobile Veneziano in Europa, Teatro e musica nelle carte
di Giovan Battista Perucchini, a cura di M.
Rosa De Luca, G. Seminara, Carlida Steffan. Lucca, LIM, 2018, pp.
79-104.
[22] Il censore universale dei teatri,
[23] Memorie, p. 78
[24] G.
Pacini, Il corsaro, Roma, Apollo, 15 gennaio 1831.
[25] G.
Pacini, L’ultimo giorno di Pompei, Napoli, San Carlo, 19 novembre
1825.
[26] F.
J. Fétis (1784-1871).
[27] Lettera di Giovanni Pacini alla Presidenza del teatro la Fenice,
Milano, 9 aprile 1831.
[28] L’impresa di A. Lanari.
[29] L.
Romanelli, librettista (1751-1839). Romanelli aveva già scritto per
Pacini i libretti di cinque opere, di cui quattro andate in scena, in prima
ass. al Teatro alla Scala: La Vestale,
6 febbraio 1823; Isabella e Enrico,
12 giugno 1824; La gelosia corretta,
27 marzo 1826; Gli arabi nelle Gallie,
8 marzo 1827 e Il rinnegato portoghese,
nel 1831, mai rappresentato.
[30] W.
Scott, scrittore, poeta e romanziere (1771-1832).
[31] W.
Scott, Ivanohe, Archibald Constable Editore, Edimburgo,
1820, 3 voll.
[32] In questo caso - la piazza - sarebbe
il Teatro la Fenice di Venezia.
[33] L’Ivanohe andò in scena a Venezia, Fenice, il 19 marzo 1832, su
libretto di Gaetano Rossi.
[34] Uno di questi era
il Gusmano de Almeida, tratto dalla tragedia di Cosimo Giotti (Firenze, Giuseppe
Luchi libraio). Pacini lo accantonò a favore dell’Ivanhoe di W. Scott.
[35] L’Ivanohe.
[36] G. Pirola, violinista alla Scala.
[37] Milano.
[38] Lettera di G. Pacini alla Presidenza del Teatro la
Fenice, Milano, 18 maggio 1831.
[39] L. Romanelli, Argomento n.2, Gusmano de Almeida. «Alfonso V, Re di Portogallo, fu Principe bellicoso, e militò per lungo tempo con prospera fortuna sulle coste dell’Affrica contro i Musulmani. Gusmano d’Almeida, giovane ardente, e desideroso di segnalarsi sotto le di lui bandiere, nel giorno medesimo delle nozze con Isabella d’Arcos, s’imbarcò sulla flotta ch’era già pronta per far vela verso l’Affrica, promettendo alla sposa, che presto sarebbe ritornato a lei più degno di possederla. Ma nell’ultima battaglia, nella quale i Portoghesi ebbero la peggio, sopraffatto dal numero dei nemici, non trovò altro scampo, per sottrarsi alla morte o alla prigionia, che quello di una pronta fuga. Dopo aver menata per qualche tempo una vita errante, malagevole, e disastrata, la Fortuna gli presentò un ricco e filantropo Mussulmano, che lo provvide d’un abito turchesco, giacché ne sapeva la lingua, e di denaro. Con questo sussidio viaggiò sino a Tangeri, che ha un porto sullo stretto di Gibilterra. Quando egli vi giunse, era tregua fra il sultano di Tangeri, e il Re del Portogallo; e perciò avrebbe potuto senza pericolo palesarsi per quello ch’egli era, e ridursi in patria: ma giudicò a proposito di trattenersi sotto le spoglie mentite in quella città per meglio indagare il carattere, e le forze della nazione, e i disegni di chi la governava, onde poi far uso di qualche utile cognizione qualora si rinnovassero le ostilità. La voce inoltre, che in quel frattempo falsamente si sparse, della morte di sua moglie Isabella, scemò in lui il desiderio di rivedere il paese nativo. Non andò […], che introdotto in corte si acquistò il favore del Sultano, e l’amore dell’unica sua figlia Zulmira, le di cui bellezze, e seducenti maniere gli fecero appoco appoco dimenticare la supposta perdita d’Isabella. Quindi avvenne, che amante riamato sagrificò alla sua nuova passione tutti i riguardi dovuti alle sacre istituzioni patrie, ottenne Zulmira in isposa, dalla quale ebbe un fanciullo, e fu creato Visir. Passò egli così circa 6. anni fra gli onori, e meglio ancora fra le dolcezze di marito, e di padre, quando Alfonso V. spedì al Sultano un’ambasciata, onde combinar con esso lui stabilmente la pace. Capo dell’ambasciata fu Emanuele d’Almeida, padre di Gusmano; ed Isabella volle accompagnarlo per impazienza di saper qual fosse stato il destino del perduto suo sposo. Ciò, che seguì dopo lo sbarco dei Portoghesi a Tangeri, si vedrà nel dramma».
[40] G. Berti si riferisce all’opera di G. Meyerbeer
Il crociato in Egitto, prima ass. Venezia, Fenice, 7 marzo 1824.
[41] G. Rossi (1774-1855), librettista.
[42] G. Meyerbeer (1791-1864).
[43] Lettera di G. Berti a G. Pacini, Venezia, 21 maggio 1831.
[44] G. Pacini, L’ultimo giorno di Pompei,
prima ass. Napoli, San Carlo, 19 novembre 1825.
[45] G. Donizetti, Anna Bolena, prima
ass. Milano, Scala, 26 dicembre 1830.
[46] G. Grisi (1805-1840), mezzosoprano.
[47] Lettera di A. Lanari alla Presidenza del teatro la
Fenice, Firenze, fine maggio 1831.
[48] M. Conati, I periodici teatrali e
musicali italiani a metà Ottocento, in Periodica Musica, Centre
international de recherche sur la presse musicale, RIPM – CIRPM,
Volume VII, p. 13.
[49] Ibidem.
[50] Ivi.
[51] Vedi nota n. 38
[52] L’elenco porta la data [12] Marzo
1831.
[53] Questa è la
Stagione di Carnevale e Quaresima che ha visto andare in scena la prima opera
scritta da Giovanni Pacini
per il Teatro la Fenice: Ivanhoe, 19 marzo 1832.
[54] Domenico
Morosini, podestà di Venezia dal 1827 al 1834.
[55] HENRIETTE MÉRIC-LALANDE, soprano.
[56] Rosalbina
Carradori Allan,
soprano.
[57] Stefania
Favelli, soprano.
[58]
Amalia Schütz Oldosi,
soprano.
[59]
Giuditta Grisi,
mezzosoprano.
[60]
Domenico Reina, tenore.
[61]
Luigi Riondini, basso.
[62] Domenico
Cosselli, basso-baritono.
[63] Vincenzo
Bellini (1801-1835).
[64] Carlo
Coccia (1782-1873).
[65] Giovanni
Pacini (1796-1867).
[66] Nicola
Vaccai (1791-1848).
[67] Ferdinando
Gioja, coreografo.
[68] Gaetano
Gioja, coreografo.
[69] Domenico
Ronzani, ballerino.
[70] Domenico
Morosini, è stato Podestà di Venezia dal 1827 al 1833.
[71] Stefano
Pavesi (1779-1850), compositore.
[72] Pietro Comarolo, avvocato, qui nel
consiglio del teatro, diventerà il - facente veci - di Lanari in Venezia.
[73] Giovanni Battista Correr, qui nel consiglio del teatro, sarà poi podestà ininterrottamente dal 1838 al 1857.
[74] Giuseppe
Berti, ricoprirà, negli anni, varie posizioni all’interno della
presidenza del teatro la Fenice.
[75] Frontini, signor.
[76] Romanelli descrive lo stato dei teatri
in Italia che, da Nord a Sud, lavoravano in “economia” di persone e mezzi!
[77] Lettera di L. Romanelli a g.
Pacini, Milano, 20 agosto 1831. Questa – inedita - lettera per mano di Romanelli, peraltro molto interessante,
è l’unica che abbiamo potuto reperire!
[78] Quell’anno alla Fenice andarono in
scena: Anna Bolena (Donizetti), L’ultimo giorno di Pompei
(Pacini), La Straniera (Bellini), I Capuleti e i Montecchi
(Bellini), Ivanhoe (prima ass. Pacini).
[79] Il Censore
Universale dei Teatri, n. 102, 21 dicembre 1831.
[80] Opera musicata da Pacini nel 1831
ma non rappresentata.
[81] G. Rossi, Ivanhoe, Venezia, La Vedova Casali ed.,1832.
[82] A. Casella, in OPERA Ottocento e
Novecento Libretti per musica e bozzetti scenografici originali dalla
collezione di Alberto De Angelis,
L’Arengario, Gussago (BS), 2017, p. 2.
[83] W. SCOTT, Ivanhoe, Oscar Mondadori, Milano, 2012, pp. 607-608 .
[84] E. von Kleist, Il duello, in Racconti, Berlin, Reimer, 1811, vo. II, pp. 165-240.
[85] F. BAGNARA (1784-1866) è stato uno scenografo, decoratore e architetto del paesaggio italiano.
[86] L. Previtali, Il Censore Universale dei Teatri, 28 marzo 1832, p. 98.
GABRIELLA MINARINI
BIONOTA
Gabriella Minarini ha fondato e diretto l’Atelier della Voce di Firenze per cantanti e musicisti.
Laureatasi a Firenze con Stefano Mazzoni con una tesi su L’allestimento di “Attila” a La Fenice – Venezia 17 marzo 1846 – ha portato avanti la sua ricerca sul teatro di Verdi e su quello di Pacini (con varie pubblicazioni).
Attualmente è impegnata in una ricerca sul Carteggio di Giovanni Pacini con il Teatro la Fenice di Venezia.
Ottimo saggio, approfondito e chiaro. Vivissimi complimenti!!!
RispondiEliminaGrazie infinite, Giovanni Pacini merita molto!
EliminaGrazie, molto interessante!
RispondiEliminaUn lavoro molto bello, interessante, ma complesso, molto complesso! Complimenti. Paola Di Giulio
RispondiEliminaGrazie infinite, la storia del teatro è complessa perché non è solo storia, è convenzioni, usi, relazioni tra teatri e politica ecc ecc ... ci sarebbe da fare un lavoro a parte !!
EliminaUn importante contributo su un compositore che ha svolto un'attività significativa nel panorama operistico dell'Ottocento italiano. Nicola Sfredda
RispondiEliminaGrazie concordo pienamente sul suo pensiero! Da, e con, Pacini veniamo a sapere molti fatti che non sono facilmente reperibili! lo dimostra che Le sue Memorie sono state usate per fare svariate "note" ne La Storia dell'Opera Italiana!! Le Le memorie sono state derise, hanno scritto che il maestro ha, se non millantato, esagerato il suo successo!! Non è così, basta leggere e confrontare i vari flop di altri !!
EliminaGrazie infinite,
EliminaGabriella